La Mafia e cosa ha portato al linciaggio di New Orleans

LA MAFIA.

Non si saprà mai se tra le vittime della legge Lynch a New Orleans alcuni o tutti questi sfortunati uomini fossero o meno membri della mafia (a volte scritto Maffia).
La mafia non sarebbe un’associazione segreta se i suoi membri venissero resi pubblici. Da quando l’Italia è diventata un unico paese, il governo ha agito vigorosamente contro la camorra nel continente e la sua associazione affiliata, la mafia, nell’isola di Sicilia.
Se, va a suo merito, in una certa misura li ha annientati, ma non è riuscita a individualizzare la mafia. Non siamo quindi tenuti a prendere senza riserve affermazioni così assolute, provenienti dagli italiani, secondo cui non esiste una società mafiosa trapiantata in America. Senza essere allarmisti, non è certo che il mafiosismo (Molly– Maguireism) sia mai stato completamente estirpato in Pennsylvania. Se dunque il mafiosismo in Sicilia non si fosse estinto – e non c’è alcuna prova che lo sia stato – sarebbe sciocco credere che tra quegli sciami di siciliani venuti negli Stati Uniti non ci sia mai stato un mafioso .

Osservando i metodi dei siciliani di New Orleans, e quello relativamente insignificante citato precedentemente in un altro articolo, i metodi negli Stati Uniti e in Italia sono gli stessi. Dodici anni fa, nelle contese con lo Stato in patria, queste società segrete italiane erano in grado di resistere, perché nei tribunali in cui la questione veniva decisa le probabilità erano tutte a loro favore.

L’Opinione (1879) ‘giornale Italiano’ stampava così: “Se un membro commette un crimine, i suoi associati lo difendono con prove fabbricate, intrighi e intimidazioni”. Prendiamo il recente processo di New Orleans e notiamo l’influenza esercitata sui testimoni e sulla giuria, così che la condanna è stata resa impossibile. Nella Fortnightly Review del 1887, dove viene ampiamente descritta l’azione di queste società segrete nelle Due Sicilie, questa è la conclusione pertinente: “Le società conservano la sanzione della pena di morte; lo Stato l’ha abbandonata”.

Se si studia il processo per l’estradizione di Esposito, avvenuto a New York, si scopre che i parallelismi tra esso e i metodi mafiosi erano stretti. Una nuvola di testimoni – tra cui, è bene ricordarlo, ce n’era uno di nome Provenzano – giurarono tutti che Esposito, con molti pseudonimi, era un onesto commerciante di frutta di New Orleans, che aveva vissuto in Louisiana anni prima di qualsiasi accusa mossa in Italia contro di lui. È stata presentata anche una donna con il suo bambino. La donna giurò di essere la moglie dell’uomo, e il bambino era figlio del suo caro marito, Vincenzo Ribelli. Il governo italiano voleva che l’uomo venisse processato con l’accusa di due omicidi premeditati, innumerevoli casi di rapina e di estorsioni violente, con conseguente morte delle vittime.
Ciò che questo disgraziato aveva fatto, suscitando l’ira degli inglesi, era stato il taglio delle orecchie e del naso del curato John Forrester Rose, per ottenere un riscatto di 5000 sterline. Lo spergiuro totale e indiscriminato della classe più bassa degli italiani di New Orleans era evidente. Questa è una prova. Per quanto si è potuto determinare, erano tutti siciliani, ma se appartenessero o meno alla mafia, non può essere determinato né ora né mai. Esposito è stato estradato. Ritornato in Italia, processato a Palermo e condannato all’ergastolo. Con una fibra più grossolana avremmo impiccato questo orribile criminale su due piedi. Questo è proprio uno di quei casi in cui, se togliendo la vita si infligge la pena più severa ad un uomo, la mafia fa tutto a modo suo.

Nella conca d’oro, – la conchiglia doro, – che non impropriamente descrive l’incantevole ingresso di Palermo, boschetti di limoni donano alla terra la sua ricchezza. Si ritiene che la mafia esista ancora lì e riscuota pedaggi quando può; almeno, secondo fonti autorevoli, questo era il caso solo quattro anni fa. Nel Blue–Book inglese del 1877 c’è una definizione di mafia: “La mafia non è propriamente una società segreta, ma piuttosto lo sviluppo e il fiorire di violenze arbitrarie dirette a fini criminali di ogni sorta. È la violenza istintiva, brutale, sordida solidarietà che unisce contro lo Stato, le leggi e le autorità costituite tutti coloro che sono determinati a vivere e prosperare non con il lavoro onesto, ma con la violenza, la frode e l’intimidazione.” Deve la sua origine in Sicilia non ad un’idea patriottica, ma ad un sordido guadagno.

Una condizione curiosa di questa mentalità dell’Italia meridionale, peculiare della classe inferiore, e condivisa, sfortunatamente, da un’altra nazionalità, è che un uomo che sia un testimone consenziente abbia commesso una rapina, un omicidio, un incendio doloso, o quasi qualsiasi cosa, qualunque altra cosa si tratti, è un traditore o, cosa molto più denigrante, un “informatore”.
Questo principio, designato come «Omertà», il signor Cosedeli così descrive: «Il carattere nazionale dei Siciliani in tutte le sue manifestazioni si è compenetrato coi principi di uno speciale codice chiamato di Omertà», che lo pone come primo dovere di un uomo che si faccia giustizia con le proprie mani per qualunque ingiuria abbia subito, e marchia con infamia, resistendo al disprezzo e alla vendetta del pubblico, chiunque si appella ai tribunali o aiuta la polizia nella loro indagini.

Un uomo perfettamente onorevole negli altri rapporti della vita è convinto di fare una buona azione dando rifugio a un assassino o rifiutandosi di testimoniare contro di lui; poiché il codice dell’Omertà dice: “La prova è buona finché non danneggia il tuo prossimo”.

Questa “Omertà” è evidente ogni giorno nei tribunali di polizia.

Ritornando al miserabile Esposito e la sua Orleans nel 1881, fino alla mutilazione del curato inglese, che potrebbe aver portato all’omicidio di David Hennessy e al linciaggio di undici italiani. Bisogna tenere presente le lotte di fazione tra i due partiti, i Provenzano e i Matrango. Le loro cause di litigio e i metodi di vendetta sono, se non siciliani, almeno colorati di mafia. Quella terribile massima risuona nelle orecchie: “Si moru mi drivocu, si campu t’allampu” – Se muoio sarò sepolto; se campo, t’ammazzo.

Classificare tutti gli italiani o tutti i siciliani come malfattori sarebbe la più clamorosa delle ingiustizie. Non c’è una città negli Stati Uniti dove gli italiani, dall’estremo Nord all’estremo Sud, non siano rispettati per la loro elevata integrità. Nessuno sarebbe disposto a rappresentare come campione i nostri milioni di rappresentanti prelevati in un territorio di confine. Se nel 1881 la popolazione dell’Italia era di 28.500.000, in tutta la Sicilia nel 1889 erano 3.265.000. Negli ultimi sette anni abbiamo accolto probabilmente ben 30.000 italiani; ma quale percentuale siciliana, le statistiche non valgono nulla per determinarlo.

COME IL CAPO DELLA POLIZIA HA FATTO ARRABBIARE PER LA PRIMA VOLTA
LA MAFIA

La storia dell’assassinio di David C. Hennessy, capo della polizia di New Orleans, e del linciaggio dei suoi presunti assassini, inizia il 6 maggio 1890. Verso mezzanotte di quel giorno un gruppo di sette siciliani guidò un leggero carro di frutta dalla riva dove avevano scaricato un nave a vapore, e procedettero verso Esplanade Street. Erano Tony Matranga, Salvador Sunzeri, Vincent Caruso, Roco Geraci, Bastian Incardona, Tony Locascio e Frank Locascio. Su Esplanade Street c’è un boschetto di alberi, e Claiborne è fiancheggiato da una doppia fila di alberi. Al loro incrocio fu sparato sul carro. La gamba sinistra di Tony Matranga fu amputata. La gamba destra di Vincent Caruso rimase paralizzata. Salvador Sunzeri riportò una ferita superficiale alla coscia.
Inizialmente la parte aggredita si rifiutò di dire chi aveva sparato loro, ma in seguito dichiarò che gli aggressori erano Joseph Provenzano, Peter Provenzano, Tony Gianforcarro, Nick Guilio, Tony Pellagrini e Tony Lombardo. Questi sei uomini furono processati nel luglio 1890. I sette uomini che erano nel carro giurarono positivamente che erano stati quegli uomini che avevano sparato. Diverse persone, tra cui Joseph P. Macheca, testimoniarono sulle minacce che gli uomini avevano fatto.

Gli accusati cercarono di dimostrare degli alibi, ma la giuria credette ai loro avversari e li giudicò tutti colpevoli, senza pena capitale.

Il capo della polizia Hennessy era stato un caro amico dei Provenzano e, credendo che le prove dell’accusa fossero false, si recò in Italia e si assicurò la storia di Sunzeri, Geraci e altri, così come i loro documenti lì. Il risultato gli rivelò l’esistenza di una società segreta perfettamente organizzata in America, con ramificazioni a New Orleans, New York, St. Louis e San Francisco, e forse a Chicago.
Si trattava di un’associazione formata dai peggiori elementi italiani, riuniti da uomini espulsi dalla Sicilia per i loro crimini, che portavano in questo paese lo stesso sistema di estorsione con minacce, rapine e omicidi. I loro compaesani capivano meglio la completezza della loro società, e quando un grosso commerciante di frutta o un commerciante riceveva l’avviso di recarsi da solo in un certo luogo appartato con $ 500, $ 1000 o $ 2000, altrimenti sarebbe stato ucciso dalla mafia, generalmente rispettava le regole d’invito. Quelli dell’organizzazione erano tenuti insieme dai giuramenti più vincolanti, e per non aver eseguito il lavoro imposto dalla società sarebbe stata decretata la morte.

Hennessy, credendo che Charles Matranga, Joe Macheca, Geraci, i Caruso e altri fossero leader del ramo mafioso di New Orleans, raccolse prove e si preparò a usarle per smantellare la mafia qui e per mandare i leader in prigione per falsa testimonianza nel caso Provenzano. Nel frattempo gli avvocati dei Provenzano avevano ottenuto per loro un nuovo processo. Il caso fu fissato per la fine di ottobre.

La teoria degli amici di Hennessy è che egli avesse anche raccolto la fedina pernale dell’agente O’Malley, un investigatore privato, e stesse per schiacciarlo; e che O’Malley andò da Macheca, gli disse che Hennessy intendeva mandarlo al penitenziario per omicidio e altri crimini, e lo consigliò di mettere all’opera la mafia per assassinare il capo della polizia. A questo punto la teoria diventa superflua e iniziano i fatti.
Pochi giorni dopo che ai Provenzano fu concesso un nuovo processo, Joe Macheca si recò in Girod Street, vicino a Basin, e affittò una baracca a una cinquantina di metri dalla casa di Hennessy. Monasterio, arrivato di recente dalla Sicilia, uomo scaltro e astuto, si insediò nella baracca, e svolgeva saltuariamente la professione di calzolaio.

L’ASSASSINIO DEL CAPO DELLA POLIZIA.

Il processo Provenzano, e la conseguente deposizione di Macheca, avrebbe dovuto svolgersi intorno al 19 ottobre. Alle 23.20 del 15 ottobre, David C. Hennessy fu crivellato di proiettili e pallottole mentre si trovava a pochi metri da casa sua in Girod Street.. La maggior parte degli spari erano arrivati dai dintorni del capannone davanti alla baracca di Monasterio. Le ferite erano molto crudeli. Tre grossi proiettili di forma irregolare avevano aperte ferite nell’addome e nel torace; un proiettile aveva attraversato il ginocchio destro; un altro attraverso la mano sinistra; il viso, le braccia, il collo e il petto erano pieni di innumerevoli proiettili. Sulla vittima erano state sparate intere raffiche. Hennessy non morì fino al mattino successivo, ma non fu mai abbastanza cosciente per dire chi gli aveva sparato, tranne la parola sussurrata: “Dagoes”.

https://it.wikipedia.org/wiki/Dago_(insulto)

Monasterio fu arrestato nei dieci minuti successivi all’imboscata, mentre si era ritirato nella sua baracca. Antonio Marchesi, suo figlio (Asperi Marchesi), Tony Scaffedi e molti altri furono arrestati. Decine di italiani furono arrestati dalla polizia, per poi essere rilasciati il giorno successivo per mancanza di prove. Poi furono trovate le armi. Erano une elemento di curiosità per l’americano della città. Uno era un normale fucile a doppia canna. Altri cinque erano fucili da caccia. Questi avevano le canne accorciate essendo segate grossolanamente. I calci erano provvisti di cerniere e giravano all’indietro contro la serratura del pezzo. Questa accorgimento riduceva il fucile alla lunghezza di una normale pistola da cavallo e consentiva di portarlo addosso alla persona senza essere scoperti. Si credeva che questi fossero gli strumenti di morte della mafia.

IL PROCESSO.

La polizia fu messa alla prova, ma le prove che portò alla luce furono tenute segrete fino al processo. Il 20 novembre le accuse per omicidio e sparatoria con l’intento di uccidere mentre erano in agguato, furono rivolte contro undici italiani e contro altri otto come complici prima del fatto.

Si sono assicurati come loro consulenti l’ex procuratore distrettuale Lionel Adams, l’ex assistente procuratore distrettuale AD Henriques, l’on. Thomas J. Semmes, Charles A. Butler e A. Gastinel.
Fu iniziata una dura battaglia legale e il 9 dicembre la difesa riuscì a far annullare le accuse, perché il procuratore distrettuale aveva portato lo stenografo del tribunale nella sala del Gran Giurì e aveva fatto mettere per iscritto la testimonianza. Il 13 dicembre un nuovo Gran Giurì rinviò a giudizio gli stessi uomini.

Il processo fu fissato per il 16 febbraio. Lo Stato chiese la separazione del caso, mise sotto processo Charles Matranga, Joseph P. Macheca, Asperi Marchesi, Antonio Scaffedi, Antonio Bagnetto, Pietro Monasterio, Bastian Incardona, Manuel Politz, Antonio Marchesi e avviò la selezione della giuria il giorno successivo. Più di 1.200 giurati di talento furono convocati per essere esaminati in merito alla loro idoneità a far parte della giuria. Passarono undici giorni prima che il dodicesimo uomo fosse accettato e prestasse giuramento.

La presunta corruzione di questa giuria fu ciò che più amaramente fece infuriare la popolazione e portò indirettamente al linciaggio. Nove uomini erano sotto processo e avevano dodici ricorsi perentori ciascuno, ovvero 108 in tutto; lo Stato ne aveva 54. Si ritiene che O’Malley, l’investigatore privato, sia riuscito a far inserire nella ruota della giuria i nomi di un certo numero di uomini che poteva influenzare; di aver operato tramite numerosi agenti sui testimoni, i cui elenchi venivano forniti alla difesa ogni volta che venivano sorteggiati. La difesa, con 108 ricorsi perentori a suo disposizione, era in grado di decidere chi dovesse far parte della giuria. Molte persone avevano opinioni fisse tanto che gli avvocati si liberavano delle persone discutibili mediante ricusazione per giusta causa. Ma quando le altre soluzioni fallivano, c’era una riserva illimitata di ricusazioni dirette a cui attingere, e per dimostrare che venivano usate frequentemente, si può aggiungere che la difesa esercitò 89 delle sue ricusazioni perentorie.

Sabato 28 febbraio iniziò la raccolta delle testimonianze. Si concluse il 10 marzo. L’accusa dimostrò al di là di ogni dubbio che Macheca aveva affittato la baracca a Monasterio, che gli assassini si erano nascosti nella sua stanza fino all’avvicinarsi della loro vittima, che il ragazzo Asperi Marchesi era stato incaricato di avvisare dell’avvicinarsi di Hennessy e che corse davanti al capo e fischiò. Dimostrò in modo definitivo all’opinione pubblica che Antonio Scaffedi, Antonio Marchesi, Manuel Politz, Antonio Bagnetto e Monasterio avevano effettuato la sparatoria.

La gente era convinta della colpevolezza degli uomini ed era fiduciosa che la giuria non avrebbe potuto venir meno al proprio dovere. L’aula fu completamente sgombrata venerdì pomeriggio quando era attesa la sentenza. Alle 14.30, quando arrivò, erano presenti solo i giornalisti e gli avvocati. Lo Stato aveva abbandonato il caso contro Incardona e il tribunale aveva ordinato alla giuria di assolvere Matranga, poiché l’accusa non era stata in grado di fornire prove dirette contro di loro. Pertanto, ciò che la giuria disse al riguardo suscitò poco interesse. Un gioielliere di nome Seligman era stato nominato caposquadra della giuria. Egli emise il verdetto. Il giudice Baker, un uomo solitamente estremamente imperturbabile, guardò attentamente il documento per un minuto prima di riprendersi dallo stupore. Poi ne ordinò la lettura. Il verdetto dichiarò non colpevoli Matranga, Incardona, Marchesi (il padre), Marchesi (il figlio), Bagnetto, Monastiero e Macheca. Sui casi di ScaffIdi, Monastiero e Politz non furono d’accordo.
Il verdetto causò costernazione ovunque. Che la giuria fosse stata imbrigliata era la prima e più evidente accusa. Tutti gli imputati furono rinviati alla prigione comunale, poiché un altro processo era ancora in corso in un’altra sezione del tribunale. Questo pose fine al processo con giuria.
Il processo e l’esecuzione della legge Lynch sono un’altra storia.


JOHN C. WICKLIFFE

LA STRAGE AL CARCERE COMUNALE.

Il 14 marzo sei italiani accusati e processati per l’omicidio di David C. Hennessy, il capo della polizia di New Orleans, furono assolti, e nel caso di altri tre fu annullato il processo. Poiché tutti questi uomini erano trattenuti con una seconda accusa, furono portati nella prigione comunale e rinchiusi in celle diverse. Quegli altri prigionieri italiani ancora da processare e questi appena assolti si congratularono tra loro, ed esultarono insieme per l’esito del processo, che si prolungava ormai da oltre due mesi. Sembrava loro una conclusione molto felice per sessanta giorni di terribile dubbio e purgatorio.

Nello stesso tempo un comitato di vigilanza di cittadini, ben noto almeno a New Orleans, si era riunito nell’appartamento di un giovane scapolo membro del bachelor club man, dove avevano denunciato il verdetto del pomeriggio, e si erano pronunciati all’unanimità contro di esso, e per una azione immediata e fatale l’indomani. Scrissero un appello per una riunione di cittadini, e ne inviarono copie alle varie redazioni dei giornali e andarono a casa a dormire.
Questo era l’appello:

MASS– MEETING!

“Tutti i buoni cittadini sono invitati a partecipare a una riunione di massa sabato 14 marzo, alle dieci del mattino, presso la statua di Clay, per prendere provvedimenti per rimediare al fallimento della giustizia nel caso Hennessey. Venite preparati all’azione”.

Johm C. Wickliffe, W. J. Parkinson, e altri quarantotto.

(N.d.r – W. J. Parkinson, o W. S. PARKERSON?da altra fonte: firmato da più di oltre cento cittadini).

Aveva piovuto a New Orleans nell’ultima settimana, ma sabato, 14 marzo, il clima era fresco, sereno e soleggiato. Lo sceriffo Gabriel Villere scese alla prigione comunale dopo colazione e mentre si recava in città lesse l’appello sul giornale del mattino. Non notò nulla che non fosse la solita routine alla prigione e alle 8.30 si recò in città nel suo ufficio in municipio. Il carcere comunale occupa un’intera piazza. Si affaccia su Orleans Street ed è delimitata dalle strade Treme, St. Ann e Marias.

Un grande cancello di ferro protegge l’ingresso di Orleans Street con sbarre spesse un pollice e mezzo. Dietro c’è un cancello di ferro più piccolo. Tre operai si fermarono davanti a questa barriera aperta e guardarono con curiosità nel cortile, poi attraversarono la strada all’indietro, guardando le finestre della prigione; poi si sedettero su un un gradino e aspettarono. Erano le otto e mezza quando il capitano Lem Davis, che era al comando dopo la partenza dello sceriffo Villere, li notò seduti lì ad aspettare. Il capitano Lem Davis pensava che i presenti presso la statua di Clay avrebbero potuto approvare risoluzioni che esprimessero la loro indignazione per l’errore giudiziario, e che lui ne avrebbe letto sui giornali del pomeriggio.
Ai tre operai si unirono altri sei o sette uomini, fannulloni, ragazzi di colore e scaricatori degli argini. Si appoggiarono con la schiena al muro di fronte alla prigione e aspettarono anche loro, crogiolandosi pazientemente al primo sole. Quando il capitano Davis guardò di nuovo, la dozzina di uomini erano diventati una doppia fila che fiancheggiava entrambi i lati delle strade, e che ora guardavano lungo il viale invece che dall’altra parte verso la prigione, come se si aspettassero una processione o una parata circense. Il capitano Davis disse alla guardia notturna, che stava appena uscendo dal servizio, di aspettare un po’, perché pensava che potessero esserci dei problemi. La guardia notturna sbadigliò assonnata e fu raggiunta dalla guardia di sicurezza. che aveva letto “l’appello” sui giornali del mattino ed era preoccupata.

Anche i prigionieri italiani nelle loro diverse celle avevano sentito della chiamata, e chiesero di vedere lo sceriffo, e poi il capitano Davis, e lo pregarono di proteggerli da non sapevano esattamente contro cosa. Il capitano Davis divenne nervoso ed eccitato e parlò in modo aspro a chiunque lo interrogasse. È stata una grande responsabilità per un uomo. Avrebbe tanto desiderato che lo sceriffo Villere avesse aspettato. Poi telefonò allo sceriffo dicendogli che c’era una folla fuori dalla prigione, telegrafò al capo della polizia e mandò un corriere a portare dentro gli agenti che vivevano fuori della prigione. Gli agenti uscirono di corsa dalle loro case vicine, e la folla li schernì mentre il cancello di ferro si chiudeva dietro l’ultimo di loro.
Alcuni ragazzi tra la folla cominciarono a dare il fischio acuto che dovrebbe essere stato il segnale della mafia, e a gridare all’unisono: “Who killa de chief?” come i club politici erano soliti gridare le loro campagne elettorali a Broadway. Il rumore giunse fino al centro della prigione, e gli italiani lo udirono, e gridarono pietosamente al capitano Davis di lasciarli uscire, o di rinchiuderli, o di dare loro le armi con cui difendersi. Il capitano Davis diede le armi che aveva ai suoi vice e mandò i carpentieri della prigione a barricare la porta di legno su Treme Street. Questa porta conduceva alla sua stanza privata, e da quella alla prigione vera e propria. La folla fuori udì il suono dei martelli e rispose con urla e scherni.

La maggior parte dei prigionieri si trovava al secondo piano dell’edificio principale del carcere. La prima stanza che si apre sull’ampio corridoio di quel piano è il dispensario. Accanto c’è una stanza per i prigionieri che pagano un vitto extra, leggermente migliore della tariffa normale della prigione. In quella stanza c’erano Joseph P. Macheca, Charles Matranga, James Caruso, John Caruso, Frank Romero, Charles Patorno, Salvador Sunzeri e Roco Geraci.

L’appartamento adiacente è di natura simile. Si chiama “Camera delle Stelle”. In esso c’erano Antonio e Asperi Marchesi (padre e figlio), Antonio Bagnetto, Bastian Incardona, Pietro Monasterio, Charles Pietzo, Loretto Comitz, Pietro Natali e Charles Traina.

Manuel Politz era in isolamento in una delle celle dei condannati al terzo piano, nella cosiddetta Galleria “Bianco Manchac”.

Quando il capitano Davis udì le urla all’esterno in risposta ai colpi di martello, ordinò che tutti i prigionieri fossero rinchiusi nelle loro celle, che gli italiani sospettati fossero rilasciati e che fosse loro permesso di nascondersi se potevano. In seguito disse che la sua idea era quella di disperderli e di dare loro una possibilità per la loro vita.

La maggior parte di loro passò nella parte femminile. Sunzeri e Pietzo corsero lungo la fila delle celle fino a raggiungere un angolo buio sotto la scala sul retro. Il capitano Davis possedeva in precedenza un bull–terrier di nome Queen, per il quale costruì una cuccia per cani da una scatola di merci secche. I due uomini si sono infilati dentro. Natali era dalla parte delle donne. Attraversò di corsa il cortile fino al lavatoio, aprì la porta e si infilò sotto una panca in uno degli angoli.

John Caruso corse giù per le scale con gli altri, corse nel cortile bianco, dove i prigionieri venivano appena rinchiusi, e scivolò in una cella con alcuni dei tanti prigionieri. Non fu trovato.

Incardona corse lungo il ballatoio del secondo piano finché arrivò a un vecchio bidone della spazzatura, nel quale si nascose. Anche lui non fu trovato.

Macheca, Scaffedi e Marchesi vecchio salirono di corsa le scale fino alla galleria dei condannati al terzo piano. Politz era appena stato portato giù dalle scale. La cella era stata chiusa dietro di lui, e anche le altre celle della galleria erano chiuse. Macheca e gli altri non lo sapevano e di conseguenza erano intrappolati come bestie in gabbia.

Il ragazzo Marchesi vagava per il corridoio appena fuori dal suo ultimo luogo di prigionia, picchiava le sbarre delle celle e implorava di essere lasciato entrare.

Due uomini che non furono mai più visti dopo il loro rilascio, nemmeno dai guardiani, furono Charles Matranga e Charles Patorno. Insieme agli altri attraversarono il cortile delle donne e poi cercarono un luogo sicuro, intorno al quale evidentemente erano stati informati in anticipo.

La folla fuori dalla prigione ora bloccava le strade dagli alti muri del cortile del carcere fino ai muri delle case di fronte. Non era ferocemente dimostrativa. C’erano urla e grida e il fischio acuto della mafia, ma la maggioranza più grande e più terribile taceva e aspettava ancora.

Il capitano Davis mandò i suoi vice nel cortile con i loro Winchester sotto il braccio, e corse a guardare la barricata oltre la porta su Treme Street. Gli sembrava abbastanza consistente. Ancora adesso la prigione poteva essere tenuta. E poi si udì un suono che fece sussultare il capitano Davis e lo fece restare immobile. Era il passo regolare degli uomini in marcia, di applausi e di risposte agli applausi, e il ruggito rauco e impaziente di una grande folla. Il capitano Davis corse al grande cancello sbarrato dell’ingresso di Orleans. Quando lo raggiunse, un taxi, con l’autista che sferzava il cavallo, si fermò con uno strattone, e due investigatori saltarono fuori e gli gridarono che il comitato di vigilanza stava arrivando “per linciare i dagoes”. “Lasciateli venire”, gridò il capitano Davis; “non entreranno”.

Ma il comitato di vigilanza intervenne come se il capitano Davis non avesse niente a che fare con tutto ciò. A capo del comitato c’erano W. S. Parkerson, il procuratore distrettuale, John C. Wickliffe e Walter D. Denégre. Si erano appena rivolti alla folla che si era radunata in risposta all’appello dalla piattaforma di pietra attorno alla statua di Henry Clay, all’incrocio tra Canal e St. Charles Street. La folla era abbastanza numerosa da bloccare i vagoni della ferrovia di Orleans Street e, dopo averli bloccati, strisciarono sopra di essi e applaudirono gli oratori.

Sui balconi della gioielleria Griswold, come raccontano i giornali locali, c’erano “numerose signore, con i loro accompagnatori”, che sventolavano i fazzoletti e applaudivano gli oratori. Il procuratore distrettuale disse tra le altre cose, “Quando la legge è impotente, i diritti delegati dal popolo vengono relegati al popolo, ed essi sono giustamente vincolati a fare ciò che la legge non è riuscita a fare”. Accusò la giuria di esser stata corrotta, e chiese se la gente era pronta a seguirlo nella prigione comunale. La gente era prontissima. Giunsero alla prigione prima di lui, e chiesero le chiavi al Capitano Davis.
Quel funzionario, duramente provato, rifiutò le chiavi, e allora la folla si voltò verso la porticina di legno in Treme Street. C’era una catasta di legname sulla strada, e con dei legno di questa e una pietra pesante nelle mani di un negro, la serratura cedette, la fragile barricata, e i cardini della porta. La folla era in possesso della prigione comunale. Non furono ammessi più di sessanta uomini. John C. Wickliffe stava davanti alla porta rotta ed esaminava coloro che cercavano di passare. Se erano armati, e se dicevano che intendevano usare le armi, venivano lasciati passare. I semplici curiosi venivano tenuti fuori e a ogni uscita della prigione venivano poste delle sentinelle per abbattere ogni prigioniero in fuga.

Parkerson e Charles Ranlett, con i fucili in spalla, guidarono gli uomini attraverso il cortile e fino alla “Camera delle Stelle,” che trovarono vuota. Ma lungo la strada videro il giovane Marchesi e lo risparmiarono. Corse in una cella aperta, e si infilò sotto un letto. Macheca, Scaffedi e Marchesi vecchio si nascondevano l’uno dietro l’altro dietro un pilastro davanti alla cella dei condannati.
La folla li vide, ma non riuscì a raggiungerli, e chiamò freneticamente gli agenti per avere le chiavi. Scaffedi si mostrò per un istante accanto al pilastro di protezione, e fu colpito alla testa. Marchesi, tremando e inciampando in avanti, cadde sul cadavere, prima che potesse rialzarsi, e mentre lottava per rimettersi in piedi, fu crivellato di colpi di pallottole. Macheca era ormai solo, e, presa una mazza indiana, picchiò con furia la serratura del cancello che dava sul ballatoio. Prima che potesse romperla, qualcuno portò la chiave della galleria, la porta fu spalancata e la folla si accalcò dentro. Il primo proiettile colpì Macheca in fronte, ma questi continuò a battere sulla serratura della porta all’altra estremità della galleria. Poi qualcuno gli puntò la canna di una pistola alla spalla e lui la gettò da parte. Gli spararono alla mano. Un altro gli avvicinò il fucile al petto e sparò, e Macheca scivolò con la schiena contro il muro, e la folla gli passò sopra. Altri sei furono trovati nel cortile delle donne fuori dalla seconda cella dalla porta; erano rannicchiati insieme in ginocchio, con le mani alzate, implorando pietà. Sono stati tutti uccisi. Uno di questi, – Jim Caruso – ricevette in tutto quarantadue proiettili. Sembrano più che sufficienti per uccidere un uomo, ma questo è ciò che accade quando “la legge è relegata al popolo.” Altri due, – Manuel Politz e Antonio Bagnetto – furono impiccati fuori del carcere. Sembra che ciò sia stato fatto per propiziare la folla, che si era persa la parte migliore della sparatoria, ma che fu poi ammessa in gruppi di dieci e quindici per vedere cosa era stato fatto così bene.

Politz era il giovane che impazzì all’inizio del processo. Si riprese, ma la perse di nuovo quando sentì le grida fuori dal carcere la mattina presto. Fu trovato, chiacchierando tra sé e completamente matto, accucciato sotto una scala, e fu trascinato fuori e “preso a calci lungo la strada” verso un lampione. La corda si ruppe la prima volta, e al secondo tentativo il ragazzo si afferrò e si tirò su con le mani finché giunse alla traversa del lampione, dove rimase sospeso ansimante. Allora il giovane che era salito sul lampione per aggiustare la fune lo colpì in faccia con un pugno finché non mollò la presa. Cadde di nuovo sul marciapiede e fu sollevato una terza volta, ma di nuovo si tirò su con la corda. Allora la gente gli legò le mani e per la quarta volta lo tirò su in aria. Quest’ultimo tentativo riuscito, ci viene detto, fu “accolto da applausi assordanti da parte della folla”, che gli strapparono immediatamente i vestiti dalla schiena per dividerli come souvenir. “Mentre pendeva alla luce del sole”, così dice uno dei giornali locali, “fece un’immagine un piuttosto orribile, con la carne nuda esposta trasformata in un pallore verdastro mortale.” Dopodiché la folla tornò alla statua di Henry Clay, “acclamata durante la marcia di ritorno dalle donne e dai bambini sui balconi”, dove si disperse silenziosamente.
E in questo modo, il 14 marzo 1891, i cittadini di spicco di New Orleans dimostrarono di essere “giustificati nel fare ciò che la legge non era riuscita a fare”.

Da: Harper’s Weekly, Volume 35
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