IL CAFFÈ

Il convito è in sul finire: i servi han portato in giro le pile di confetti, han versato negli eleganti bicchierini il vino spiritoso; ma i convitati sazi guardano svogliatamente le cartoline dorate e variopinte involgenti i confetti riposti fra i fiori, e non si sentono più voglia di pur solo accostare le labbra al bel vino gialleggiante di topazio.
I convitati non hanno più che un desiderio, quello di coronare la mensa colla utile bevanda, la cui mercè si fa lieve il travaglio dello stomaco, e aspettano avidi, accendendo il sigaro, la sospirata tazza di caffè.
Al piano di sopra, un professore non ha fatto un pranzo che debba dar troppo travaglio al suo stomaco, ma deve andare ad una radunanza accademica dove un collega ha annunziato la lettura di una memoria importante, e a riparo dei troppi sbadigli manda giù al momento di uscire una buona tazza di caffè.
Più su un giornalista ha da fare un articolo politico, letterario, scientifico, teatrale od altro; son venti colonnini di bianco che devono esser coperti di nero prima che aggiorni, e la macchinetta del caffè messa due o tre volte in opera lungo la notte lo sorregge e difende dallo addormentarsi egli stesso sul proprio lavoro.
All’ultimo piano un operaio ritorna a casa ubbriaco, la moglie gli dà una strapazzata, lo caccia a letto, e gli fa una tazza di caffè.
Dal portinaio alla soffitta, per le città e le terre, al domestico focolare e nelle splendide sale scintillanti delle mille fiammelle riflesse dagli specchi in luci infinite, dappertutto si adora la divina bevanda, e non v’ha un solo uomo oggi fra noi che ardisca, anche per ischerzo, sclamare col poeta:

Beverei prima il veleno
Che un bicchier che fosse pieno
Dell’amaro e rio caffè.

Nè solo fra noi.

Vedete là nei bazari d’Oriente, brulicanti di gente d’ogni razza, d’ ogni foggia di vestimenta, la voluttà con cui tutti sorbono la nera bevanda. Vedete là, sulle incantevoli rive del Bosforo, un terrazzino fra il fitto fogliame si specchia nell’onda tranquilla: l’impassibile musulmano tira lentamente su il fumo dal lungo tortuoso tubo del narghilé, guarda l’ acqua gorgogliante fra il fumo nella boccia leggiadramente tinta di un leggero azzurognolo, guarda la sponda verdeggiante ridentissima che gli sta in faccia, non parla, non pensa, e solo a moverlo dalla sua eterna apatia vale la tazza portatagli nel zarfe del fragrante caffè.Lungo le rive del Nilo, sul confine del deserto, non troverete pane, non troverete latte, non troverete nulla, ma sì sempre fra due mattoni ritti al caldo sulla brace fra le ceneri il bricco del caffè, che vi porgerà l’arabo colla pipa alla bocca.
Il caffè e la pipa!
Io quando penso come l’antichità non avesse al fine del pranzo un sigaro da accendere ed una tazza di caffè da centellare, mi sento preso da una immensa compassione per quei nostri avi.
V’ha chi dice che il caffè sia stato bevuto da tempo remotissimo: secondo certi eruditi il nepente apprestato da Elena bella, e cui essa avea ricevuto da una donna egiziana, siccome dice Omero, sarebbe stato caffè, come sarebbe stato caffè il Kali che la sposa di Nabal, la bella Abigaille, offerse insieme coi commestibili ai compagni di David.
Affermano certi musulmani che il caffè sia stato rivelato a Maometto dall’angelo Gabriele.
Sostengono certi cristiani d’oriente che primo a scoprire le virtù del caffè sia stato il priore di un convento in Arabia. Questo priore, dicono essi, notò che i becchi e le capre che avean mangiato i frutti di un certo arboscello, saltellavano poi senza fine e si mostravano oltre ogni consuetudine vispi e petulanti, e restii al sonno.
Il priore che malgrado ogni più disperato suo sforzo non riusciva a tener desti i suoi monaci nelle ore della meditazione e della preghiera, pensò che potessero provare dai frutti di quello arboscello lo effetto stesso provato dai becchi e dalle capre, e fatta loro bevere la infusione, trovò bene essersi apposto.
Certo è che l’uso del caffè si diffuse in Levante nel secolo XV, e pare che il muftì Gebel-Eddin soprannominato Dhabbani ne imparasse l’uso in Persia e lo portasse ad Aden sua patria, d’onde per via dei pellegrinaggi alla Mecca si propagò ben tosto allo Egitto, alla Siria, alle Indie, e quindi all’Europa.
Nel 1511 il caffè venne proibito al Gran Cairo, per la paura che esso producesse ubbriachezza, e più che fosse vietato dal Corano: ma in breve la probizione fu revocata, e si fu allora che esso si diffuse lungo le coste dalla Siria a Costantinopoli.
In questa ultima città giunse la nuova bevanda in sull’anno 1553, e destò in breve discussioni religiose.
Gli ulemi, grandi custodi della legge, mal sopportarono che i fedeli prendessero a bere un nuovo liquido senza il loro consenso, e proclamarono l’atto irreligioso ed empio, e a conferma della sentenza, scartabellato il Corano, trovarono un periodo che parve loro calzare a meraviglia. – Che cosa fate voi, presero a dire ai fedeli quei santi uomini, quando preparate la nera bevanda? Prendete un seme di un arboscello, lo riducete in carbone, poi lo pestate, e lo mettete nell’acqua bollente. Sconsigliati! Empi!! Sciagurati!!! Perchè non aver prima preso consiglio da noi, senza cui ben sapete che non dovreste mai mover palpebra? Voi siete in peccato mortale! Perché, sappiatelo, nel Corano sta scritto che il carbone non è tra le cose create da Dio per cibo all’uomo.
I fedeli rabbrividivano e portarono molto danaro alle moschee per lavarsi dal nero peccato, e il gran muftì solennemente fece chiudere tutte quante le botteghe da caffè di Costantinopoli.
Ma in breve quel mustì venne a morte, e il successore, che avea, siccome frutto proibito, molto spesso acccostata alle labbra la nuova bevanda, e tanto l’avea trovata di suo gusto che non ne poteva più fare a meno, fece solennemente riaprire le botteghe da caffè, e diede facoltà ai fedeli di berne senza peccato a loro posta, proclamando che il caffè non è carbone.
In Italia s’apersero pubblici caffè nel 1645: a Londra nel 1652, a Marsiglia nel 1671, e a Parigi nel 1672.
A Londra, poco dopo che furono i caffè aperti, il governo li fece chiudere, siccome luoghi di maldicenza, e dove si mormorava contro il governo. Ciò invero segue anche oggi, ma i governi attuali soffron meno il solletico, e lascian dire.
Soliman Agà, ambasciatore della Sublime Porta presso Luigi XIV, introdusse alla corte di Francia l’uso di prendere il caffè dopo pranzo.
La signora di Sevigné, della quale è noto il motto in proposito del caffè e di Raçine, inventò il caffè col latte 1690, e forse questo è maggior suo merito che non lo bello stile sfoggiato in lettere.
Siccome a Costantinopoli gli ulemi, così gridarono in Europa contro il caffè i medici: si disse che esso è causa di aploplessia, di delirio, di tremiti incurabili, di paralisi, di mali segreti nelle signore; si condannò siccome un veleno lento, e tutti conoscono il motto spiritoso di Voltaire, grande amatore del caffè: – Ah si, è un veleno lento, cosi lento che è da ottant’anni che mi avvelena.
Il biasimo dei medici cresceva al caffè la voga, e gli si attribuivamo molte virtù, fra le altre quella di frenare la soverchia pinguedine. Al suo giovane signore il Paripi dice cosi :

…Se noiosa ipocondria t’opprime,
O troppo intorno alle vezzose membra
Adipe cresce, de’ tuoi labbri onora
La nettarea bevanda ove abbronzato
Fuma ed arde il legume a te d’Aleppo
Giunto e da Moca, che di mille navi
Popolata mai sempre insuperbisce.

Nel 1726 il cavaliere de Clieu portava dal giardino delle piante di Parigi alla Martinica con somma cura e privandosi dell’acqua che dovea servire a lui di bevanda per tenerla viva, una pianta di caffè: in tal modo il cavaliere de Clieu arricchì l’America di un prodotto che gli dà oggi trecento milioni di franchi all’anno.
Distinguonsi nel commercio, siccome oguun sa, parecchie varietà di caffè; a ciascuna delle quali si dà il nome del paese da cui proviene. Ecco le varietà principali, disposte per ordine del loro valore: Moca, Martinica, Guadalupa, Santiago di Cuba, Avana, Borbone, Portorico, Giammaica, Guayra e Porto Cabello, Brasile, Caienna, Haiti, Costa Rica, Malabar, Giava, Poolang, Sumatra, Manilla, Ceylan, ecc.
Il raccolto del caffè, in tutto il mondo, fu stimato nel 1855, di dugeotossessantacinque milioni di chilogrammi: il Brasile ha oggidì in questa produzione il primo posto; vengon dopo Giava, Ceilan, Haiti, Guayra, Cuba e Porto-Rico.
Le investigazioni di chimici hanno scorto nel caffè verde, vale a dire non torrefatto, oltre all’acqua, di cui in media ha il 12 per 0/0, parecchie sostanze, che qui annoveriamo per quelli fra i nostri lettori cui non siano del tutto ignoti gli elementi della bella scienza. Oltre all’acqua adunque (12 per 0/0 in media) il caffè verde contiene: cellulosa (34 per 0/0); materie grasse (da 10 a 13 per 0/0); materie neutre non azotate, come glucosa, destrina, acido cafeico e parecchi derivati, acido citrico, (circa da 10 a 16 per 0/0); sostanze azotate, come legumina, cafeina (17 per 0/0); olii essenziali più o meno soavi (tracce); sostanze minerali (da 3 a 7 per 0/0).
La torrefazione, ossia lo abbrustolamento, muta quasi del tutto la natura del seme del caffè, e svolge in esso un aroma soave, un sapore intenso ed un colore giallo bruno. Durante questa operazione la parte legnosa sopporta una scomposizione parziale, e si fa friabile; si produce un corpo bruno, amaro, solubile nell’acqua, il quale ha la più grande analogia con quello che si produce nella torrefazione dell’amido; formasi inoltre un principio aromatico che venne chiamato cafeono. Questo si può isolare facilmente distillando con acqua tre o quattro chilogrammi di caffè abbrustolito; l’acqua aromatica ottenuta, agitata con etere, gli cede un’ olio bruno, pesante, molto aromatico, di cui basta qualche traccia per profumare più d’un litro d’acqua.

Il modo con cui si fa abbrustolire il caffè è molto importante per la qualità della bevanda che si ottiene. Questa operazione vuol esser fatta accuratamente, in modo uniforme, uguale, graduato: il grado più conveniente della torrefazione non è lo stesso per le varie sorta di caffè: questo grado si può determinare in modo abbastanza esatto dalla perdita del peso che segue nel seme cui si fa abbrustolire.

Pel caffè Martinica la perdita deve essere di circa 192 a 200 grammi per chilogrammo di caffè crudo; allora il caffè ha un color come di cioccolatte ed un odore piacevolissimo.

Il caffè Borbone vuole un grado minore di torrefazione; la perdita non deve essere che di 160 a 180 grammi per ogni chilogrammo: il colore come di bronzo chiaro.

Il caffè Moca deve sopportare anche meno di calore; la diminuzione del peso, per un chilogrammo, non deve i 140 o 150 grammi: il colore della polvere è allora giallastro.

Quando non si spinge abbastanza oltre la torrefazione, l’interno del seme non muta, e allora malagevolissimamente il caffè si macina, l’infusione riesce giallo verdastra, e poco aromatica. Quando invece la torrefazione è stata spinta troppo oltre, il caffè è nero, lucente alla superficie, di sapore amaro; vi ha allora un principio di carbonizzazione.
E bene appena il caffè è abbrustolito; di versarlo fuori, e vagliarlo all’aria aperta. L’azione dell’aria produce un utile raffreddamento e fa svolgere una piccola quantità d’olio volatile pirogenato, d’odore sgradevole, analogo a quello delle sostanze cornee bruciate, dovute alla alterazione di una parte delle sostanze azotate.
La temperatura dell’acqua meglio acconcia per l’infusione del caffè è da 95 a 100 gradi.
Non si deve mai far bollire il caffè.
Quelle macchinette che spingono l’acqua bollente attraverso il caffè col vapore, e accelerano la filtrazione operando subito il vuoto, sono le migliori.
Quanto più è fina la polvere del caffè, tanto meglio riesce carica la infusione: la polvere grossolana che si smercia non dà che i due terzi delle sostanze solubili che contiene.
Non raramente poi questa polvere di caffè che si smercia non è pura, ma contiene una certa quantità di cicoria; questa frode, la quale non è nocevole alla salute, perché si tratta solo della sostituzione di una materia inerte ad una materia attiva, si può scoprire molto agevolmente.
Facciasi cadere un pizzico della polvere di caffè sospetta in un tubo ripieno a metà d’acqua fredda. Su dopo qualche minuto l’acqua è rimasta diafana e senza colore, rimanendo la polvere alla superficie, si potrà ritenere il caffè siccome buono e puro.
Ma se l’acqua si colora sensibilmente in giallo o in bruno, e la polvere lascia precipitar gravi rossastri che poco a poco si sciolgono nel liquido cui attraversano, ciò prova che il caffè contiene cicoria; e tanto più quanto più è intenso il colore dell’acqua.

Lettore, abbi cura di bere caffè buono e puro, e senza cicoria frammista: solo bevine con moderazione.

Bastava per volta cinque o sei boccali,

diceva del vino, l’autore dell’Malmantile. (Poema eroicomico).

Michele Lessona

Articolo da: L’universo illustrato giornale per tutti
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Michele Lessona è un famoso medico e zoologo italiano, nato il 20 settembre 1823 a Venaria Reale vicino a Torino e morto il 20 luglio 1894 a Torino.