LA CAMERA DEL PRETE

Leggenda siciliana

Fra gli scogli del Salvatore c’era una, chiamata la Camera del Prete.
Perchè un prete, ch’era sepolto da cent’anni nella chiesetta soprastante, in cima allo scoglio a picco, si alzava ogni notte dalla bara, colla stola indosso, e andava a mettersi a tavola, insieme ai suoi convitati, ch’erano i morti della stessa sepoltura.
Infatti in mezzo alla caverna sotterranea c’era un immenso pietrone piatto e liscio, ritto sopra un pilastro, che si chiamava la Tavola da pranzo, e tutto intorno dei sedili di sasso.
L’onda del mare, che penetrava morta sin là dentro, scorreva lenta e livida sulla tavola da pranzo, e portava via le briciole.
Di sopra i pescatori, nelle lunghe ore di sole che stavano immobili colla lenza in mano, non vedevano altro che il gorgoglio spumoso dell’onda, la quale s’ingolfava nella caverna; ed il chiarore verdognolo che ne usciva colla risacca. Ma chi gli bastava l’animo – specie i ragazzi – di tuffarsi a capo in giù, e penetrare nella Camera del Prete, vedeva l’illuminazione meravigliosa ch’era là dentro, azzurra ed ondeggiante, come quelle fiammelle, che si accendono la notte nei cimiteri;| la tavola bianca in mezzo, e i sedili in giro, vuoti.
A mezzanotte, nell’ora del convito, si diceva che l’illuminazione fosse tale, che i pescatori al largo la vedevano dall’Agnone, come una luna rossa, nascente dalla riviera nera di Catania.
Però nessuno dopo il tramonto aveva avuto il coraggio di arrischiarsi dentro la Camera del Prete. In estate tutte le piccole insenature dei dintorni, in cui l’acqua luccicava al lume di luna, suonavano della gazzarra dei bagnanti; e nelle sere buie l’onda cheta scintillava rotta dalle braccia di qualche ragazzo innamorato che nuotava verso le sottane bianche di cui formicolavano gli scogli. Ma lassù alla chiesetta del Salvatore squillavano nel silenzio le ore solitarie, l’una dopo l’altra, sino a quella del convito; la luna entrava cheta nella sepoltura a visitare ad uno ad uno quei cadaveri freddi, stesi in fila nei cataletti, colle mani pallide in croce. E le raffiche nelle notti di fortuna passavano sibilando sulla chiesuola, nel buio.

Un pescatore di granchi, uno che non guardava nè a Dio nè al Diavolo per amor del guadagno, e s’era avventurato col suo lume sino all’imboccatura della caverna una brutta sera, non era poi tornato a casa, e nessuno poi l’aveva più visto. Chè, si diceva, fosse stato tirato per un piede nella Camera del Prete, e d’allora le sue ossa rimanessero sotto la Tavola da pranzo, condannate a levarsi per far lume nell’ora del convito.

Ora hanno demolito la chiesuola e rotto la scogliera. Nello scoperchiare la sepoltura si vide che essa pigliava luce da un foro aperto nello scoglio in cui era fabbricata la chiesa del Salvatore, ad un’altezza sul mare da far venire le vertigini. Da quella finestra aperta nell’azzurro arrivava sino ai morti il grecale fresco d’estate, e il soffio gelato della tempesta sicchè quei cadaveri sembravano imbalsamati. Erano cadaveri di ogni età e di ogni epoca; colle facce gialle di cento anni, o le guancie tuttora azzurrognole come se l’ultima loro barba fosse stata fatta ieri; palpebre ancora bagnate di lagrime e occhiaie scavate dal dito del tempo; labbra umide dall’estremo bacio o rose dalla morte. Tutte quelle ossa furono portate al cimitero colle guardie, perchè nessuno toccasse.

Tale e quale come si trovavano – raccontava la guardia – colle fogge e i vestiti di cent’anni addietro: zazzere lunghe e parrucche col codino, giustacuori di velluto, brache corte colle fibbie, uno perfino ci aveva tre numeri per il lotto. Tutti li giuocarono, guardie e becchini, ma nessuno pigliò un soldo.

La Camera del Prete non c’è più. Nel rompere gli scogli vollero vedere almeno se si trovavano le ossa del pescatore di sotto la Tavola da pranzo. Solo un branco di granchi scappò via nel rimuovere il pietrone.

E il mare spumeggiante sotto la catena della grù, si portò via la leggenda, come scopava vie le briciole della Tavola del Prete, e tornò a di stendersi sereno e color del cielo.

GIOVANNI VERGA

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Tratto da: L’illustrazione popolare