La Pasqua Romana; maritozzi, scalette, campane legate, uova e salame.

1°) I maritozzi. — Sono certi pani di forma romboidale, composti di farina lievitata, olio, zucchero; ingrediente necessario ne sono pinuoli e passerina; talvolta canditure e anici ne crescono il pregio e la ghiottoneria; un velo di finissima fioccata bianca. distingue ed aggrazia quelli confezionati da’ pasticcieri, anziché da pristinai. Il maritozzo è la caratteristica del digiuno, il prodotto della vita quaresimale romana, conciliando esso in bel modo le esigenze di stagione con quelle della gola; esso è il profondo risultato della meditazione gastro-teo-logica, per risolvere con garbo il problema del precetto, che ordina di non sorpassare tante oncie nel pasto mattutino e serale (refetiunculae); un maritozzo o due inzuppati al cioccolatte la mattina, ed un buon bicchiere di vino generoso la sera, compongono la colezione e la cena degli osservanti il digiuno ecclesiastico.

Di maritozzi si fa in Roma un gran consumo in quaresima, e non sempre (mi scappava dalla penna mai) per vero spediente onesto di privazione gastronomica; non ora solo, bensì nei tempi di rigore, e sotto la dominazione pontificia, si vedevano pei caffè mangiarne giorno e sera coloro, che in pari ora nulla avrebbero mangiato in tutto il resto dell’anno; invano nell’ora dei catechismi vespertini, e nelle mattutine della messa domenicale, caffettieri e pasticcieri dovevano serrare le porte al diavolo; il diavolo cacciato dalla porta rientrava dalla finestra; a nuvoli i cattivi cristiani entravano nelle botteghe semichiuse o dalla porticina postica a far onore alla quaresima divorandosi ognuno una diecina di maritozzi.

I maritozzi, che portavano la palma su tutti erano quei casalinghi del fornajo a S. Pietro (si pagavano 2 bajocchi e 1⁄2), i più scrocchiarelli e saporiti di quanti se ne fabbricavano in questa antica Città dei Cesari.
Ogni vero Romano si faceva un dovere, almeno una volta in quaresima, di assaporarli; a frotte correvano i buoni Quiriti al Vaticano; comitive di giovinotti, ragazze, mamme, babbi, zii, cognati e amanti non fallavano, in uno almeno dei Venerdì di Marzo, in una stanza appartata di qualche osteria, ovvero nel santuario domestico, di celebrare la solenne maritozzata di rito.
La bottega famosa era invasa da turbe di avventori ansiosi, che rumoreggiavano impazienti sostando talvolta lunghe ore in una fila interminabile per riportare la ghiotta preda: il fabbricante, che ne forniva tutta Roma, faceva affari d’oro, affari favolosi; – “Ogni cosa mortal passa e non dura” – la concorrenza lo rovinò poi: venne Giobbe al Circo Agonale, venne Orlandi all’Arco di S. Agostino, ed altri e poi altri, in fine tutti i fornai di Roma rubarono il segreto del genere al fortunato maritozzaio di S. Pietro; e così finì la sua gloria.
Sono queste caratteristiche nostrali, che la storia dei costumi non deve disdegnare perché umili e minute.

2°) Le scalette di mezza quaresima. — Era un altro bizzarro costume, che rappresentava come un avvenimento pubblico in quell’epoca semplice e credente. Mezza quaresima era un fatto di gran rilievo, quando l’osservanza del digiuno era anche civilmente obbligatoria e strettissima, vietandosi per circa 7 settimane consecutive dell’anno, ogni uso di carne e di latticini, ond’era in voga tanto la canzonetta:

Per quarantasei giornate
Non si mangian più frittate.

L’essere arrivati a mezza strada di questa Via Crucis dolorosa era già un bel risultato. Nel giovedì pertanto, che la quadragesima in 2 parti taglia eguali, detto perciò giovedì di mezza quaresima (mentre il buon vescovo di Milano S. Carlo Borromeo largheggiava invece a’ suoi diocesani un altro genere di compenso nel loro celebre Carnevalone), si usava invece in Roma un’altra curiosissima cerimonia.

Popolani di buon volere formavano un fantoccio di vecchia, composta di fichi, frutte secche, aranci, pani di cioccolatte, maritozzi ed altre leccornie quaresimali in una compage ben impaccata. Questo fantoccio assai alto e grande, simboleggiante la dolente immagine del digiuno, si trasportava in sedia gestatoria a Campo Vaccino, al Foro Romano, e colà tra gli archi e le colonne trionfali dei conquistatori del mondo, in un recinto già preparato composto di assi ben alte da terra, raffigurante un castello o fortezza, si collocava il simulacro, come su di un trono; quindi i Commissari della festa, procedevano alla vivisezione della vecchia, che senza una pietà al mondo, te la segavano in mezzo; la quale cerimonia significava che la metà della quaresima era bella e ita.

Una metà di quel misero corpo veniva portato via dagli ordinatori dello spettacolo, per servire di fiero pasto alla comitiva; l’altra, come una cuccagna di nuovo genere, era lasciata in preda alla plebaglia famelica. Non appena il campo era libero, i ragazzi, come una fiumana, lo invadevano; mentre però i primi entrati nel recinto erano intenti a far bottino, altri montavano in diversa guisa all’assalto della fortezza, per iscavalcare i merli della quale il più sicuro ed acconcio mezzo erano le lunghe scale a piuoli; così gli esclusi davano la scalata per procurarsi almeno i rimasugli, che quei di dentro difendevano a tutta forza; i nuovi venuti dal canto loro si aiutavano anche gittando acqua su quei, che stavano alle prese col fantoccio, animandosi vicendevolmente all’impresa al grido di Acqua! Acqua!

Da questa patria costumanza nacque l’uso, che ancor si ricorda, di appiccare di sorpresa delle carte tagliate in forma di scale, dietro alla schiena delle persone (che giravan a loro insaputa con queste bianche code fatte a scala, lunghe talvolta dal collo ai piedi), e contro quelle gridare Acqua! Acqua! e gettarne fino ancora con grave noia e danno del povero mal capitato.
Era questo il ricordo dello spettacolo dismesso da forse un secolo al Foro Romano, che venne proibito per gli gravi sconci a cui dava frequenti occasioni; l’uso però delle scalette era vivo ancora un trent’anni addietro, ma ora grazie a Dio, si può dire se non del tutto estinto, almeno ridotto a minimi termini, e nei chiassoli del più basso popolo.

3°) — Si legano e sciolgono le campane; trictrac; tavolozze; colpi ai portoni; botti. — “Le campane tacciono fortunatamente in Roma per due giorni, dalla mattina del giovedì a quella del sabato santo” scriveva il Belli annotatore di se stesso ai Sonetti, che lo immortalarono. Ma perché si legano, come dice e crede il volgo, le Campane, quasi satirizzando inconsapevolmente il loro moto perpetuo in Roma? Ce lo dice Angelo Rocca, il fondatore della Biblioteca Angelica in Roma: “In triduo Hebdomadae Sanctae, qua Passionis et Mortis Christi Domini Salvatoris nostri memoria recolitur, Campanae non pulsantur, sed silent, et Campanarum loco Tabulae malleo ferreo pulsantus, quia tum siluerunt Apostoli, et Predicatores, atque alii, qui per Campanas, ut scribit Guillelmus Durandus (Ration. Divin. Offic., VI, 72, n. 3). Intelliguntur, aut designantur (De Campanis in SALLENGRE, Thesauro, t. II, pag. 1290).

Questo mutismo campanario è insomma un’allegoria liturgica; il mesto loro silenzio, serve ad indicare l’abbandono degli Apostoli, la Morte e la Sepoltura del nostro divin Redentore. Ed è legge ecclesiastica questo silenzio delle campane negli ultimi giorni della Settimana Santa (LAMBERTINI, Notif., I e nel T. II delle Feste di G. C., p. 251). I più fedeli osservanti dei riti giungono perfino (come nei monasteri e conventi di frati e di monache) a legare le campanelle; e questa soppressione di tintinnaboli si pratica perfino in talune case private, ove si tappa la bocca alle sonnettes; i carrettieri romaneschi, bestemmiatori e credenti ad un tempo, non mancano mai d’insaccare le assordanti sonagliere dei loro cavalli, di maniera che non rompano il silenzio ingiunto dalla liturgia cattolica agli altri bronzi. Ma che per questo? Le orecchie (beati i sordi !) non per questo riposano; pel genere umano il tormento del suo simile o in un modo o in un altro è sempre un intento proseguito con zelo e con gioia; il tutto sta a legittimare la cosa; questa è presto legalizzata.
Le campane e tutti i pubblici orologi tacciono, sì; ma c’è il tric-trac, ci sono le tavolozze, ci sono i crotali o nacchere, ci sono i ragazzacci, cui non par vero potere, in cordoglio per la morte del Divino Maestro, tormentare con ogni maniera di strepiti e di fracassi il prossimo, che dorme, o che medita i sacri misteri. “Sono “Sono generalmente i fanciulli (prosegue il Belli), che con mazzuoli di legno vanno, nel giovedì e venerdì santo, percuotendo le porte delle case e delle botteghe, imitando il fragore e le altre convulsioni della natura nella morte del figliuolo di Dio”. I chierichetti in cotta sulle porte delle chiese e per le vie della parrocchia, con un fervore degno di miglior causa, pretendono compensare il pubblico del broncio di tutte le campane, ed orologi, annunziando collo strepito del tric-trac, ossia delle tavolozze, le ore e i quarti, spiegando in questo servizio uno zelo da emulare quello di Pulcinella, che divenuto governatore di non so qual paese, faceva suonar mezzogiorno (l’ora si cara del suo desinare) a tutte le ore.

Ma che cosa è il tric-trac? Sentiamo l’autore della romanesco-latina Descriptio Pueronim, qui in ultimis majoris Hebdomadae diebus ligneis malleis pulsant januas Domorum, et gradus sacrorum Templorum, Patavii, 1715, pag. 32:

Est tabula ad geminos palmos producta: sed unum
Per palmum lata est; quae leve pondus habet.
Hanc puer impugnat destra, extat quippe foramen,
Aptatur facilis cui bene clausa manus.
Inde citus properans agitat versatile lignum;
Ferrea sic edunt pondera mota sonum.

Ma l’incarico ufficiale del chierichetto è coronato dall’opera volontaria di tutti i garzonetti e vagabondelli del quartiere, che a nuvoli seguono il primo, rincarando la dose con istromenti loro propri:

Saepius hunc sequitur puerorum coetus euntem,
Ut socium juncto turba fragore juvet.
Mallei ad instar habet quisquis portatile lignum,
Imponens humeris hoc prope colla gerit.
Incedunt pueri; en fortasse domum esse locandam
Fixa super tabulam pagina scripta docet.
Impugnant juntis manibus vibratile lignum,
Atque simul sistunt protinus ante fores.
Utraque tunc celeres extollunt brachia; vires
Dat motus, quo fit fortior ipsa manus.
Motum cum faciunt, humerisque juvantibus ictum
Vibrant, et replicant, ocyus inde obeunt.
Tunc sibi dant plausus pueri, majoraque tentant;
Scilicet audaces exitus iste facit.
Ipsas ergo domas, quas occupat incola Civis,
Percutit interdum, sed fugitiva cohors.

Ma poi male incoglie talvolta ai cattivelli:

Saepe luit meritas nimia haec audacia poenas;
Nempe hos contra ictus, ultio saepe latet.
Incola dum pueros repetitis ictibus audit
Clamantes, abdit se, insidiasque parat.
Expectat cautus pueros, nam janua clausa est,
Et super imposita est clausa fenestra domus.
Paulatim hanc aperit, manus inde aptissima plenum
Fas sordentis aquae proijcit in pueros.
Hos, lapso imbre, lavit, qui auras clamoribus implent
Et jam deceptos nil fuga sera juvat.

Del resto questo tric-trac è un antico uso conventuale, del quale si fa menzione da VALAFR DO STRABONE: “Apud alios enim devotio sola cogebat ad statutas horas concurrere. Alii pronuntiationibus publicis invitabantur, et in una solemnitate proxime futuras dicebant. Apud quosdam Tabulis, apud nonnullos Cornibus horae prodebantur (De div. Off., c. V.)”.
Nel rituale romano siffatto istrumento vien chiamato crotala (nacchera), o index (avvisatore), come si ha dal MAGI: CROTALA. Vien così chiamato nel Messale Ambrogiano lo stromento di legno, che si suol sonare nel Venerdì Santo in vece di campane.
Voce greca xpóτaλov la quale si deriva da xρotέw, che significa bussare, e far strepito (Notitia de’ vocaboli ecclesiastici, Roma, Mascardi, 1650, pag. 88) — Index Era una tavoletta con la quale invece di campana, si davano li segni ne’ monasteri per chiamare li monaci all’oratione, e ad altro esercitio monachale; così la chiama Smaragdo commentando le regole di S. Benedetto: Cum index in oratorio percussus fuerit, mox omnes audientes antequam currant faciant sibi crucem in fronte, respondentes Deo gratias, et tunc laborantes opus proijciant, artifices ferramenta dimittant, scriptores litteram non integrent (!!!), omnis fratrum manus deserat quod agebat. In c. 43″ (Ivi, pag. 150).

Ma la Chiesa non vuol sempre duolo; deposti gli abiti o i segni di lutto i sagri ministri la mattina del Sabato Santo, in cui la liturgia anticipa la risurrezione del Redentore, si veste a festa: i sagri ministri lasciati i paramenti paonazzi, assumono i bianchi:

Via coi pallii disadorni
Lo squallor della viola:
L’oro usato a splender torni:
Sacerdote, in bianca stola
Esci ai grandi ministeri,
Fra la luce dei doppieri
Il Risorto ad annunziar.

(A. MANZONI, La Risurrezione, Stf. 11)

Alla Sistina in Vaticano solennizza il grande Alleluja cristiano una messa cantata coll’assistenza del Papa; il celebrante è un Cardinale di S. Chiesa. Dopo la lezione delle XII Profezie, e il canto delle Litanie, si accendono le candele all’altare e alla cancellata della Cappella; si leva dal trono del Papa il velo violaceo, e dall’altare il paliotto paonazzo, restando scoperto il bianco, celato fino allora al disotto del primo; i camerieri dei Cardinali vanno a togliere le cappelle violacee agli Eminentissimi loro Padroni, che si rivestono le rosse, coll’aiuto dei loro caudatarj.
Incomincia la Messa de’ Neofiti, il Papa asceso al trono incensa col turibolo l’altare, per essere incensato egli a sua volta dal 1′ Cardinal Prete, frattanto i musici cantano i Kyrie; alla solenne intonazione del Gloria in Excelsis Deo, si scuopre il quadro dell’altare, rappresentante in arazzo la Risurrezione; i soldati, i camerieri raddrizzano le armi, e le mazze, che in segno di duolo tenevano capovolte al suolo dal Giovedì Santo.
In questo punto si sciolgono le Campane ed esse (riprendo col Belli): “riprincipiano tutte insieme uno scampanare arrabbiato, lo che dicesi sciogliersi, e si sciolgono in fatti davvero per rifarsi del tempo perduto. ” E si suonano non solo le campane, ma tutti i campanelli, e gli organi; sparano (cioè sparavano) le artiglierie di Castel S. Angelo, e nella sala Regia del Vaticano squillano le Trombe della Cavalleria.

Finito il Gloria, fra tutto questo scampanar doppio e festoso e rimbombo dei cannoni e dei moschetti da tutte le finestre, veroni e loggie della città, e dai casolari campestri il suddiacono Auditore di Rota nella Sistina, parato di tonicella bianca, e accompagnato da un cerimoniere, dopo le genuflessioni di rito a piè del soglio, dice ad alta voce al Papa: “Pater Sancte, annuntio vobis gaudium magnum, quod est Alleluja“.
Alleluja per 3 volte s’intuona nella Sistina, e il cantico di allegrezza vien proseguito dal coro.

E Alleluja intuonava l’anzidetta moschetteria volontaria di tutte le città e suburbio, continuata per due o tre ore; “allora si sparano (annota il Belli) per la città colpi di ogni specie di fuoco artifiziato, e di armi, negli orecchi e sugli occhi dei galantuomini, che passano;” e ben ricordo, che io piccolo artigliere, sudavo, come Bonaparte all’assedio di Tolone, sparando arrabbiatamente un cannoncino di ferro, col suo bravo projettile, un chicco di cece. Questi erano i celebri Botti di Sabato Santo, che furono imitati poi dai Quiriti, nel cuor della notte per molti anniversari del XX Settembre del 1870, finché non furono vietati per misura igienica, non meno che di sicurezza, dalla Polizia Italiana.

4°) Uova e salame. — Un modo proverbiale de’ più vivi ed efficaci di nostra lingua, del quale si deliziava tanto il P. Cesari (che, con anacronismo veramente imperdonabile, lo mette fino in bocca a M. Tullio Cicerone, in quella sua per altro mirabile traduzione delle lettere del grande Oratore Romano) è il dire: Ti desidero, o desidero tal cosa più dell’uovo di Pasqua! Questo detto compendia, meglio di qualunque altra spiegazione, tutta una storia di costumi. Le uova essendo anticamente proibite, al pari delle carni, in quaresima, solevano mangiarsi con ansietà ed allegrezza il giorno di Pasqua, per riprenderne l’uso, ed il brodetto, ch’è una zuppa di pane con brodo coagulato per via di uova, era ed è tuttavia nelle famiglie più attaccate alle vecchie tradizioni, la minestra di rubrica della festa, ed ha dato origine all’altro proverbio usualissimo in Roma, per significare un po’ sarcasticamente, che la tal cosa è nota ed ammessa da tempo antichissimo: È più vecchio del brodetto!

Nel Sabato Santo, detto ecclesiasticamente il Gran Sabbato, veggonsi curati, ed altri preti addetti alla parrocchia (famoso tra questi D. Augusto Berlucca di S. M. in Trastevere, che si pavoneggia col suo fiocco d’oro, miracolosa calamita di piastre d’argento, che piovongli nel secchiello dell’acqua santa) girare in cotta e stola gialla per le case a benedire le uova, e gli altri cibi destinati a servire nella seguente solennità di pasqua, i quali fanno bella mostra sopra le mese ammantate di candide tovaglie, e per segno di solennità ed allegrezza cosparse di fiori ed erbe odorose.

Nelle famiglie il Prete è atteso in grande convulsione e trambusto; per solito i piccini, quasi penzoloni alle finestre, sono incaricati di avvisare la mamma del suo arrivo: Ecch’el prete! è il grido di guerra: a tale annuzio tutta la casa è sottosopra, per disporsi a ben riceverlo. Entra finalmente il parroco borbottando per solito in voce nasale profonda e sempre in fretta le formole di rito, accompagnato dalle risposte argentine del chierichetto, che lo segue; giunto avanti la mensa apparecchiata pronunzia, secondo il Rituale Romano di Paolo V, la benedizione delle Uova:

V. Adiutorium nostrum in nomine Domini.
R. Qui fecit coelum et terram.
v. Dominus vobiscum.
R. Et cum spiritu tuo. Oremus. Subveni, quaesumus Domine, tuae benedictionis et gratiae huic OVORUM creaturae ut cibus salutaris fiat fidelibus tuis in tuarum gratiarum actione sumentibus, OB RESURRECTIONEM Domini nostri Iesu Christi, qui tecum vivit et regnat in saecula saeculorum.
R. Amen.

(Aspergat aqua benedicta). (RITUALE ROMANUM, Venetiis, Iuntae, 1624, pag. 206).

L’origine gastronomica delle uova di Pasqua l’abbiamo indicata: ci resta a dire della causa liturgica che diede motivo alla scelta di codesto simbolo di risurrezione, come lo chiama il Rituale; ed ecco quanto pare si possa affermare in proposito.
Nelle agapi dei primitivi cristiani le uova erano il principale alimento; si sono trovate coccie d’uovi naturali nei loculi dei martiri (RAOUL ROCHETTE, Mem. de l’Ac. des Inscr., t. XIII, p. 78), ed uova di marmo, similissime a quelle di gallina in altre tombe di martiri, e tra le reliquie di S. Balbina e Teodoro (BOLDETTI, Osservazioni sopra i Cimiteri de’ Santi Martiri…, Roma, 1720, p. 519).
In quest’uso scorgesi una ragione mistica; l’uovo era riguardato come simbolo di rigenerazione e particolarmente della risurrezione (CATALANI in CAVEDONI, Monum. delle Arti Crist., p. 48).
Si considerava l’uovo come un simbolo di speranza: “La speranza si paragona all’uovo dice S. Agostino, la speranza non ha raggiunto lo scopo, similmente l’uovo è qualche cosa, ma non è ancora pulcino” (SERM. CV, 8).
Da questo è venuto l’uso rituale, che si è perpetuato fino ai nostri giorni, di mangiare l’uovo benedetto, avanti d’ogni altro cibo, il giorno di Pasqua di Risurrezione, che si denomina anche, per lo stesso motivo, Pasqua dell’uovo, dal suo simbolo ed emblema caratteristico; come Pasqua Rosa, ossia l’Ascensione, è detta dal fiorito maggio, in cui ordinariamente cade, la quale ha pure nondimeno il suo Uovo rituale.

Di tutta questa nostra storia sui maritozzi, le scalette di Quaresima, il legamento e scioglimento delle Campane, i botti, i trictrac, l’ova, il salame troviamo un bellissimo quadro umoristico in un sonetto del Belli:

Er bon Cristiano.

Come io nun so’ Cristiano?! Io fo’ la spesa
Ogni giorno der santo maritozzo:
Io nun cenavo mai, e mo’ me strozzo
Pe magnà ott’oncia, come vo’ la Chiesa.
Ciò avuto la scaletta, e me so preso
Pe l’amor de Gesù sino ar barbozzo
Una pianara 2 o dua d’acqua de pozzo;
E l’acqua Iddio lo sa quanto me pesa! 3
Io fo’ ar su’ tempo li portoni rotti 4
Co’ la mazzola; io, sciorte le campane,
Sparo la divozione de li botti. 5
Io pijo pascua pe’ me e le mi’ poste;
E pe’ tappo dell’opere cristiane,
Fo’ benedì er salame e l’ova toste.

1 Adesso (lat. modo) — 2 Propriamente la gora d’acqua, che corre per le vie in tempo di pioggia — 3 Mi disgusta; a questo buon Cristiano piaceva soltanto il vino — 4 Batto colla mazzola i portoni il Sabato Santo — 5 Spari, o scoppi d’armi da fuoco — 6 Vendo i biglietti pasquali ai miei avventori — 7 Compimento.


Da: Il Cracas; Diario di Roma
Digitalizzato per Google Libri