SANT’ANTONIO ABATE VA ALL’INFERNO

F. Valla

Parendomi che l’andata di Sant’Antonio eremita all’inferno per rubarvi il fuoco, e farne dono agli uomini, i quali ancora non lo conoscevano, meritasse ulteriori ricerche, le feci, e con buon esito.
Anzitutto debbo notare come questa credenza in Ozieri è tutt’altro che un caso sporadico: non posso dir nulla delle altre città sarde, ma per Ozieri sono in grado di assicurare che è una tradizione divulgatissima e radicata. Potrei fare il nome di ben quindici persone, le quali, con più o meno particolari, raccontano il viaggio del buon anacoreta nel mondo di là, ed il furto del fuoco.

Da tutti questi racconti trascelgo quello che mi fece una ragazza, la quale è analfabeta, e deve per necessità averlo udito da altri; la leggenda, che essa mi raccontò, la più completa che finora io abbia udito intorno a questo argomento, è degna davvero di essere riferita.

Sant’Antonio era un porcaro,* che un bel giorno, smesso il suo mestiere, si diede alla vita contemplativa, ritirandosi in un deserto. Un porchetto però, che gli era molto affezionato, non lo volle abbandonare, e gli fece compagnia per tutta la sua vita, seguendo il suo padrone in tutti i luoghi nei quali si fosse recato. Ora avvenne che una freddissima giornata invernale il santo s’incammino alla volta dell’inferno per esservi spettatore delle pene che soffrono i dannati, e rubare il fuoco ai demonii.

* Curiosa questa particolarità! Il porco dei quadri, ove è dipinto il santo, crea nel popolo la credenza che l’abate nella fanciullezza fosse un porcaro. Posto ciò, viene rafforzata l’ipotesi del Tedeschi (Rivista, I, fasc. IV, pag. 295): Del campanello nulla so. Forse al protettore delle bestie fu dato quel tintinnabolo per tenerle unite, come fa il campanaccio della mucca guidaiola ».

Naturalmente, il porchetto seguì le pedate del padrone, e penetrò anch’egli nell’orribile caverna piena di fuoco e di fumo, ove si trovano gli angeli ribelli e gli uomini morti in peccato mortale.
Non appena Sant’Antonio penetrò, subito i diavoletti, che erano di servizio all’entrata, ne diedero avviso a Lucifero, il quale disse:
– Ma questo non è un dannato, è un giusto. Ad ogni modo, se vuole restare, non disturbatelo.
Il porchetto intanto, com’è sua abitudine, scorrazzava qua e là, e, grufolando, metteva in iscompiglio ogni cosa con immenso dispetto e grande stizza dei demoni, i quali erano perciò obbligati qua a raccogliere tizzoni, là a raccattare pezzi di sughero, altrove a ricollocare a posto forche, tridenti od altri oggetti smossi dal grifo del porco impertinente.
Non minore era la rabbia che loro procurava il taciturno e grave santo, il quale, seduto sopra un sacco di sughero, proprio sul passaggio, si scaldava tenendo in mano il suo bastone.
Quando accadeva che passasse davanti a lui un demone per andare a riferire a Lucifero come avesse fatto cadere nel peccato qualche persona ancora vivente in questo mondo, il santo per dispetto alzava il suo bastone, e giù una buona botta su quella schiena nuda e rosseggiante.
I diavoli minori ne mossero lagnanza a Lucifero che, venuto in grande curiosità di conoscere quale fosse la fisonomia e la statura di questo santo prepotente, il quale bastonava i suoi dipendenti, disse ad alcuni di loro con voce chioccia: *
– Alzatemi le palpebre.
Si videro allora sei diavoletti prendere ciascuno una fuyitta (sorta di grossa forchetta per cucina), immergerle nella brace, tenervele per alcuni istanti finché non fossero arroventate, e poi cacciarle in mezzo alle ciglia di Lucifero, e alzargli le palpebre. Due grandissimi occhi torvi e spaventosi guardarono lentamente a sinistra. Poco dopo, Lucifero disse:
– Ho veduto, basta.
Le sei fuyittas si ritirarono, e le due palpebre calarono come due saracinesche.
Sant’Antonio non si spaventò a quella vista; anzi continuò a percuotere i demonii, che annunziavano il buon esito delle loro tentazioni, mentre il suo fido porco non cessava di andar qua e là grufolando, e smuovendo ogni cosa in cui s’imbattesse.
Dopo tre giorni, finalmente, il santo decise di ritornare nel

* La ragazza, che recitava la leggenda, giunta a questo punto per imitare la voce di Lubbè (così vien detto Lucifero ad Ozieri), ingrossò la sua rendendola cavernosa e gutturale, facendomi ricordare spontaneamente la voce chioccia, che odesi nell’Inferno dantesco.

suo deserto: aveva visto l’inferno, i dannati, i demonii, il suo bastone erasi convertito in un nereggiante tizzone, acceso all’un dei capi, e perciò poteva dichiararsi contento del suo viaggio.
Fa un cenno al porco, e infila l’uscio, mentre i diavoli emettevano un lungo respiro, come per significare: finalmente quel musone seccante se ne è andato.
Il santo non appena respirò di nuovo l’aria del nostro mondo, alzando in giro il suo bastone abbruciacchiato, come fa il prete quando dà la benedizione coll’aspersorio dell’acqua benedetta, ripetè tre volte:

 Fogu, fogu,
Peri su logu,
Peri su mundu
Fogu cecundu. ‘

    (Fuoco, fuoco,
Per (attraverso) questo luogo,
Per il mondo
Fuoco cecundu).


Da quel momento comparve il fuoco sulla terra; mentre che prima non si conosceva.

‘ Quest’ultima parola non ha alcun significato nell’ozierese: avendo interrogata la persona, che mi raccontava la leggenda, se ne conoscesse il significato, mi rispose che no. Ciò è una prova della antichità di questi versi.
Se ho a dire la mia opinione, io crederei che sia una corruzione di circumda, o pure circumdo; cosicché, spremendo il senso generale di questi versi, si verrebbe ad avere: « fuoco, spanditi per tutto il mondo ».
La forma circumda, che ora è scomparsa atfatto dal dialetto ozierese, forse ci porta in pieno medioevo.
Altri dicono: fogu prefundu (fuoco profondo) con manifesta allusione alla nostra leggenda.
A Pattáda (ove è diffusa questa medesima leggenda) l’ultimo verso suona fogu giocundu (foco giocondo), che spiega altrimenti il cecundo di Ozieri anche a Cagliari, e nel Campidano vive la credenza leggendaria qui sopra narrata.

Tratto Google Libri
Rivista delle tradizioni popolari italiane, Volume 1
a cura di Angelo De Gubernatis