L’uovo di Pasqua

PREAMBOLO AI FANCIULLI

Il seguente breve racconto ebbe già luogo a piacevole e istruttivo intertenimento di una brigata di fanciulli, che antecedentemente avevano avuto degli schiarimenti sull’alto e bel significato della santa festa di Pasqua; ed essendo tornato dilettevole non solo a’ fanciulli, ma a molti adulti pur anco, son da credere, che riuscirà aggradito anche a voi, o miei cari, anzi anche a vostri fratelli e sorelle maggiori, e perfino ai vostri genitori. Sia dunque stampato per voi, e abbiatelo come un tenue regalo di Pasqua.
Benchè il racconto, come si rileva dal titolo, abbia per oggetto una frivolezza « L’UOVO DI PASQUA » pure non mi sconfido, che vi darete a leggerlo volontieri; che mentre tratta di un piccolo dono, proveniente da Dio « un uovo » costituisce insieme una maraviglia della Onnipotenza e Sapienza divina, e conseguentemente un benefizio per gli uomini, Oh! come sovente Iddio si serve di picciole cose a dar glorioso argomento della sua santa Provvidenza e delle sollecitudini di Padre amorosissimo!
Questa ed altre buone istruzioni formano precipuamente la materia del presente libretto. Valga il resto a vostro innocente sollazzo, o fanciulli, non altrimenti, che forse la vostra madre vi regala un uovo per la festa di Pasqua, il quale nel mentre vi dà nutrimento, con un piacevole esteriore di svariati colori non lascia deliziarvi la vista.

CAPO I.
Oh!… Qui non ancora si trovan polli?

Volge oramai qualche centinaio di anni, dacchè alcuni poveri carbonai traevano lor vita al fondo d’una montagna in una piccola valle. Era questa intorniata da selve e dirupi. Vi si scorgevano a luogo a luogo misere capanne: poche piante di ciriege e di prugne vicino a ciascuna capanna, orzo, avena, lino e canapa seminati in picciolo campo, una vacca ed alcune capre formavan tutta la loro ricchezza.
Oltracciò ritraevano un piccol guadagno dai carboni di legne, che essi approntavano sulla montagna pe’smalti di ferro. Scarsi invero erano i redditi di quel popoletto, ma pure viveasi fortunato, perchè parco ne’ desideri. Il duro tenor di vita, gli assidui travagli e il vivere frugale contribuivano alla salute loro in guisa, che in que’ poveri tuguri vedevansi uomini prolungar la lor vita oltre ai cento anni; lo che si cerca indarno tra le morbidezze ed il lusso.
Era uno di que’giorni, in che l’avena comincia a biondeggiare, e il clima della montagna divien caldo, quando si ritornò a casa tutta ansante una carbonarella, mandriana di capre, che diè avviso a’genitori, esser giunti nella valle forestieri in maraviglioso arnese, e di stranio linguaggio: una nobile dama, due bambini ed un uomo bene attempato, il quale malgrado la eleganza del vestire, pure avea sembiante di servo « Ah! disse la pastorella, quella buona gente è assai stanca, ed ha fame e sete. Andava io in traccia di una smarrita capra, quando la incontrai tutta spossata sul monte, e le additai la strada della nostra valle. Rechiamole qualcosa da mangiare e da bere, e vediamo se nella notte la si potesse mettere al coperto con noi e co’ nostri vicini ».
I genitori, fornitisi del pane d’avena, del latte, e del cacio di capra, vi accorsero tosto. In questo mentre i forestieri riposavano al rezzo di un alto scoglio vestito di cespugli. La Dama, coperto il viso di una bianca finissima stoffa, erasi adagiata su di muscosa rupe, ed una vezzosa delicata bambina le sedeva sul grembo.
Il servo, venerando per l’età, era tutto inteso a discaricare del gran bagaglio un mulo, che seco loro traevano. L’altro fanciullo vispo, bello di aspetto, e vivace porgeva al giumento alcuni cardi, che avidamente divorava.

Il carbonaio e la sua moglie rispettosi avvicinaronsi alla forestiera, facendole onorevoli esibizioni; mentre al nobile aspetto, all’apparato, al lungo e bianco vestito conobber tosto, esser gente di condizione non vile — Ve’ve’, la carbonaia a voce bassa disse al suo marito, ve’ il ritto collare con quanta eleganza è intagliato! ve’i fini merletti, donde le delicate mani appaiono per metà!… Per bacco!… le scarpe, gremite di argentei fioretti, sono bianche qual fior di ceraso!… — Il marito allora riprese la sua moglie dicendole — E tu sempre piena la testa di vanità!… Si sa che ad alto rango si addicono ragguardevoli vestimenta.
Il vestito peraltro non fa l’uomo migliore: e con delicate scarpine la buona Signora ha dovuto fare non pochi e duri passi, battendo strade aspre e dirupate. —
Quindi fecero offerta alla Dama del latte, del pane e del cacio. Questa rimosse il velo, e rimaser quelli ammirati della bellezza e dell’aggraziata fisonomia della Signora, che in dolci modi fecesi a ringraziarli, e tosto in una tazza di argilla porse bere del latte alla bambina, che le sedeva su i ginocchi: lagrime belle bagnarono le vermiglie sue gote, mentre la bimba, graziosamente con ambe le mani sostenendo la tazza, avidamente beveva. V’accorse ancora il vago fanciullino e bevve.
Indi l’affettuosa madre distribuì loro del pane, mangiandone anch’essa e bevendo. Il vecchio forestiero poi trovava tutto il suo gusto nel mangiare del cacio. In questo mentre e grandi e piccoli uscirono delle capanne, e attorniarono que’ forestieri di fresco arrivati, osservandoli con curiosità e maraviglia.
Il vecchio, dopo essersi ben cibato, si fe’ a pregare caldamente que’carbonai a cedere per qualche tempo alla Signora una capannuccia, e ciò senza incomodo alcuno, essendo ella pronta a largamente soddisfarli di tutto — Ah sì! disse la dama in dolce e obbligante maniera: vi prenda compassione di una misera madre, che per avverso caso insieme a questi due figli, che vedete fu scacciata della patria — Quella buona gente tostamente si appartò per poco, e tenne consiglio a far paghi i di lei voti.
A piè del monte tra rossicci scogli scaturiva un piccolo ruscello, bianco come latte, che, frangendosi tra rupe e rupe, dava moto ad un mulino fabbricato sur uno scoglio. Non molto lungi il mugnaio si era costrutta un’altra ben pulita casipola. Era questa, come le altre della valle, tutta di legno, ma graziosa a vedere, piacevolmente ombreggiata da piante di ciriege colla adiacenza di un piccolo giardinetto, ed il mugnaio si avvisò esibirla per ricovero a quella Signora.

— La mia nuova capannuccia lassù (disse egli,e fe’ cenno in alto colla mano) volonteroso io vi cedo tale, quale ora la si trova. È nuova dalle fondamenta, e nissuno l’ha fin d’ora abitata. Mi determinai a fabbricarla per fissarvi il mio soggiorno, quando avessi ceduto il mulino al mio figlio. Oh come il caro Dio, che sia ringraziato, si prende mirabil cura di voi! Non prima di ieri mi riuscì menarla a perfezione, ed oggi potete voi gia’ prendervi stanza. E’ pare, che io l’abbia appositamente fabbricata per voi. Andate, vi piacerà certo.
La buona Signora rimase all’intutto soddisfatta di così amicale esibizione, e dopo breve riposo, senza più vi ascese. Recava in braccio la sua piccola bambina, mentre il vecchio servo guidava a mano il ragazzo.
Il mugnaio poi tolse a sè la cura del mulo. La Dama trovò quella casipola adatta oltre i suoi voti, compiacendosene molto il mugnaio. Era fornita di tavola, sedie e lettiere. Vi accomodò i bei tappeti e le superbe coperte da letto, che seco portava, sendo presso, l’ora del dormire; e prima di corcarsi insieme ai due bambini ringraziò a Dio di vero cuore, perchè dopo un lungo andar vagando, l’aveva finalmente provveduta di corrispondente asilo. — Chi avrebbe mai creduto, andava ella tra se dicendo, chi avrebbe mai creduto che io, cresciuta ne palagi, avessi dovuto chiamarmi felice per trovare ricovero in tal capanna? Oh come i potenti hanno bisogno di operare del bene, e tornare aggraditi anche ai più meschini! Ove eglino fossero sì duri da non farlo рег filantropia, dovrebbero almeno essere a ciò istigati dalla prudenza: mercecchè nessuno sa cosa mai gli soprasti. —
Il dimane la dama per tempissimo uscì dell’umile tugurio unitamente a’ suoi bambini, a fine di osservare que’ dintorni, non avendone avuto agio il dì avanti per la stanchezza. Con maraviglia veniva ella scorgendo quella verdeggiante graziosa valletta gremita di capanne, e irrigata da argenteo rivo, che giù discorrendo dal mulino, vagamente vi serpeggiava nel mezzo. I balzi qui verdeggianti e quà svariatamente colorati, ove andavan pascolando le capre, non potean presentare una veduta nè più graziosa nè più pittoresca. Dolce era l’incanto, che i mattutini raggi, amabilmente tremolando, producevano nell’animo di que’forestieri.

Il vecchio mugnaio non appena vede la dama co’ suoi bambini fuori della casuccia, che incontanente esce del mulino, si fa su di un angusto ponticello, passa all’altra parte del rivo, e dice — Eh! . . . non è forse questo il sito più delizioso della valle? È qui che il sole vibra i suoi primi raggi; e mentre ora le contrade della valle sono ancor brune, qui tutta la collina è pressochè indorata dal sole; nè di rado interviene, che, quando nella bassa umida valle a malapena si scorgono fuori della grigia nebbia i cammini delle capanne, qui si gode di un cielo chiaro ed azzurro.
I figliuoli della dama peraltro si deliziavano grandemente al vedere la ruota del mulino da continuo moto agitata; ed il bambino si piaceva massimamente del suono fragoroso delle acque, qual fresco latte spumanti, mentre la ragazza trovava tutto il suo contento nelle brillanti pietre preziose, che, conforme essa diceva, svariatamente colorate dai raggi del sole, cadevano a gocce giù per la ruota.
La dama consumò tutto quel dì nel porre in assetto le sue cose alla meglio che poteva, atteso la meschinità di quella valle. Quei buoni carbonai facevano a gara onde provvederla di viveri, di legne, di stoviglie e di altre coserelle, che poteano farle mestieri. La mandrianella poi, che Marta avea nome, e che le aveva additato il sentiero per la valle, le si offerse a serva.
— Prima d’ogni altro ho bisogno di uova — disse la Dama, mentre Marta si accingeva a cucinare: — ve’di provvedermene: togli, ecco il denaro — Uova? riprese allora tutta sorpresa la Marta: Uova? Non sia mai! e a che? — Ah pazzarella che sei, soggiunse la Dama: a che?… per cuocerle. Va dunque, e vedi di tornar presto — Per cuocerle?… ripetè Marta; ma ora gli augеlletti non han più ovicini, e poi tornarebbe a danno il toglierli.
A saziar quattro persone vi vorrebbero centinaia e centinaia di ovicini di fringuelli o di fanelli. — Ma cosa mai vai tu cinguettando? disse allora la Dama; chi ha parlato mai di uova di augelli?
Io vo’intendere uova di galline — Marta in udir ciò si strinse alle spalle, e rispose — Galline?… Che uccelli sieno, io, nol so. Io dacchè vivo, non ne ho veduti. — Oh!… riprese la Signora; qui dunque non si conoscon galline? Allora in alcune contrade erano rare le galline, come oggi lo sono i pavoni, quando per la prima volta vi furono recate d’oriente.—

La Dama non sapea affatto adattarsi in quella angusta cucinetta, stantechè non vi si trovavano nè anco cibi di carne, e disse — Ove io non mi vedessi in tale ristrettezza, non mi sarei mai avvisata, che anche un uovo è un beneficio di Dio. E questo mi è pure occorso sovente, durante la mia emigrazione. La penuria ed il bisogno non vanno mai scompagnati da un qualche bene: conciossiachè l’inopia fa pregiare vari doni di Dio, de’quali non ci curiam punto nell’abbondanza, e ne ispira della gratitudine.—
La buona dama dovea viversi tra gli stenti. Quella gente intanto non desisteva dal recarle affettuosamente quanto potea credere, tornarle aggradito. O il mugnaio prendesse all’amo una bella trota, o qualche carbonaio un paio di tordi, di tutto a lei si facea dono. I servigi più rilevanti però glieli rendeva il vecchio servitore, che seco aveva. Non le era rimaso altro, tranne alcune gioie e pietre preziose, che a quando a quando somministrava al suo servo, onde sopperire alle spese de’ viaggi, cui questi intraprendeva, standosi alle volte lungi da lei per più e più settimane. Sempre che tornava, si vedea fornito di tutto che potea contribuire al mantenimento della piccola casa.
Que’ buoni carbonai frattanto rilevavano, che qualora giungeva il vecchio servo, la dama si vedea composta a mestizia, e avente talvolta gli occhi rossi dal pianto. Quest’indizi facevan nascere in loro la bramosia di conoscere chi ella fosse, e per ove fosse indiritta. Peraltro non avevan cuore di domandarnela, ed il vecchio servo ognore che venia richiesto, loro enunciava nomi strambi sì, che eglino potevano a mala pena ripetere, e che dopo istanti dimenticavan tosto; in fine però conobbero, che lo scaltrito vecchio si prendea gioco di loro; e allora fu, che si rivolsero a’ bambini — Eh! diteci… ma qual’è precisamente il nome di vostra madre? Noi non lo paleseremo a persona: cel dite pian piano all’orecchio. — Allora tutto misterioso, ma pronto il ragazzo, rispose: — Si chiama precisamente… Mammà. — E un’identica risposta ebbero ancora dalla bambina. Quella gente allora si avvisò lasciare al tempo il discoprimento di tal mistero.

Capo II
Grazie a Dio, che ora si trovan polli!

Un giorno il vecchio servo, per nome Kuno, si tornò a casa da un viaggio, recando sugli omeri un cesto di polli; un gallo cioè ed alcune galline. Come i fanciulli della valle lo videro giungere, tutti lieti e pronti gli si fecero attorno, come a quello, che soleva sempre regalar loro dolci manicaretti, prugne secche, fischietti, campanine ad uso di capre, ed altre coserelle di simil fatta.
Stavolta però que’ fanciulli mostraronsi oltre l’usato curiosi di sapere cosa mai recasse di nuovo in quel cesto, coperto di un panno in guisa, da non potervisi metter dentro lo sguardo. Lo accompagnarono fino alla porta della casuccia, ove si dimorava la Dama, che, fattaglisi incontro insieme a’ suoi figliuoli, colla gioia sul volto lo salutò. — Sia ringraziato Iddio! sclamò allora la piccolina, battendo palma a palma. Oh! mammà, finalmente si sono trovati i polli, eh!…
Il vecchio si tolse degli omeri il cesto, e’ schiusane la porticella, videsi tosto uscire un ardito gallo. I fanciulli, che accompagnarono il servo Kuno, ne fecero le maraviglie — Che animale è mai questo! sclamarono. In vita nostra non ci è mai occorso vedere augello sì vago! Oh come è bella quella corona che tiene sul capo! essa è più vaga e più vivace del fioraliso! quelle piume nero-gialle vincono d’assai il luccicore delle biade mature, agitate dalla orezza allora che il sole tramonta! oh come bizzarramente alza la coda, e la incurva quasi a modo di falciuola! — Nè produsse in loro minor sorpresa la vista delle galline, delle quali due erano nere con creste rossissime, due bianche e cioffute, e due di colore rosso-bruno, e scodate.
La Dama gittò ai polli alcune manciate di orzo, che prestamente essi beccarono; mentre i fanciulli stavansi attorno ginocchione, tutti lieti e immobilmente intenti a vedere. Beccato che si ebbero l’orzo, a un tratto il gallo agitò le ali e cantò. I fanciulli ne risero sgangheratamente, e nel tornarsi a casa, per via givano tutti cantando — Chicchirichì, chicchirichì — e le ragazze in voce alquanto dimessa ripetevano anch’esse — Chicchirichi. — Pervenuti alle loro capanne contarono di quelli augelli cose mirabili, dicendo, esser e molto più grandi de’ piccioni, anzi molto più grandi de’ corvi, e piumati assai più vagamente, che gli augelli della foresta. E Marietta, sorella di Marta, diceva — Oh come e portano sulla testa un cappuccetto rosso sì, che non lo ha somiglievole alcun augello del bosco! — I genitori, mossi da curiosità, vollero recarsi a vedere que’ strani augelli, e ne rimasero anch’essi maravigliati.
Non andò molto, che una gallina si pose a covare, ed era cura di Marta imbeccarla ogni dì. La Dama in seguito mostrò il nido ai ragazzi della valle, che rimasero altamente sorpresi a vedere la quantità delle uova — Quindici uova! — e’gridarono. I palombi non ne fanno che due, e solo cinque gli altri augеlletti. E come mai potrà essa la gallina allevar tanti figli?—
Come i pulcini principiavano ad uscire del guscio, volendo la Dama procacciare un piacere a que’ ragazzi, volle chiamarli a sè. Vi si recarono in dì festivo unitamente a varie persone adulte, ed ella mostrò loro un uovo con un becco al di fuori. Si rallegrarono oltremodo i ragazzi in vedere un piccolo pulcino dimenarsi, e agitare il becco, onde uscire del guscio.
Raddoppiossi quindi la maraviglia loro, quando con piccolo aiuto della Signora ne venne fuora del tutto, saltellante, vispo, con occhiuzzi vivissimi, e coperto di bionda peluria. Strana cosa! perchè usati a vedere gli altri piccoli augellini uscir del guscio ignudi, chiusi gli occhi, e quasi privi di moto. — Questo in verità, non si è più veduto, dicean tra sé que’ ragazzi; non v’ha in tutto il mondo di simili augelli!—

Come la chioccia dalla porpurea cresta passo passo uscì su verde pratello la prima volta, intorniata da’suoi quindici pulcini, eccessiva divenne la gioia di que’ ragazzi, e lo stupore de’ genitori grandissimo — Non si dà cosa più bella, sclamava un carbonaio — Eh! attendete, disse una carbonaia, attendete come la chioccia a sè chiama i piccoli pulcinetti, e come questi, pronti a’ suoi cenni, si dan tosto a seguitarla. Sarebbe a desiderare, che anche voi, miei cari fanciulli, vi mostraste sempre a quel modo docili e obbedienti alle voci de’ vostri genitori!—
Un ragazzo si attentò prendere uno di que’ pulcini, a fine di osservarlo più d’appresso, e dato questo un pigolio di dolore, vi accorse immantinente la chioccia colle ali aperte, e quindi spiccò un volo sulla testa del ragazzo, che forte spaventossi, alzando grida di soccorso. La chioccia gli avrebbe certo cavato gli occhi, ove non avesse egli lasciato all’istante il pulcinetto. Ne fu quindi ripreso dal padre, e la madre tolse a dire — Oh con quanto attaccamento l’affettuosa bestiola s’interessa de’ suoi pulcini! Potrebbero ben essi gli uomini apparare da lei!

Ove la gallina avesse trovato un qualche cibo confacevole a’suoi pulcini, levava tosto un grido, e, adunatisi a lei d’attorno i figliuolini, lo riduceva col becco a minutissimi pezzetti, che loro apprestava in quel modo potea migliore. Si stupivan tutti, come quei pulcinetti sì teneri, che appena contavano un giorno, avessero non solo tanta agilità, ma riuscissero a cibarsi anco di per sè. Ognora che il sole si celava alcun poco dietro le nubi, que’pulcinetti si riparavano sotto la chioccia, a fine di trovarvi caldo ricovero. Oh questa poi è la cosa, che più incanta, diceva quella gente della valle, questa è graziosa e sorprendente oltre ogni credere! ve’,ve’, come i piccioli capolini appaiono fuori delle ale della chioccia! ve’, come un pulcino, forse perchè cacciato dagli altri, ne esce con celerità, e corre di botto a ripararvisi in altra parte.—
Il mugnaio col suo giubbone tutto bianco di farina risaltava a maraviglia di mezzo a que’neri carbonai; e come quegli, che dotato era di vivacità e perspicacia a preferenza d’ogni altro, sclamò — Ma che rinviensi egli mai di strano in questi animaluzzi! In natura non v’ha certo cosa creata, in che non si vegga l’impronta della Divinità! Sempre che però ci abbattiamo in qualche straordinario oggetto, la potenza, la scienza e la bontà di Dio, vieppiù ci sorprende! Oh qual provvidenza! Se questi non fossero da tanto da poter correre, e cibarsi di duro e malagevole tornarebbe certo alla chioccia recar sul becco, non altrimenti che la rondine, l’esca bastevole a tanti figliuolini, che, privi dell’istinto di seguir la voce della madre, nè valendo questa a rimanersi del continuo appresso a ciascun d’essi, anderebbero certamente in deperimento! Ciò che rapisce i miei stupori però si è il vedere la prontezza e il coraggio, onde la gallina si mette a tutela de’suoi pulcini.
Mi sono soventi volte corucciato allo scorgere, che, qualora per lo dianzi passava io d’appresso a questi polli, quasi che venissero compresi da timore, spiccavan volo qua e là; e stolti io gli chiamava, mentre dovevan bene avvertire, non esser il mio genio sì da recar loro del danno. Ora peraltro sembra cambiata affatto la natura loro, mentre questa chioccia, anzichè spiccar voli, si ferma in difesa anche contro dell’uomo.
Recavami diletto l’osservare, come le galline contendevansi un’esca minutissima, o come chi ne trovava una più grande, veniva presto inseguita dall’altre, che quasi tocche da invidia, facevano del tutto onde rapirgliela.
Questa chioccia al contrario non trova imbeccata, ove non chiami tosto a sè i pulcini, e ne gli mette a parte; deferendo così la sua ghiottornia alla sazietà loro. Io son da credere, che l’affettuosa bestiola perirebbe essa stessa di fame, pria di veder senza cibo i suoi figliuolini; e l’amore onde qua e là gli va menando, il procacciar loro del cibo, l’alimentargli, difendergli, e riscaldargli sotto le sue ale, son tutti istinti ispiratile da Dio.
Quanta è la cura, che Egli prende di questi piccioli animaluzzi! E come ora possiam noi sconfortarci? Non ha Egli forse per noi cura più affettuosa? Si certamente, che Egli ne provvede soprattutto. Dunque, miei cari, facciam cuore! Iddio non opera che bene: provvede Egli a tutto il creato, e massimamente all’uomo, che innanzi a sè val più, che tutti gli augelli dell’universo.—

CAPO III.
Ora sì, che vi son uova in abbondanza.

Fin dal bel principio là nobile Forestiera andava in cuor suo dicendo di voler trovar modo, onde accontentare, e supplire la dimestica ristrettezza della buona gente della valle, come quella, che del continuo mostravasi affettuosamente servizievole verso di lei. In fatto economizzò essa nelle uova e ne’ polli; e come riuscì ad averne una buona provvisione, inviò la sua Marta nella valle, a fine dicesse a tutte le madri di famiglia, che il dimane, giorno di Domenica, le farebbero cosa grata intervenire ad una piccola merenduola presso la sua casipola. Tutte bellamente adorne con quegli abiti, nastri e merletti, che avean migliori, vi si recarono con piacere. Trovarono nel piccolo giardinetto ammannita dal vecchio Kuno una tavola alla contadinesca con alcune panche, ove ciascuna fu invitata a sedersi.
Marta vi apprestò una corba piena di uova pulite sì, che non vi si scorgeva macchia di sorta, e candide qual neve. Le carbonaie rimasero maravigliate della gran quantità delle uova.
— Lode al cielo! sclamò la Dama: ora si, che vi son uova in abbondanza, e bello è il vederne tante e si candide. Vo’ peraltro avvertirvi del come si possa essere massaia.—
Da un cantuccio del verziere, sotto picciola rupe, si era acceso del fuoco, su cui vedeasi sospesa una ben capace caldaia, quasi piena di acqua. La Signora ruppe primamente un uovo, onde mostrare a tutte il tuorlo somiglievole ad un globetto giallo, quasi natante in mezzo al fluido albume, lucido qual cristallo. Gittò quindi nell’acqua bollente tutte le uova del paniero, e ve le tenne fino a che divennero lesse in guisa, da potersi suggere. Era pronto nella tavola il sale, ed il pane ridotto a bislunghe picciolissime fette. Inoltre insegnò loro il modo di aprire le uova, e restarono sorprese, come venisse fuora l’albume, somiglievole a latte cagliato, mentre il tuorlo erasi alcun poco indurato; e frattanto che v’intingevano del pane, mangiandone, lodavano del continuo la squisitezza di quel cibo. — Qui, dicevan esse, abbiamo assieme e tazza, e cibo: oh! come tutto appare bello e pulito, come leggiadramente bianco e giallo! Con qual prestezza è arrivato a cuocersi senz’arte, o dispendio! Per un infermo non potrebbe trovarsi cibo’ meno costoso, più salubre e più nutritivo!
Ruppe quindi la Dama alcune uova nello strutto bollente, e ciò di nuovo sorprese quelle carbonaie — Oh! sclamavano esse: bello quel rosso tutto ricinto dal bianco! e’ sembra quel fiore bianco-giallo, che sbuccia ne’ prati, chiamato occhio di bue. — Le uova l’un dopo l’altro furono poste su verdi spinaci, già cotti e preparati in un gran piatto: e questa vivanda incontrò parimenti il gusto di tutta quella gente. In seguito apprestò altri cibi di uova diversamente cucinate, e così diè a divedere a quelle carbonaie, esser le uova gustevoli non solo per per sè, ma riuscire anche a squisito condimento di altre vivande.
Da ultimo si recò a tavola una bianca e fresca lattuga, e Kuno presentò in pari tempo un piatto colmo di uova già per lo innanzi lesse, perchè si trovassero freddate all’uopo. Il lepido vecchio le lasciò cadere per ischerzo, e quà, e là furono viste rotolare sur una superficie di pietre. Allora le carbonaie restarono tanto sopraffatte, che misero un alto grido; mentre s’avvisarono che le uova si fossero tutte rotte e versate. Fecero però le maraviglie al vedere, che la Signora le mondò tutte pulitamente, e ciascun uovo si trovò sì durò, da potersi tagliare: cosa, che parve loro un prodigio.
E mentre la Signora le istruiva del come si lessano le uova, veniva ponendo sull’insalata quelle già lessate: nè questo cibo lasciò d’incontrare anche esso il loro gusto.
Terminato il piccolo pasto, gentilmente la Dama donò a quelle madri di famiglia alcuni galli, ed alcune galline, dicendo loro — Una gallina nel lasso di un anno produce meglio di cento uova, e tal fiata arriva anche a dugencinquanta. — Del che rimasero oltremodo sorprese. — Meglio di cento uova! andavano esse ripetendo: oh qual vantaggio alla dimestica economia! — Le buone madri di famiglia unitamente ai polli recarono immensa gioia nella valle. In tutte le capanne si fece festa ed allegria; e ciascuno benediceva alla forestiera, e ringraziava a Dio per dono sì bello e vantaggioso.

Que’ polli formarono lunga pezza l’oggetto della conversazione di quella gente, che ogni giorno scorgeva in essi qualcosa di strano, di ammirabile, e di utile. Il bello istinto, che ha il gallo di cantare in sul far del giorno, tornava caro massimamente ai padri di famiglia. — Egli così ne dà avvertenza, e dicevano, del tempo prossimo all’aggiornarsi, e chiama gli uomini novellamente al travaglio. È questo un tenor di vita all’intutto diverso; stantechè il mattino al cantar de’ galli, ciascuno si sveglia tosto, e vassi ordinatamente al lavoro. Purtroppo è vero! tolse a dire il mugnaio. Quando poi in sulla mezza notte il gallo canta per la prima volta, avverte le gioviali e galanti società, quasi dica loro ‘a voce alta: è egli tempo oramai di darsi al riposo.—
Le madri di famiglia poi si piacevano in ispezial modo dell’udire chiocciare la gallina, la quale così quasi annunziava di aver dato fuora un uovo: e ogni qualvolta gridava, universale era la gioia nella famiglia; chè dopo quel grido, veniva tosto in possesso di dono si vantaggioso — un uovo. —
Quella gente poi andava spesso in cụor suo dicendo — Questi augelli sembrano veramente creati da Dio per uso dimestico degli uomini; mercecchè s’ intertengono in casa sì fedelmente, che non se ne dilungano mai: se tu gli adeschi, e’ti si fan d’appresso; e al declinar del sole si ristringono tosto di per sé all’ usato ricovero, aspettando avanti alla porta, o alla finestra di casa, finchè si lascino entrarvi. E’ tornano anche utilissimi alla economia domestica; avvegnachè, poco, o nulla ne costa il mantenimento. Gustano assai la crusca, il loglio, la veccia ed altre coserelle di poca, o nessuna utilità per la casa: anzi da mane a sera non fanno che spaziarsi d’ogni dove fuori della casa, e scavare e razzolare a cercarsi de’ cibi.
Una non picciola quantità di grano, che in tempo della mietitura e della trebbia andava per lo dianzi perduta, ora ci si volge a profitto; stantechè viene ricolta dalle galline, e queste ce ne dan frutto di buone uova. Le povere vedove, che non valgono a tenersi a casa bestia di sorta, almanco non tornerà loro disagevole crescersi una gallina, e così un uovo alla giornata è per loro un ajuto.—
I due ragazzi della Signora volgevano anch’essi in animo (cosa a cui nell’abbondanza non avevan mai certo pensato) esser per loro le uova un dolce dono di Dio. Oh quanta gioia mostravano, quando essi di tratto in tratto la mattina mangiavano un uovo al latte! Oh come trovavan saporosi alcuni cibi, di che per lo avanti poco si piacevano, perchè senza il condimento dell’uovo! Erano però riconoscenti del benefizio, e ne ringraziavano a Dio.

CAPO IV.
La festa delle uova dipinte è una festa.

Passati in frattanto la state ed il festevole autunno, entrò la stagione del verno, che in questa contrada, più che altrove, fece sentire i suoi rigori. Le capannucce della valle per varï mesi rimasero pressochè sepolte nella neve. Solo qui e colà vedeansi poche estremità di tetto, e fumiganti cammini, che spuntavano da quel bianco ammanto. Non si scorgea punto traccia delle strade affossate tra quelle rupi; stavasi inoperoso il mugnaio per la deficienza delle acque, che già da scogli pendevano a ghiacciuoli. Que’della valle non trovavano altro sollievo che nel visitarsi alcun poco l’un l’altro.
Quale, e quanta però non fu egli mai la gioia loro, in vedere liquefatte quelle nevi ai tepori della primavera! Allora fu, che i ragazzi della valle tutti giulivi uscirono delle loro capanne, e recarono ai due figliuoli della Dama, Edmondo e Blandina, le prime mammole, e i primi fiori di verbasco, ch’ei poterono trovare nella valle. Tostochè poi riuscivano a’ sceglierne una quantità, ne venivano loro intrecciando belle e variopinte corone.
Disse un giorno la Signora — Bisognerà che io procuri altra gioia a questi ragazzi. Nella Pasqua imminente io vo’ invitargli ad una festicciuola campestre; mentre bello è, che un giorno sì ricordevole rendasi giorno di gioia a’ragazzi, potendosene trar sempre anche un morale vantaggio. Ma, cosa potrei dar loro? Nel Natale potei regalare delle mele e delle noci, fattemi recare appositamente per essi. Ora però, che la campagna non ci somministra prodotto di sorta; mentre gli alberi sono senza poma, e i frutici privi di nocciuole, non trovo in casa che delle uova, primo regalo della natura, che tutta or vedesi ringiovanire.—
Allora disse la Marta – Sarebbe egli un’ottima risoluzione, quante volte le uova non fossero all’intutto prive di colori! Non è a negare, che anche il bianco piace d’assai; ma que’ svariati colori delle frutta, delle avellane, e massimamente le rosse facce delle mele formano un assieme molto più bello a vedere.—
— Brava! rispose la Dama: la tua riflessione mi fa suscitare un’idea di cosa, che tornerà bene a proposito. Io vo’lessar le uova, e in pari tempo colorarle; lo che si può agevolmente ottenere nell’atto, che vengonsi lessando. Certo il vederle tutte screziate, apporterà non piccola gioia ai fanciulli.
La Signora, che a tale scopo ben si conosceva di vari muschi, e di una moltiplicità di radici, si diè studiosamente a colorar delle uova in isvariate maniere. Alcune presero un bel colore cilestro; altre un giallo tale, che parean limoncelli; altre un rosso in tutto simile all’interno delle rose. Ad alcune avea ben legato all’intorno delicate picciolissime foglie, onde l’effigie lasciatavi presentava un rabesco a belli e diversi colori. Altre poi, oltre a’colori, si videro iscritte di morali aforismi.
Come a prima giunta le vide il mugnaio, tolse a dire — Oh ! le uove dipinte! Non potevano essere più acconce per la festa, in un’epoca, in che la natura si sveste del suo bianco ammanto, per adornarsi di altro tutto variopinto e gentile! La buona madre adopra non altrimenti, che il provvido Iddio, il quale ne fornisce di frutta non solo gustose al palato, ma anche belle e piacevoli alla vista. Egli tinge di chermisino le ciliege, di violetto le prugne, di giallo le pere….. ed essa ben lo imita nel dipinto di quelle uova.
Il giorno di Pasqua riuscì in quell’anno il più ridente e il più bel giorno di primavera: vero giorno del rinascimento della natura, e della salutevole risurrezione del SIGNORE. Sereno era il cielo, onde l’azzurro invitava alla gioia; bello oltre l’usato splendeva il sole; l’aere era tiepido e tranquillo; i prati della valle vedeansi coperti di una verzura gremita tutta di fiori; gli alberi vestivano novella fronda; amabilmente tra le verdi sponde discorreva l’argenteo rivo, e la bella contrada tutta rinvigoriva.

La Dama, levatasi assai prima dello spuntar dell’aurora, unitamente al vecchio Kuno, prese la via, che menava verso la Chiesa posta al di là di alcuni monti, e lontana meglio di due leghe. La gente della valle, rimanendo in casa que’ fanciulli non ancora abili a tal viaggio, vi si recò anch’essa. Era vicina l’ora del meriggio, quando la Dama sul giumento, guidato da Kuno, giunse a casa, lasciando dietro sè a non picciola distanza gli altri, che tornarono molto dopo il mezzo dì, e quasi in sul far della sera.
Que’ fanciulli, che per la età si erano rimasi a casa, mentre contavano pressochè lo stesso numero di anni di Edmondo e di Blandina, e che qualche tempo prima erano stati invitati alla festa, tutti allegri si fecero verso l’abitazione della Signora. Costei con singolare affetto, gli menò nel suo piccolo giardino, che fin dallo scorso anno per opera di Kuno era stato migliorato e bellamente diviso in eleganti simmetriche ajuole.
Presso una rupe sur un piccolo pianerotto, cosperso appositamente di sabbia, si vedeva una tavola di figura tonda oblunga, coverta di un grazioso tappeto, e ricinta di verdi sedili, tutti gremiti di freschi fioretti. Insieme ai fanciulli, sedenti in giro attorno alla tavola, vedeansi Edmondo e Blandina. Erano tutti in grande espettazione, e spiravano dal volto contentezza e gioia. Cosa veramente singolare ed amabile era il vedere quel circolo di graziosi bambini, e chi artificiosamente inanellato il nero crine, chi biondo e naturalmente ricciuto; tutti però vispi vivaci e di forme aggraziate. — Non v’ha certo corona di fiori sì bella, disse tra sè, e se la Dama, quand’anche fosse intrecciata delle rose più vivaci, e dei più candidi gigli!—

Sul bel principio con molta affabilità e chiarezza si fece a raccontar loro la causa, onde nel santo giorno di Pasqua si mena festa, e tripudio si grande e universale.
Quindi si recò a tavola un piatto colmo di uova, e caldo latte. Ciascun fanciullo, avente innanzi a sè un terso piattino, n’ebbe la sua porzione, assaporandola oltremodo. Fatto ciò, uscendo la Dama per una porta laterale del giardinetto, gli menò tutti seco, e fecesi in un attiguo piccolo bosco. Di tratto in tratto fra i giovani abeti si vedeano freschissimi erbosi pratelli. — Qui, disse la Dama, ciascun di voi dee formare un picciol, nido di muschio, che in abbondanza vedesi cresciuto su queste rupi, e sulle cortecce di questi alberi. Pronti ed allegri ubbidirono tutti, e i più grandicelli davan mano nell’opra ai più piccoli, che non sapeano venirne a capo. Ognuno dovette apporvi un contrassegno, e, quindi, lasciatili, tornarsi tosto al giardino, ove gran maraviglia apportò loro la vista di una gran torta all’uovo foggiata a modo di ghirlanda sulla tavola, donde poco fa eransi levati. N’ebbero tutti una buona porzione, e, nel mentre che stavano gustosamente mangiandone, la Marta con un bel paniero colmo di uova dipinte, all’insaputa loro, si recò nel boschetto; quivi tutta sollecita le accomodò nei singoli nidi, il di cui verde mirabilmente armonizzava con quelle uova tinte ad azzurro, giallo e rosso.
Come i fanciulli ebbero terminata quella merenduola, la Dama sì prese a dire — Ora andiamo, miei cari, guardiamo un po’ que nidi lasciati nel bosco. — Vi si recarono, e al vedere che in ciascun nido erano cinque uova egualmente colorate, ed alcune iscritte di un motto, immense furono le voci di giubilo, che alzarono unanimi que’ ragazzi. — Uova rosse! uova rosse al mio nido! gridò l’un d’essi: vi son delle uova rosse!… tutte rosse! — E nel mio, disse un altro, sono tutte azzurre, come lo è appunto ora il cielo! – Gridò un terzo — nel mio poi son tutte gialle, e di un giallo assai più vivace del fior di verbasco, e più grazioso di quello della farfalla! — Ve’, ve’, sclamò un quarto, il mio nido le contiene quasi tutte di vario colore! Saranno veramente mirabili que’polli, disse un altro, perchè fanno uova così belle! Oh quanto sarei desideroso di vederli!
Allora la più piccola di que’ ragazzi, la sorella di Marta, soggiunse — Eh! non sono già i polli, che fanno uova sì belle! Credo bene, che le abbia fatte quel lepratto, il quale ho veduto saltar fuora di que’ ginepri nell’atto, che io mi feci loro d’appresso a fabbricarvi il nido. — In udir ciò tutti i ragazzi scoppiarono in altissime risa, e dicevano scherzando — Oh! la lepre fa le uova di più colori! Ciò è tanto strano, che in queste e in altre contrade formerà lo scherzo anche di quei, che ne verran dopo!…

Oh! quanto agevolmente si possono procacciar de’ piaceri agli uomini! disse la Signora; e chi mai non vi s’indurrà volontieri, qualora si rechi a persuasione, che il procurar del bene apporta maggior compiacenza di quello che il riceverne? Di piaceri siffatti però sono suscettivi solo i ragazzi; e tra gli adulti non valgono a sperimentargli che quelli, i quali conservano un cuore puro e illibato. E’ sono, che vivonsi nella dolce innocente semplicità della infanzia, che è il vero paradiso di quaggiù.—
Di seguito la Dama novellamente si avvisò intertenere que’ ragazzi in altri piaceri. Qualcuno di loro, a cui toccarono in sorte solo delle uova tinte ad azzurro, era vago possederne almeno uno rosso o giallo; come chi le avea ricevute rosse o gialle, ne desiderava qualcuno di color cilestro. Perciò disse loro, commutatele pure a vicenda, purchè nessuno scambi quell’uovo, in cui trovasi vergato il motto — Nuovo piacere! Mentre ogni fanciullo ottenne in tal modo delle uova svariatamente colorate. — Vedete, soggiunse allora la Dama, così dovete sempre, miei cari, l’un l’altro ajutarvi.
Agevole è il praticare un sì bel mezzo in altre mille contingenze della vita. Iddio, che veglia sulle sorti degli uomini, dispensa loro i suoi doni in modo da poter tutti alternatamente dividersene tra loro il piacere, senza che però alcuno mai vi abbia perdita, o guadagno.—
Il piccolo Edmondo inoltre lesse il suo motto, ed un carbonarello ne maravigliò altamente; stantechè in quel tempo, per mancanza d’istituzione, pochi adulti appena conoscevano, esser cosa bella e profittevole il saper leggere e scrivere. Quindi si mostrò voglioso di sentire, cosa mai fosse stato scritto in quell’uovo, che egli teneva. — Un incomparabile, grazioso motto — dissegli la Dama « ascolta »

Conserva puro il core,
E sia, che mangi, o beva,
Dà lode al tuo Signore.

E qui dopo essersi fatta a richiedere que’ragazzi, se essi lo avesser sempre praticato per lo addietro, tutta composta il volto a modestia, e fatta croce delle mani al petto, rese a Dio infinite azioni di grazie per l’esito felice di quel breve intertenimento; lo che mossi dal buon esempio della signora, anche tutti que’ fanciulli fecero veramente di cuore.
Consecutivamente gli altri ragazzi, smaniosi di sapere cosa mai stesse scritto nel loro uovo, corsero in folla verso la Signora. Teneano tutti protese le loro manine, offerenti un uovo verso di lei, mentre quasi ad una voce gridavano — Leggete prima il mio… Qual’ è il mio motto?… Che vuol dire il mio?… Cos’è sul mio?… Allora la Dama comandò si ordinassero in giro, e così leggendogli l’un dopo l’altro, si videro tutti que’ragazzi pendere quasi dal suo labbro, fintantochè alla, curiosità di ognuno non soddisfece.
Le rime vergate sulle uova consistevano in sentenze morali racchiuse in poche parole; e sì quelle, onde la signora si valse in tal contingenza, come quelle, onde si venne ulteriormente giovando a profitto de’fanciulli, furono presso a poco le seguenti.

I

Ricorda, figliuol mio,
Che è fonte d’ogni bene
Serbarsi amico a Dio.

II

Un cieco di vivere
Smodato tenor
T’attrista lo spirito,
Ti scema il vigor.

III

Chi d’opre sante un bel tesoro ad una
Sta saldo ai colpi della rea fortuna.

IV

Dell’alma il candore
Non fa, che tu macchi:
Ti vede il Signore.

V

Infortunato chi non spera in Dio,
Poichè certo l’attende un destin rio
.

VI

Che se l’amor tu vuoi
De genitori tuoi,
Docile a’cenni lor
Conserva il cor.

VII

Figliuol mio, l’amor, la pietà
Son due gemme, che brillano insieme,
Nè una splende, se l’altra non v’ha
.

VIII

Chi dà laude a Gesù con caldo amore,
S’imprime i suoi precetti in fondo al core.

IX

Abborri alle voglie
Insane ed avare,
All’ira e all’invidia:
Di lacrime amare
Sarianti cagion.

X

Chi la modestia accoppia
Al giovanil decoro
Accoglie in sè un tesoro,
Onde maggior non v’ha.

XI

Tranquillo dorme chi di colpe è scarco.

XII

Chi chiude nel petto
Un core temprato
A nobile affetto
Solleva l’oppresso,
Gli dona vigor.

XIII

Conserva puro il core,
E sia, che mangi, o beva,
Dà lode al tuo Signore.

XIV

Quell’alma, che in grazia
Del cielo riposa
Fiorisce qual rosa,
Cui l’alba irrorò.

XV

Un premio eterno è ricompensa a’buoni.

XVI

Un pane sudato
Allietane il cor,
Più dolce è al palato,
E accresce al vigor.

XVII

Verso il pudore,
O figliuol mio,
Serba l’amore:
Lo vuole Iddio.

XVIII

Colui, che sovente
Ragiona diverso
Da quello, che sente
Nel fondo del cor,
Quell’uovo somiglia
Che putrido è dentro,
E bello al di fuor.

XIX

Se con volto sereno sosterrai
Del caso i tristi effetti,
Un dì fia, che godrai
Piacere, che nel ciel godon gli eletti.

XX

Corredo di virtudi è usbergo d’oro.

XXI

Tieni fiducia
Nel Dio che adori,
Ch’Ei sol può schiuderti
I suoi tesori.

XXII

Se cieca voglia mai t’alligni in core,
Non disfogarla, chè ne avrai dolore.

XXIII

Caro ti rende la virtù, non l’oro.

XXIV

La gioia mondana
È un’ombra fuggevole,
E solo è durevole
La bella virtù.

XXV

È pena al mensognero
Non esser mai creduto,
Quantunque dica il vero.

XXVI

Figlio, t’avvezza a’miseri
Versare i tuoi tesori,
Chè l’avarizia sordida
Rende di pietra i cuori.

XXVII

Perl cielo egli è nato
Quel core gentile
Che mostrasi grato.

XXVIII

Di questa vita
La brevità
A te rammenti
L’eternità.

Ciascun fanciullo poneva tutto il suo studio a mandare a memoria i suoi versetti; e a non dimenticarsene, gli andava sempre sottovoce ripetendo.

La Dama veniva dimandando loro, se avessero imparato il piccolo motto, e spesso spesso, a facilitarne la memoria, le facea mestieri enunciarli anch’essa. Dopo breve tempo però ognuno speditamente, e con chiarezza seppe dire il suo; e qualcun di loro riusciva a ripetere anche quelli degli altri, finchè a poco a poco ciascuno li ritenne quasi tutti a memoria in guisa, che qualora ne avesse ascoltata la prima metà, ne ripeteva il resto; anzi bastava loro udirne la prima parola, perchè si sentissero tutti ripetergli per intero. Que’ fanciulli non avevano mai tanto apparato in vita loro, quanto in quel brevissimo tratto di tempo tra il riso ed il giuoco.

I Genitori de’ fanciulli tornati infrattanto dalla Chiesa, all’udire voci di giubilo, che dal colle giù eccheggiavano nella valle, accorsero tosto verso la casuccia della Signora, curiosi di scoprire cosa mai quivi fosse intervenuto; e conosciutane la causa, si videro esultare anch’essi. — Questi ragazzi, presero quindi a dire, non avrebbono in famiglia certo potuto apprender tanto in un anno, quanto qui in poco d’ora. Egli è pur vero, che desiderio ed amore ne rendono agevole e dolce qualunque travaglio, sia pure quanto si voglia aspro e penoso. — Questo sì, che è un bello e magico ritrovato, onde istruire i bambini, mischiare cioè l’utile al dolce, disse il mugnaio: questo è veramente un imparar molto; mentre in quelle poche sentenze trovasi racchiusa tutta la morale ad informare i costumi degli uomini! Oh come questa buona signora sa utilmente conversare colla tenera età!
Allora la Dama regalò uova colorate e facaccia anche agli altri giovani recatisi colà in compagnia de genitori, dicendo loro — Le uova dipinte potete pure mangiarle in casa; conservarete solo in ricordo quelle ove si trova scritto il motto — E questi risposero — Eh!vi pare, Signora! queste le conserveremo sempre, nè le mangeremo davvero, stantechè il motto vale più assai dell’uovo. — Ciò, è vero, soggiunse la Dama, quante volte però pratichiate l’insegnamento, che in sè racchiude. —
In seguito esortò i genitori a ricordare a’ figli loro que’motti, ogni qual volta propizia se ne desse la occasione. Nè andò fallito il consiglio della Signora: chè qualora alcuno di que’ figliuoli non si fosse mostrato obbediente alla voce del genitore, questi alzando il dito, diceva —

Che se l’amor tu vuoi…

ed il figlio continuava

De’ genitori tuoi,
Docile a’cenni lor
Conserva il cor.

quindi sollecitamente obbediva. Se qualcuno avesse dato il più piccolo sospetto di esser mendace, la madre tosto gli diceva —

È pena al mensognero…

e seguitava il ragazzo

Non esser mai creduto,
Quantunque dica il vero.

addivenendo tutto rosso in viso, poichè recavasi a vergogna il mentire. In simil guisa venivano i genitori adoperando anche in altre contingenze.

Que’ fanciulli poi andavano spesso dicendo, non aver mai in vita loro goduto un giorno sì felice, e la Dama udivasi rispondere – E bene, datevi cura di eseguire con diligenza quelle massime, che oggi avete apparate, ed io vi prometto di far tutti gli anni in tal giorno la vostra gioia. Quegli però, che non praticherà le massime apprese ne’ motti, non si ardisca di porvi il piede altrimenti; stantechè la festa è solo dedicata ai ragazzi buoni e virtuosi. — Oh come tutti que’ fanciulli della valle si mostrarono sempre obbedienti!…

CAPO V.
Un uovo talvolta riesce più pregevole dell’oro!

Fra quelli, che accorsero alla piccola festa data a’fanciulli, la Dama potè avvedersi, che un forestiero stavasi tutto composto a mestizia, mentre il resto della brigata menava allegria. Il giovanetto toccava circa l’anno sedicesimo della età sua; andava sì in povero arnese, ma era di un’aria assai nobile, e di un bello e florido colorito; aveva la bionda capellatura abbandonata alle spalle, e portava in mano un ben lungo bordone.
Dilungatasi dalla casuccia la più parte di quella buona gente, la Signora, tutta compassionevole, richiese quel giovanetto del perchè si stesse egli mai così mesto. — Ah! le rispose, mentre lagrime di dolore gli spuntavano su gli occhi: sono oramai tre settimane, dacchè è morto il mio povero padre! era egli uno scultore in pietra. Oh fra quanti stenti la infelice madre mia conduce ora la dolente sua vita in compagnia di altri due piccoli orfanelli! Uno zio materno, vuol tenermisi appresso di sè, a fine d’istruirmi nell’arte di mio padre, la quale esercita anch’egli; e ciò a intento di apprestare un qualche sostentamento alla madre mia, e guadagnare a me la vita. Sono intorno a venti ore, dacchè mi trovo in viaggio, e mi conviene impiegarne altrettante per giungere all’abitazione del mio zio, posta in altra contrada sulla montagna. —
La Dama ne rimase commossa oltremodo, per essere la sua triste posizione pressochè simile a quella della povera vedova, e subito porse a quel giovane latte, uova, e focaccia; somministrandogli anche qualche piccolo mezzo a poter sostentare la sua madre.
Edmondo e Blandina furono tocchi anch’essi da compassione. — Togli, disse Blandina, reca quest’uovo rosso alla tua sorelluccia, e baciala per me caramente. E, soggiunse Edmondo, quest’uovo turchino recalo al tuo piccolo fratello, accompagnato ad un saluto, e digli che farebbe egli la nostra gioia, qualora venisse a trovarci una volta: allora gli offriremo e zuppa di latte, e focaccia all’uovo. — E qui la buona madre sorridendo tolse anch’essa un uovo dipinto, e disse — Tieni, porgilo a tua madre: il motto scrittovi sopra è il conforto, che io possa mai darle migliore;

Tieni fiducia
Nei Dio che adori;
Ch’Ei sol può schiuderti
I suoi tesori.

non le tornerà certo disgradevole. Qualora essa pratichi la massima racchiusa in queste brevi parole, si vedrà certo inricchita del dono più bello, che possa mai farsi al mondo. —
Come il giovanetto col cuore sulle labbra ebbe ringraziata la Signora, il mugnaio lo accolse seco durante la notte, e la dimane non appena le cime de’ monti, che tutta cingevano la valle, vidersi rosseggiare all’appressarsi del novello sole, che il cortese ospite gli fornì la bisaccia di pane d’avena, e di cacio di capra: ed egli, a continuare il suo viaggio, se ne andò con Dio.
Fridolino, che così avea nome quel giovanetto, valicando monti, e vallèe, in sul vespro del terzo giorno si trovò circa due leghe lontano dall’abitazione dello zio. Si traeva a stento per un’erta angustissima, lungo un’alta scogliera; e mentre a quando a quando, non senza raccapriccio, volgeasi a mirare il precipizio, che dietro sè lasciava, gli venne fatto vedere un cavallo tutto bardato. Aveva una bella gualdrappa di color purpureo, e lucidissimo il freno, per esser tutto guernito di oro. Il cavallo, appena vedutolo, mise fuora un alto nitrito,come se avesse voluto esternargli la sua gioia, e salutarlo.
— Poffar di bacco! sclamò il giovanetto: e come avvien mai che animale sì nobile trovisi in quel profondissimo dirupo? Da quel che veggo appartiene egli certo a qualche distinto cavaliero. Ma….. che sia forse intervenuto qualche cosa di sinistro al padrone, che lo cavalcava? Un cavallo bardato… senza cavaliere…. in tal luogo… mi pare che ciò dia sempre materia a sospetti non buoni. Questo mi dà veramente affanno…. Converrà che osservi ben bene questi dintorni. — Voleva il giovanetto discendere là, dove era il cavallo, ma quantunque assai pratico del camminar pe’ dirupi, pure vi si attentò indarno. Finalmente trovò un’angusta discesa formata dal torrente della montagna, per essa, alla meglio che potè, vi calò.
Quivi trovò giacente sotto la cavità di uno scoglio un uomo di nobile aspetto, ed in cavalleresco arnese; poco lungi uno splendido elmo con bel pennacchio, ed un’asta piantata a terra. La pallidezza del volto era tale, che il giovanetto non sapea ben discernere, s’ei dormisse, o fosse morto.
Gli si accosto compassionevolmente, e gli strinse la mano, dicendogli — Eh! che vi è avvenuto, mio caro Signore?… A tali voci quell’uomo si scosse alcun poco, diè languidamente uno sguardo al giovanetto, e sospiroso si attentò parlare: ma non potendo riuscire ad articolar parola, fe’cenno verso l’elmo, che teneva dappresso, e si portò la mano alla bocca. Tanto bastò a Fridolino onde conoscere aver bisogno di bere; e preso l’elmo, si diè tosto alla cerca di un qualche ruscello.

Da un lato della rupe in un picciolo avvallamento scorse alcuni salici verdissimi; sicuro indizió, che quivi intorno potesse rinvenirsi dell’acqua. Recatovisi infatto, trovò un terreno pressochè paludoso, e alzati gli occhi verso il monte, non molto lungi vide con piacere da alcune muscose rupi scaturire un piccolo ruscelletto, chiaro come un cristallo.
Fridolino vi empiè l’elmo, e si tornò sollecito al caritatevole officio. Porse bere al cavaliero, il quale, dopo essersi a più riprese dissetato, si senti a poco a poco riacquistar vigoria, e con fioca voce così prese a dire — Sia ringraziato Iddio! e grazie anche a te del buon officio, o affettuoso giovanetto! — Quindi fattosi appoggio della destra al capo, soggiunse — Mi ti ha veramente inviato il cielo, perchè io non perissi qui di languore. Oh quanto ora sento io bisogno di cibo! vedi, se almeno recassi teco un tozzo di pane. — Oh cielo!… sclamò allora Fridolino: avessi io potuto antivedere un tale incontro! Tutto ho consumato per viaggio il pane d’avena, ed il cacio di capra, che aveva nella mia bisaccia. Ma… ricordomi… aspettate… gridò egli colla gioia sul volto: mi pare di avere ancora delle uova, cibo salubre e nutritivo — Allora su quel terreno, tutto muscoso, adagiossi d’appresso al cavaliere, trasse fuora della bisaccia le uova colorate, e mondatone uno, dopo averlo col suo coltellino da tasca ridotto a pezzi, somiglievoli a spicchi di mele, l’un dopo l’altro glieli porse, ed egli con grande avidità ne mangiò: quindi bevve, e mangiò novellamente.
Fridolino voleva presentargliene un terzo, ma gli disse il cavaliero — Lasciamo per ora; stantechè non sembra indicato gravarmi lo stomaco di soverchio cibo, il quale potrebbe tornare a danno, per aver io lungo tempo sofferto la fame. Per ora sto bene: nella mia vita non ho mai gustato un cibo con tanta soddisfazione! Ringraziato Iddio! Mi sento ora assai più in forze. In così dire rizzossi in piedi, e soggiunse — Qualora tu non fossi accorso a tempo, o mio caro, io senza dubbio, nella imminente notte sarei venuto meno. —
Fridolino nel mentre, che tutto maravigliato osservava più dappresso il risplendente usbergo, e il resto dell’armatura tutta svariatamente colorata, gli disse — O nobile cavaliero, come avvenne egli mai, che discendeste quaggiù in questo burrone?— Io non sono che un nobil servo, rispose il cavaliero, e volge oramai qualche mese, dacchè ho intrapreso il mio viaggio per interessi del mio padrone. Qui in questa scoscesa, dirupata montagna per mala ventura smarritomi, sopravvenne la notte, e da quel pendio inavvedutamente mi precipitai quaggiù tra questi dirupi.
Al cavallo, che è ben robusto, nulla è intervenuto di sinistro. Io poi ne ho riportato qui al piede lesione tale, che non mi permette di camminare, e nè anco rimontare a cavallo. Egli è un prodigio, che tanto io, come il cavallo non siamo rimasi cadaveri tra questi scogli; nè posso mai ringraziarne a Dio, quanto vorrei. Mi legai alla meglio, che mi fu possibile, la ferita ma fui tosto assalito da un granvissimo accesso di febbre, e sprovveduto di ogni mezzo, mi era già tutto disposto a perire di fame in questo dirupo; ma, come angelo mandato dal cielo, sei tu comparso, o buon giovanetto, e a te debbo la vita. Ora dimmi, o caro, qual è la causa, che ti spinge a far viaggio per queste solitudini, ove non si vede mai aspetto d’uomo?
Fridolino si fece a raccontargli la causa e lo scopo del suo viaggio, mentre il cavaliere lo stava attentamente ascoltando, e a luogo a luogo lo interrompeva con qualche dimanda. Questa è veramente una cosa mirabile, disse il cavaliero, e additava intanto i gusci delle uova gittati sul muschio, questa è una cosa mirabile, ch’ei sieno così bellamente tinti a rosso, e ad azzurro. Non mi è occorso mai vedere di tali uova. — Lascia che osservi più davvicino quell’uovo, che tuttora conservi sano nella tua bisaccia. Fridolino glielo presentò, contandogli da chi, e come lo ayesse avuto. Era tutto atteso ad osservarlo, e dirotte lagrime giù versava dagli occhi.— Buon Dio, sclamò, pur troppo è vero quanto su quest’uovo si legge —

Tieni fiducia
Nei Dio, che adori;
Ch’Ei sol può schiuderti
I suoi tesori.

Questo appunto si è avvenuto in me. Innalzai fervorosa una prece al Signore, perchè mi desse ajuto in questo precipizio, ed Egli misericordioso ha benignamente accolto i miei voti. La sua Bontà ne abbia laude e gloria. Benedetti que’ buoni ragazzi, da cui avesti in regalo quelle uova, onde io ripresi lena e vigore! Non si avvisavano e’ certo, che col dono loro avrebbono campato la vita ad uno straniero. Benedetta la buona Dama, che scrisse sull’uovo quel verso di conforto! Compiacimi ora di un favore: mi dona quell’uovo. Io vo’conservarlo, onde tener sempre avanti agli occhi la massima, che vi è scritta. Sì, i miei figli, i figli de’ figli e que’, che verranno da essi, ognora che gitteranno uno sguardo sull’uovo a leggervi il motto, saranno certo rafforzati nella fidanza in Dio. Forse di qui a cento anni i miei pronipoti ancora racconteranno come il mirabile Iddio col tenue cibo di qualche uovo abbia salvato un loro bisavolo dal perire di fame. — E in così dire, tirata suori la borsa del danaro, per ogni uovo, che avea mangiato, gli die una moneta d’oro, e due per quello col motto. Fridolino se ne mostrava ritroso, ma finalmente si piegò alle iterate e calde istanze del cavaliero.
Mentre stava questi osservando quegli alti dirupi, si avvide che imminente era la sera, e disse — Fridolino, guarda lassù, come le cime di que’ scogli sembrano dorate ai riflessi del sole, che va mancando. La strada, per la quale tu quà discendesti, e dove non penetra raggio di sole, mi dà speranza ad uscire di questo precipizio. Fridolino lo ajutò, e menando a briglia il cavallo, con molta pena, ma felicemente ne uscirono. Si rallegrò oltremodo il cavaliero, quando di nuovo vide irradiati e la foresta ed il monte.
— Or ora, disse Fridolino, scorgerem noi l’abitazione di mio zio. Io accelero i passi, e il vostro cavallo mi seguirà certo. Siate sicuro, che lo zio vi accoglierà con gioia: egli è uomo dabbene. Appresso di lui voi troverete non solo ricovero per la notte, ma eziandio una amorevole cura, fino a che, non siate bene ristabilito.
Il cavaliero mostrò quindi l’uovo col motto. È bello disse lo zio di Fridolino; ma lascia pure, che egli sel tenga: l’oro tornerà assai più aggradito alla tua madre: vieni, io vo cambiartelo. — Il giovanetto vista la quantità del danaro, che n’ebbe, come quegli che non conoscea punto il valore dell’oro, si maravigliò forte. — Vedi, disse lo zio, il motto si avvera anche nella tua madre:
Giunsero in sul far della notte; lo scultore col cuore sulle labbra accolse il cavaliero, e lieve battendo sulla spalla il giovine nipote, si lodò di lui, per aver fatto azione sì bella e generosa. Fridolino si scusò, per non aver potuto mandare alla madre e a’ piccoli fratelli le uova colorate. — Uova! oh!… riprese lo zio, io non so davvero cosa vada dicendo delle uova colorate, o in che mai queste uova differiscano da quelle degli augelli, molte delle quali sono certamente più belle; quand’anche elleno fossero d’oro, le avresti sempre assai bene impiegate, per esser servite a campar la vita a questo bravo signore, e a dare a te occasione a praticare un atto sì virtuoso. Tu, o Fridolino, ti sei adoperato non altrimenti che l’affettuoso Samaritano, ed io vo’ fare al presente le veci di albergatore; e sorridendo aggiunse, nulla però avrai a pagarmi. Intendi?… —

. . . . . . . . . . .
Ch’Ei sol può schiuderti
I suoi tesori.

Il motto val più di tutto l’oro, e si può ricordare anche senza posseder l’uovo: non volerlo sdimenticar mai in tutto il corso di tua vita. — Il cavaliero s’intertenne presso lo scultore finchè non si vide risanato del tutto; e, prima di partirsene, a tutti in casa lasciò un ricco dono.

CAPO VI.
Quest’uovo… io vo’ legarlo in oro,
adornarlo con perle…

Durante la primavera e la state nulla di straordinario accadde nella valle. I carbonai lavoravano il loro piccolo campo, senza intralasciare di bruciar legne da carbone; mentre le mogli loro erano tutte intese a far gli onori della casa, avendo cura di allevar de’polli per la dimestica economia. I figliuoli non passava giorno, che non si facessero a dimandare, quando tornasse la Pasqua dell’uovo. Non più si vedea la Dama ilare come per lo avanti, ma di tratto in tratto assai mesta; stantechè il servo Kuno, che fin d’ora le avea fedelmente prestato il suo ufficio coll’intraprendere lunghi e faticosi viaggi, atteso la età, non poteva più dilungarsi dalla valle. Vedeasi a quando a quando indisposto della salute: anzi all’approssimarsi dell’autunno, quando le prunaje della montagna incominciano ad ingiallire, a stento egli usciva avanti la porta di casa per sollevarsi alcun poco in sull’ora del meriggio, conforme era stato sempre suo costume. La Dama tocca da compassione per l’infelice stato del vecchio, e temendo di perdere l’ultimo sostegno, che erale rimasto, spesso versava lacrime in segreto. Era poi dolentissima, perchè, non potendo aver più notizie della patria, si vedea quasi isolata in quella rimotissima contrada.

Circa quel tempo inoltre un nuovo avvenimento le diè angustia, e la tenne in timore non piccolo. Conciossiachè una mattina i carbonai, tornati dal bosco raccontarono, che la passata notte, standosi lietamente adagiati presso le cataste de’ carboni ardenti, si videro all’improvviso comparir davanti quattro forestieri con armatura di ferro al petto e al capo, con grande spadone al fianco, e con lunga asta in mano, dicendo essere addetti al servigio del conte di Schroffeneck, arrivato nella montagna con una squadra di armati. Aggiunsero inoltre che que’ forestieri vollero bene informarsi di quella contrada.
Il mugnaio sollecito corse a darne notizia alla Dama, cui trovò seduta vicino al letto dell’infermo Kuno. Come intese il nome di Schroffeneck, si fè smorta in viso, e gridò — Oh cielo! è questi il mio più fiero nemico! certo che egli cerca di uccidermi…. Ma forse i carbonai non avran manifestato il soggiorno a que’ forestieri! — Il mugnaio l’assicurò, che per quanto egli sapea, non erasi affatto tenuto discorso di lei; che que’ forestieri, dopo essersi alcun poco riscaldati, in sul far del giorno si erano da loro dilungati; ma che era certo, aggirarsi ei tuttora per la montagna.
— Caro Osvaldo, disse allora la Dama al mugnaio, dacchè vi compiaceste accogliermi in vostra casa, vi ho sempre riconosciuto per un uomo timorato di Dio, probo ed onesto. Ora vo’ confidarvi tutta la mia storia, ed esternarvi il grande affanno, che mi opprime il cuore: poichè io pregio assaissimo i vostri buoni consigli, e la fedele vostra assistenza.—
— Io sono Rosalinda, figlia del Duca di Borgogna. Due ragguardevoli Conti ambivano alla mia destra. Gioanni di Schroffeneck, ed Arnoldo di Lindenburg. Gioanni era il più ricco e il più potente signore della sua terra: vedeasi possessore di molte castella con gente armata: gli mancava solo di essere virtuoso e nobile. Arnoldo poi era il più bravo ed il più nobile cavaliero del suo stato: povero però in confronto di Gioanni: mentre non avendo egli ereditato altro dal padre suo, nobile e poco curante delle ricchezze, tranne un solo castello, posseduto ab antico dalla famiglia, si mostrò sempre alieno dal fare ulteriori acquisti colla forza, e colle armi. Fu con questo, che io, col consenso di mio padre, mi strinsi in maritaggio, recandogli a dote un vastissimo territorio con molte e ben munite castella. La nostra unione faceane godere piaceri di paradiso.—

Gioanni di Schroffeneck però, acceso da veemente sdegno contro di me, e del mio sposo, ci si manifestò capitale nemico. Covava egli un odio fiero in cuor suo, senza mai prorompere in pubbliche ostilità, quando il mio sposo si vide costretto seguir l’Imperadore, a fine di tutelarsi contro la ferocia de’ popoli pagani, e Gioanni avrebbe dovuto anch’egli associarsi alla militare impresa, ma con varī pretesti gli riuscì esimersene, impegnando la sua parola, e assicurando l’Imperadore, che avrebbe raggiunto l’esercito più presto che gli fosse stato possibile. Ora, mentre il mio sposo, capitanando il suo esercito, usciva a giornata onde affrontare il prepotente nemico, e sulle rimote frontiere valorosamente combatteva per le sacre ragioni della patria, il perfido, Gioanni fece incursione sul nostro territorio, profittando della favorevole occasione, in cui nissuno v’era, che potesse tenergli fronte.
Egli disastrò tutta quella terra, ed espugnandone l’un dopo l’altro i forti castelli, se ne fece signore. A me non rimaneva altro a sottrarmi al suo sdegno, tranne la fuga, alla quale segretamente mi diedi insieme a questi due cari figliuoli. Nella mia disastrosa emigrazione, temendo ad ogn’istante di rimaner vittima delle insidie di Gioanni, non aveva altri in cui sperare, che nel mio buon vecchio Kuno, unico e solo mio angelo tutelare. Egli quà mi ha condotta, e sono stata veramente avventurosa per aver trovato appresso di voi in questa rimota valle, il più tranquillo e più bel soggiorno, ch’ io potessi mai sperarmi.
Andava volgendo in animo di trattenermi seco voi finchè il mio sposo fosse tornato dalla guerra, ed avesse rivendicato le nostre ragioni, discacciando dal territorio l’audace ed illegittimo invasore. Io di tratto in tratto spediva il mio Kuno in quelle terre, onde raccogliere notizie consolanti sull’esito della guerra; ma queste erano sempre sinistre: mentre lo sleale Gioanni seguitava tuttora a padroneggiare i nostri paesi, e sulle frontiere la guerra durava con vicendevole fortuna. Ora poi è quasi un anno, dacchè il mio buon Kuno trovasi infermo, e così mi veggo priva delle notizie dell’amatissimo sposo, e della cara patria. Ah!… Dio non voglia…. ma egli è forse gran tempo, che sarà rimaso vittima della spada nimica! forse Gioanni, che ora insieme alla sua gente m’è sì vicino, ha rintracciato il mio segreto soggiorno! Oh cielo!…. quale sarà mai il destino, che mi attende! L’incontro più fortunato, che io posso ora desiderarmi, è certamente la morte!….

Mio caro Osvaldo, parlate, di grazia, parlate co carbonai, vostri buoni compagni, date loro avvertenza che non abbiano a manifestarmi, e tradirmi — Tradire! — disse il mugnaio, vivete pur sicura sulla mia guarenzia: ciò non avverrà mai, mentre gli abitanti di questa valle sono tutti pronti a dar per me la lor vita. Ove il signore di Schroffeneck avesse il mal genio di farvi villania, dovrebbe prendersela prima con tutti noi. Non vogliate dunque darvi affanno, o nobile Dama.— I carbonai poi, dopochè il mugnaio ebbe loro dettagliatamente narrato il fatto, tutti unanimi così presero a dire.— E’venga, e noi colle nostre ferrate mazze sapremo coraggiosamente rispingerlo.—
La buona Signora conduceva intanto la sua vita in continui timori, e travagli. Non si fidava più di uscire della sua capanna, e divietò a’ suoi figliuolini di apparire pur anco in sulla soglia della porta. Come poi si fu assicurata, che nulla poteva accadere di sinistro per essersi i guerrieri dilungati dalla montagna, sul declinare dell’autunno dopo lunga dirotta pioggia, in un bel giorno, che parea di primavera, s’attentò per la prima volta uscir di nuovo al passeggio. Cento passi circa lungi dalla sua capanna sorgeva una piccola parete superiormente coverta a modo di cappelluccia, e tutta fabbricata di rozzi abeti. Vi si vedea appiccato un quadro rappresentante la fuga in Egitto, dipintura assai pregevole, che una volta Kuno, tornato da un suo consueto viaggio, aveva recato, solo perchè la buona Signora si racconsolasse, e prendesse motivo di conforto nella sua emigrazione. Dietro alla cappelluccia vedevasi un alto scoglio tagliato a perpendicolo, e dalla parte anteriore una picciola piazzetta, ombreggiata da alti e folti abeti, la quale invitava a trattenersi con gioia mista ad un sacro orrore. Vi si accedeva per un viottolo, tracciato fra muscose rupi e verdeggianti arbusti. Questa soleva essere la sua più deliziosa ed amena passeggiata. Anche stavolta vi si recò, ma non senza un qualche affanno e dolore; quivi insieme a’ suoi figliuoli si stette prostrata per qualche tempo. Il vedere la sua disgrazia pressochè somiglievole a quella di NOSTRA SIGNORA, necessitata a fuggirsene col suo Bambino in paese straniero, le suscitava sentimenti di commozione, e lagrime di dolore le scorrevano giù per le gote. Dopo aver innalzate al cielo fervidissime preci, si riposò sur un sedile di pietra da un lato della cappelluccia; mentre i suoi figliuoli prendevansi diletto a cogliere prugnole attorno a que’ scogli, e tutti allegri per vederle unite quasi a modo di piccoli nero-lucidi racimoli, a poco a poco si dilungarono di molto.—

Nel mentre la Signora , tutta sola stavasi quivi seduta, d’improvviso vide comparirsi davanti uno straniero, vestito a modo di pellegrino, e inoltrantesi verso la cappelluccia. Aveva al cappello un fregio di colorite conchiglie, ed un lungo bastone in mano. All’aspetto sembrava molto avanzato di età; aveva però cera di uomo dabbene. La lunga capigliera abbandonata alle spalle, e la folta barba, che tutto giù gli copriva il petto, erano bianchi qual neve; non lasciava però di essere vivacissimo, e roseo colore gli adornava la gota. A tale aspetto la Dama rimase sbigottita; ma il pellegrino tutto rispettoso fecesi a salutarla, e con avvedimento e riserbo prese parola seco lei. La Dama tutta intimorita lo guardava, dubbiosa sulle prime se potesse o no affidarsi a lui, come ad uomo straniero.
Allora il pellegrino prese a dirle — Non vogliate prendervi paura di me, o Signora. Io non sono a voi tanto stranio, quanto voi stimate. Il vostro nome è Rosalinda di Borgogna. Conosco bene, qual dura sorte vi abbia costretta a cercarvi un asilo fra questi aspri dirupi. Non v’ha certo persona, che al par di me possa darvi più consolanti notizie del vostro sposo, da cui, volge oramai il terzo anno, che vi trovate miseramente divisa. Durante la vostra dimora in questa romita contrada vari cambiamenti sono seguiti nel mondo. Qualora il cuor vostro serbi ricordanza di Arnoldo di Lindenburg, e qualora prendiate affettuosa cura di lui, io sono a portata di somministrarvi le più dettagliate notizie.
Risuonò per le nostre contrade il festoso grido di pace; stantechè fregiato della corona del trionfo ritornò l’esercito cristiano. Il vostro sposo, discacciato l’invasore, signoreggiò di nuovo i suoi castelli. Il prepotente, Gioanni di Schroffeneck uscì di pericolo col darsi alla fuga, e ripararsi in questa montagna, donde anco gli fu mestieri dilungarsi, temendo d’ora in ora vedersi l’inimico alle spalle. Il vostro sposo è acceso dal desiderio di rabbracciar voi, sua diletta consorte.—

— Oh cielo! sclamò allora la Dama: qual novella di conforto! Grazie senza fine a te, mio caro Dio! — E in cosi dire si abbandonò su propri ginocchi, stemprandosi in pianto di tenerezza e di gioia: indi soggiunse: sì, buon Dio, tu hai vedute le calde mie lagrime, ed hai schiuso gli orecchi a’ miei segreti sospiri! la tua Bontà ha esaudite le incessanti mie preci. O Arnoldo, o Arnoldo!… E quando verrà egli mai quel fortunato momento, in che mi sia dato rivederti, e recarti innanzi i tuoi figli, che nel dividerti da me, con me lasciasti in età infantile? Oh qual sarà il contento nell’udirgli la prima volta chiamarti col dolce nome di padre!…
E come si può egli mai dubitare, o straniero, se io serbi tuttora la rimembranza del mio sposo… se viva si conservi nel cuor mio?…. Oh miei cari figliuoli (chiamò quindi Edmondo e Blandina, che osservando curiosi il forestiero, timidi si arrestarono a qualche distanza): accostatevi alla vostra madre, di nulla vi prenda timore. —
Allora ambedue le corsero dappresso, e la Signora baciando affettuosamente, Edmondo, e facendogli cuore, gli disse: di’ con chiarezza alla presenza di questo pellegrino la preghiera, che noi appena levati, innalziamo tutte le mattine al Signore per la salute dello sposo, e del padre.— Il grazioso garzonetto, conforme era usato, a mani giunte, tutto composto il volto a divozione, e levati gli occhi al cielo, a voce alta, e con sentite espressioni disse — Caro Dio, che vivi ne’ cieli, piega benigno un tuo sguardo su di noi due poveri orfanelli!… Il nostro genitore è alla guerra. Deh! non permettere, ch’ei perisca. Promettiamo di conservarci pii e buoni, perchè il caro nostro padre sia contento quando per la prima volta avrà a rivederci. Ah sì, buon Dio, accogli amorevole la nostra preghiera!… — E tu, Blandina (disse in seguito alla picciola ricciutella fanciulla,cui porporine rose miste a candidi gigli fiorivano) sulla gota) di’, come noi preghiamo la sera prima di andare al riposo. — La ragazza non altrimenti, che Edmondo, giunte le mani, alzò gli occhi nerocerulei verso il cielo, e quasi compresa da timidezza, con voce alquanto dimessa incominciò — Caro Dio, che vivi ne’ cieli, pria di darci al riposo preghiamo pel nostro padre. Fa ch’ ei dorma un dolce sonno; gli spedisci un Angelo tutelare, che lo sottragga alla invasione nemica. Dona anche un sonno tranquillo alla affettuosissima madre, a fine si liberi alcun poco da quell’ambascia, che del continuo le agita il cuore: o se vuoi toglierle ancora il dolce sonno, fa’ che questo vada soavemente a cadere almeno sulle palpebre del nostro genitore. Sia questa l’ultima sera della nostra dolorosa separazione! Spunti presto quell’aurora avventurata, in cui possiamo finalmente rivederlo!…. — Così sia, così sia — a mani giunte disse la madre, e, bagnata di lagrime il pallido volto, alzò pietoso lo sguardo verso il cielo.

Lo straniero in udir ciò, non potè restarsi dal prorompere in lacrime dirottissime: e d’un tratto svestitosi di tutte le insegne da pellegrino, gittata via la posticcia lunga capigliatura, e la folta barba, si manifestò in porpureo cavalleresco arnese, tutto guernito di oro. Giovinezza e beltà gli fioriano sul volto, e tutto dalla foga degli affetti commosso, protendendo teneramente le braccia verso la Dama ed i figli, sclamò — Rosalinda, mia dolce consorte! O Edmondo, o Blandina, miei carissimi figli!…
In udir ciò la Dama fra il timore e la gioia rimase immobile e sbigottita. I figliuoli, che commossi dal dirotto pianto dello straniero, si erano rivolti verso la madre, quasichè avessero voluto dirle – vedi di porgergli un qualche sollievo — restarono anch’essi maravigliati quando udirono il forestiero profferire il loro nome; e ricordevoli in quel punto, che talvolta la madre a piacevole intertenimento solea raccontar loro strani e prodigiosi avvenimeti, avvisarono, che quel vecchio, come per incantesimo, si fosse trasformato in giovane, anzi in un angelo del cielo. Tanto in quel momento sembrò bello il padre loro!.. E lo era di fatto; mentre nissuno dell’armata cristiana valeva a stargli al confronto. Rimasero quindi oltre modo sorpresi all’udire dalla madre, essere quel cavaliero il loro genitore, del quale per lo addietro non avea trasandato mai di far loro menzione. Fu tanta la piena degli affetti e la gioia, che lo spazio di due ore parve loro un istante.
Rosalinda dall’assieme del discorso del suo consorte potè’ rilevare, che egli sotto le divise di pellegrino, conforme allora in simil cantingenza spesso usavano i nobili, si era colà recato a spron battuto, a fine di menarla seco, lasciato il seguito de’ cavalieri, per la difficoltà delle strade; e che sollecito avea preso i passi avanti per avere una esatta notizia di lei e de’ suoi figliuoli, e disporla appoco appoco a sì consolante incontro.
Fecesi inoltre a dimandarlo del come avesse egli potuto aver notize così esatte, risguardanti il suo soggiorno.
O Rosalinda, le disse: il rabbracciarne è frutto della tua beneficenza verso i miseri, e massimamente verso i fanciulli di questa valle. Fu la tua liberalità, che mosse Domenedio a ridonare il padre, a’ tuoi figliuoli, a te lo sposo, e a me l’affettuoso consorte. Ove tu non chiudessi in petto un cuore temprato a sentimenti sì benefici, indarno si sarebbe sperato rivederci così presto, e forse non ti avrei mai più riveduta; stantechè ti avrebbero da ogni lato accerchiata gl’inimici, e facilmente saresti rimasa vittima del loro furore. Avanti che io conducessi le mie schiere in queste contrade, Gioanni di Schroffeneck dovette fuggirsi con tutti i suoi al di là de’ monti. Ora, vedi (e le mostrò l’uovo colorato, iscritto del motto

Tieni fiducia
Nel Dio che adori,
Ch’Ei sol può schiuderti
I suoi tesori

Iddio si è giovato di quest’uovo a darne la consolazione di ricongiungerci; ed io vo’ legarlo in oro, adornarlo con perle, e, a durevole memoria del beneficio ricevuto, appenderlo alle sacre pareti della Cappella al nostro Castello. Io, durante la tua emigrazione, non ho mai trasandato di spedir gente senza numero a ricercarti. Le mie speranze però andavano sempre fallite, quando fortunatamente un giorno, dopo una spedizione, vidi tornare Eckbert, mio nobile cavaliero, che io credea perduto.
Era egli precipitato in un dirupo, e sarebbe quivi certamente perito di fame, ove non lo avesse sovvenuto la carità di un giovane straniero, il quale dopo avergli pôrto ristoro di qualche uovo, in rimembranza dell’averlo salvato, volle lasciargli anche questo. Come io lo vidi nelle mani di Eckbert, rimasi forte maravigliato, per avervi letto i tuoi caratteri. Incontanente mi diedi a ristringere i miei cavalieri: con questi presi la strada, che mena alla cava di marmo, ove travagliava il giovane Fridolino, e costui mi fu cortese di additarmi il luogo del tuo romito soggiorno. Qualora non avessi tu preso la bella determinazione d’intertenere a sollazzo i fanciulli della valle, facendo loro donativo di uova artificiosamente colorate, coll’avvertenza di unire allo scherzo anche immorale profitto; e qualora voi, mio caro Edmondo, e mia dolce Blandina, non aveste usato la liberalità vostra verso del giovane straniero, indarno sarebbesi desiderato un giorno sì consolante. L’avvenimento, di che siamo stati spettatori e parte, ne ammaestra, che in qualsivoglia dono, per quanto tenue possa egli mai immaginarsi, ove sia fatto con purezza di cuore, e senza vedute di ricambio, si ravvisa sempre la benedizione del cielo, e può somigliarsi a quel picciolo seme, che produce abbondantissimi frutti.
Voi, mei cari figli, conservate nel cuor vostro sentimenti così generosi; seguite a schiuder sempre le vostre mani a vantaggio de’ poverelli; poncte studio a sollevar gl’ infelici, e in ciò togliete a modello l’affettuosa vostra genitrice. Tenetevi presti a sovvenire i bisognosi, ed all’uopo troverete soccorso anche voi.
Siate misericordiosi, e troverete anche voi misericordia. Riponete tutta la vostra fidanza nel Signore; scolpitevi nel cuore quelle massime scritte dalla vostra madre su fragili gusci, e certo ne sperimenterete un giorno i salutevoli effetti. Sì, confidate in Dio; mentre Egli trova tutte le sue compiacenze nel tutelarvi, e far contenti i vostri desiderii. —

Frattanto il sole aveva già declinato all’occaso; espero appariva lucente sull’orizzonte; senza cresta di nubi erano i monti, e l’aere puro e tranquillo. Il Conte Arnoldo insieme alla consorte, e a due figliuolini, s’indirizzò verso il piccolo tugurio, abitato fin d’ora dalla Contessa. Quivi recò loro un nuovo piacere l’incontro di Eckbert, e di Fridolino, i quali si erano intertenuti in compagnia di Kuno, che al sentire l’arrivo del suo caro padrone s’allegrò di guisa, da non sembrare più infermo. Fridolino, liberatore di Eckbert, si fece loro davanti pel primo, e colla gioia sul volto in modi cortesi ed amichevoli salutò la Contessa; indi si strinse al seno i figliuoletti, come que’, che per lo dinanzi gli avevan dato non equivoco argomento di affettuose premure. Eckbert poi tutto da rispettosa riconoscenza penetrato, le disse — Lasci, o Contessa, che io le baci almeno quella mano benefica, onde il sommo Iddio si valse a salvarmi la vita. — Il Conte Arnoldo abbracciò il suo fedelissimo Kuro, e con una vera e grata commozione di Cuore strinse la mano anche al cortese mugnaio, che in abito da festa erasi colà recato. Si ristoraron tutti, e la gioia si leggeva sul volto de’ commensali.
Il dimane, avutasi notizia del fatto, universale fu il giubilo nella valle. La curiosità di conoscere lo sposo della Dama, persona riguardevole e nobile, spinse tutta quella gente ad accorrervi e d’un tratto videsi popolata la piazzetta adiacente alla casipola. Uscì Rosalinda co’suoi figliuoli ed Arnoldo, che, salutata quella buona gente, col più vivo e riconoscente amore si fece a ringraziarla del singolare beneficio, onde avca consolato la consorte e i figliuoli. — Ah no, dissero allora que’carbonai, non siamo noi, che abbiamo usato beneficenza verso la vostra sposa: ella è stata in verità l’amabile nostra benefattrice. — Quindi il Conte s’intertenne per qualche tempo, prendendo lingua con ciascun d’essi, che rimasero forte maravigliati del vederlo usar con loro tanto alla dimestica.

Infrattanto il corteggio di Arnoldo trovò la strada, che’ menava alla valle, e, preceduti dallo squillo delle trombe si videro comparire vari cavalieri, e pedoni con lance e scudi; mentre reiterati evviva udivansi eccheggiare per la valle. Il Conte si dimorò quivi altri due giorni, e, pria di partirsi con tutti i suoi, convitò que’della valle. Recava maraviglia il vedere que’carbonai, sedersi a mensa fra tanti armati. Terminato il convito, Arnoldo distribuì un regalo, e sì prese a dire — Vo’ lasciar un legato, e co’ redditi dovrà tenersi ogni anno nel giorno di Pasqua una festa, regalandosi a’fanciulli delle uova colorate, in ricordanza della dimora di Rosalinda fra gente sì affettuosa.—
Anch’io, disse Rosalinda, vo’ introdurre un tal uso nella nostra Contea.—
Questa constumanza si diramò anche altrove, e si disse — D’indi in poi le uova colorate ricordino solo a figliuoli cosa di più alta rilevanza; la liberazione cioè dal peccato e dalla morte, per mezzo di Colui che vittorioso risorse dalla tomba: solo questo debbe formar l’oggetto della gioia la più viva e della riconoscenza la più sacra.
Qualunque saprà dare a’ figliuoli doni valevoli ad illuminar l’intelletto e a formar il cuore, viva sicuro, che il Padre Celeste gli darà uno spirito buono: unico dono, di cui migliore nessuno può guaggiù desiderare.

REIMPRIMATUR. F. Ang. V. Modena O.P.S.A.M.S.
REIMPRIMAȚUR. J. Canali Patr. Constant. Viceg.


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