La scala dei Giganti a Venezia


(Le statue rappresentano Marte e Nettuno)

MCCCC.

Due statue colossali poste nella parte superiore di questa scala hanno servito di origine al nome che le fu dato. Conduce essa al portico del palazzo di S. Marco, dove erano collocate quelle pericolose bocche di leone, nelle quali i delatori deponevano le loro denunzie. Era salendo questa scala che il doge novellamente eletto, e tutto risplendente di gloria e di pompa sovrana entrava nel palazzo ducale fra le acclamazioni del popolo. Fu altresì dai gradini della medesima scala, che la scimitarra del carnefice fece rotolare la testa venerabile dell’ infelice doge Marino Faliero.
In oggi il palazzo è quasi deserto: le bocche di leone non fanno più spavento al pacifico cittadino, e questo nobile monumento dello splendore di una sì celebre città, non è più che uno sterile ornamento al magnifico cortile del palazzo ducale.

Disegno e articolo da: Costumi dei secoli XIII, XIV e XV: ricavati dai più autentici …, Volume 2
Di Camille Bonnard.


SUL VERO ARCHITETTO
DELLA SCALA DEI GIGANTI DEL PALAZZO DUCALE
Dialogo
… Estratto di un discorso tra un Cicerone di Piazza, e un Illustratore di Storia Veneta.

… CICERONE. Eh io, signore, e parecchi altri miei colleghi non prendono di siffatti granchi: è una cosa tanto palmare che basta l’epoca al più zotico, chiarire il vero. Chi non sa che Sansovino fece nel 1554 le statue, che diedero il nome alla Scala; che la Scala stessa è del cinquecento? Se anche a qualche Cicerone sfuggisse lo sproposito, il forestiere, che non è mai un alocco, à già la guida in mano, non è indietro di storia; e poi chi potrebbe ignorare, che Marin Falier fu giustiziato nella congiura del Calendario del 1355?

ILLUSTRATORE. Oh bravo! è la prima Scala, dove fa decapitato Falier era appunto detta la Calendaria, e sorgeva dal lato della piazzetta, ove cominciò egli l’edifizio che fu dopo la sua morte, collo stesso disegno continuato, nella parte respiciente la piazza. Dopo abbiamo avuto un’altra scala nel palazzo, detta di piombo, perchè di lamine plumbee coperta, conosciuta col nome di Foscara, essendo stata eretta ai tempi del Foscari. Il quale per essa discese (non per la Scala dei Giganti, altro errore che mi ricordo in un articolo pittoresco sui Foscari di Filippo de Boni) quando dopo trentaquattro anni di regno deposto dal Dogato, con mormorazione della città, colla mazzetta, come scrive Sanudo, a lento passo, e appoggiato al braccio del fratello, ritiravasi al suo privato palazzo, il famoso che torreggia ancora sul gran Canale, tra i cui ruderi diroccati sembrano indistruttibili le reliquie della prisca maestà e magnificenza.
Ma queste sono ciarle. Prendete Vecellio, che è là. – (addita lo scaffale e il Cicerone glielo porge) Guardate: (aprendo il libro) questo è il tipo della Scala Foscara, ch’ egli ci à conservato; e osservate, che allora nel 1598 sussisteva ancora, quando già vi era l’altra dei Giganti, e pare sia stata disfatta sotto il Doge Nicolò Donato nel 1618. E qui l’illustratore dei Fasti Ducali non à fatto molto bene nel dirci, che sulla Scala dei Giganti fu decapitato Falier, e anche nel darcela litografata, quasi a maggior prova della sua asser. . .

CICERONE. Eppure (mi perdoni, se le interrompo il discorso, ma lo fo per non perder l’idea, che mi viene al momento), non potrebbe averlo fatto a bella posta, per dare maggiore risalto alla tragica scena, che rappresentava? Anche la Scala dei Giganti era già la Scala del Palazzo; che la testa sia rotolata un poco più in qua, o un poco più in là, nulla monta; e diceva un mio collega, io seguito a dire sulla Scala dei Giganti, perchè i forestieri ricevono maggiore impressione nell’ animo, quando devono calcare essi medesimi la Scala stessa, che veggono quasi col pensiero insanguinata dal luttuoso avvenimento…

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Redattore: Paolo Lampato


La morte di Marin Faliero

… Il consiglio dei Dieci, avendo quasi la certezza che il Doge fosse nel numero dei congiurati, risolvette di associarsi venticinque dei più rispettabili cittadini per deliberare sul partito da adottarsi; tutto il giorno del 15 fu impiegato a interrogare e giudicare i subalterni congiurati; il domani 16, il doge comparve davanti la giunta, (questo è il nome che si dette a questo tribunale straordinario).
Calmo era il suo portamento ed impassibile il suo volto. A coloro che lo interrogavano a furia, rispose con sdegno queste parole:
» Io non posso scolparmi davanti a miei sottoposti, ne riconoscere in voi
» il diritto legale di giudicarmi . . . . . Mostratemi la legge
Poi dopo un momento di silenzio, riprese:
» Voi opprimete il principe e il popolo; voleva liberare l’uno e l’altro, e non vi sono
» riuscito… Niente io nego, io in nulla mi difendo, non vi di-
» mando che il mio silenzio e la vostra decisione.
E questa non si fece lungamente attendere; la sera del 16 fu fatto il giudizio, ed unanimemente sentenziarono per la pena capitale. Il 17 all’alba fu eseguita la sentenza. Chiuse tutte le porte del palazzo, il consiglio dei Dieci, si appressò al doge; fu spogliato di tutte le insegne della sua dignità; quindi condotto sotto la loggia della corte del palazzo, gli fù tagliata la testa (1). Subitamente dopo, uno dei membri del consiglio comparve alla finestra del palazzo sulla piccola piazza, tenendo nella mano la spada insanguinata che avea servito per l’esecuzione pronunziò queste parole. È stata fatta giustizia al traditor della patria! Nel tempo medesimo furono spalancate le porte, e il popolo maravigliato potè contemplare il cadavere tuttor palpitante di colui che aveva tentato di essere il suo liberatore.
La sera, il corpo di Faliero fu posto sopra una gondola, e senza alcuna ceremonia trasportato nella chiesa di San Giovanni e Paolo. Ora quando si percorre la sala del palazzo ducale, ove sono tutti i ritratti dei dogi, non vi si trova quello di Faliero; in suo luogo vi è una cornice coperta di un velo nero con questa iscrizione: Hic est locus Marini Falieri, decapitati pro criminibus.

(1) Tutti gli storici ed i poeti unanimemente dicono che Marin Faliero fu decapitato sulla scala dei giganti; ma dopo le ricerche fatte da Giustina Ranier Michiel, e stampate nella sua eccellente opera: Origine delle feste veneziane, ben si vede fino all’ultima evidenza che questa opinione è completamente erronea. La scala dei Giganti non fù fabbricata che verso la fine del XV secolo, più di cento anni dopo la morte di Faliero; non solamente questa scala, ma ancora la intiera facciata del palazzo alla quale è appoggiata, e la gran porta che ivi conduce, e i due terzi della facciata del palazzo sulla Piazzetta.

Articolo da: Storia della Republica di Venezia, Volume 1
Di Léon Galibert


Ora siamo alle bocche del leone.

In Venezia v’era il modo di accusare segretamente, mettendo una polizza in cassette fitte in vari luoghi delle città, ed erano chiamate denuncie segrete. Una bocca di leone era l’apertura nella quale si gettavano le polizze nelle cassette, le chiavi delle quali stavano in mano dei magistrati. Tutti i principali magistrati, sia che vigilassero la quiete pubblica, sia che punissero i delitti, sia che amministrassero le finanze, avevano le proprie denuncie secrete. Una legge del 1387, 30 ottobre, ordina che le accuse senza sottoscrizione messe nelle denuncie segrete de’ dieci siano abbruciate.
Nel 1542, 30 agosto, si eccettuano le accuse per colpa di bestemmia, purchè significhino il nome di tre testimoni presenti al fatto sul quale si fonda l’accusa. Nel dì 12 ottobre 1588, e poi nel 1635, a’ 13 agosto, fu stabilito, che le accuse trovate nelle denuncie segrete del consiglio dei dieci, se non sono di baratti, giuramenti falsi, bravi e vagabondi, si lacerino; se di cose di Stato o simili, se ne faccia conto; ma per procedere contro l’accusato sia necessario la maggioranza di quattro quinti dell’ intero consiglio dei dieci.
Due leggi, 1615, 28 settembre; 1640, 27 marzo, prescrivono che le accuse con circostanze di maschere, archibugi, barche, siano liquidate, cioè provate da due testimoni innanzi agli avvogadori, e poi sieno portate al consiglio dei dieci, che delibererà se debba accettarle. Non comprovandosi le circostanze, le accuse sieno rimesse ai tribunali ordinari.
Con leggi 1617, 6 aprile; 1625, 15 novembre; 1626, 5 gennaro, le accuse sottoscritte dall’accusatore per essere accettate, dovevano ottenere due terzi dei voti dell’intero consiglio dei dieci.
Nel 1628, 25 settembre, e 1635, 25 giugno, il maggior consiglio ordinò, che le accuse sopra fatti accaduti nelle provincie, o venute dalle provincie, non debbano accettarsi che coi quattro quinti del consiglio dei dieci, e se si tratta di un nobile veneziano bastino due terzi…

Continua su: Venezia e le sue lagune: 1.1, Volume 1


Inquisitori di Stato

I mezzi d’autorità e di terrore di questa spaventevole polizia erano la delazione e lo spionaggio. La delazione era specialmente incoraggiata e protetta. Per renderla più facile e più sicura erano state fatte lungo il muro della corte del palazzo ducale a guisa di cassette in forma di gola di leone, delle bocche nelle quali i delatori potevano gettare o far gettare le loro rivelazioni. Sopra ad ognuna di queste bocche parlanti, una breve iscrizione indicava il genere di denunzia che era destinata a ricevere e portare a cognizione degli inquisitori.
Gl’ inquisitori ne avevano le chiavi e le aprivano ogni sera per fare lo spoglio di questa terribile corrispondenza. L’odio, la vendetta, la cupidigia, avevano con ciò mezzi così vili quanto sicuri da esser soddisfatti. Quando il delatore voleva ricevere il prezzo della sua denunzia, procurava di strappare un pezzo della carta che quindi portava alla segreteria del tribunale, e confrontato col rimanente del foglio, provava che il portatore era l’autore dello scritto.

Lo spionaggio era praticato sulla più grande proporzione indipendentemente da molte migliaia di osservatori ridotti a reggimento; l’inquisizione di Stato imponeva questa carica ad ogni sorta di persone di qualunque condizione (1).
Impiegavano specialmente i mendicanti il cui numero a Venezia era straordinario, le donne pubbliche, gli osti, i caffettieri, i barbieri, i gondolieri, gli ecclesiastici ed ancora i nobili. Si dice che fossero sessantamila, vale a dire quasi un terzo della popolazione. Questo numero prodigioso d’agenti aveva fatto accreditare questo proverbio: A Venezia parlano i muri. Lo spionaggio e la delazione spegnevano ogni mutua confidenza e introducevano il sospetto ed il timore fino in seno delle famiglie. L’impressione del terrore misterioso esercitato da questo tribunale era sì grande, che non si parlava che rarissimamente dei tre di sopra, ordinario nome degli inquisitori, e sempre abbassando gli occhi ed innalzando un dito verso il cielo, come per indicare una terribile e potente divinità. Non era neppur permesso di far conoscere l’esistenza e l’organizzazione dell’inquisizione di Stato come semplici fatti; e nelle opere dei due storici della fine dell’ ultimo secolo (Tentori e Formaleone) che hanno trattato in particolare delle istituzioni politiche di Venezia, si legge all’articolo degl’inquisitori queste linee scritte evidentemente per loro ordine:
« Non è permesso di ricercare, e molto meno di scoprire ed esporre gli uffici di questo tribunale, i quali non possono esser conosciuti che da quelli che son chiamati ad esercitarli ». …

(1) Gli osservatori erano addivenuti il principale appoggio dello Stato; purnonostante non godevano di una assoluta confidenza; se era necessario che fossero temuti, non avevano però pensato che avessero costantemente la volontà d’essere fedeli. Si erano prevedute le debolezze dell’uomo. Era proibito a chiunque si fosse di dire ad un osservatore dei Tre, che era uno spione. Alla prima parola di una tale ingiuria gl’inquisitori chiedevano al colpevole:
« Qual parola hai tu pronunziato? Chi te l’ha detta?
« Su via, la tortura fino a che tu non abbia parlato! Ah! tu conosci i segreti dello
« Stato? Chi te lo permette? La corda, i carboni, una secchia piena d’acqua amara,
« che bisogna bevere all’ istante, o manifesta allo Stato il segreto che pretendi conoscere! ». Naturalmente intorno simili materie si era soliti non dir niente, e gli osservatori erano raramente insultati; coloro che da per tutto abbassano gli occhi, a Venezia gli facevano abbassare al popolo.
Ma per prezzo di una tal protezione la più leggera mancanza, una menzogna, ancora un semplice errore dalla loro parte, era punito coi più severi castighi. Si conosceva d’altronde, qual doveva essere la circospezione, la probità necessaria nei rapporti fatti da quegli uomini, che meglio di tutti, sapevano che la giustizia dell’ inquisizione era terribile, e che a Venezia v’era un canale Orfano.
Al contrario se rimanevano virtuosi ed onesti le ricompense che loro si davano erano grandissime.

Da: Storia della Repubblica di Venezia
By Léon Galibert

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