IL SACCO NERO

(Leggenda Svedese).

È provato dalla scienza che l’uomo il quale abbia commesso un delitto può essere preso da allucinazioni spaventose che sono, in molti casi, la sua più terribile punizione. La seguente leggenda svedese in mezzo alle sue tetre fantasticherie lo dimostra. È la storia d’un vecchio parricida. Un egregio gentiluomo l’ha tradotta per voi, che potrete raffrontarla a una antica fiaba italiana, notissima, colla quale questa fiaba nordica ha molti punti di contatto; tanto è vero che le fantasie popolari si rassomigliano presso tutti i popoli. Sembra un racconto di Hoffmann.

Verso la fine del 1810, giunse nella città di Stoccolma un vecchio, del qual a nessuno era cognito né il nome né la patria. Quantunque si esprimesse in svedese facilmente, lo faceva accentando: prova ch’era oriundo straniero. Prese alloggio nel più umile e povero quartiere della città. A tutta prima, non fu senza difficoltà ch’ egli pervenne ad appigionarsi una piccola stanzuccia, giacchè il suo abbigliamento di stoffa grossolana, l’assoluta povertà di bagaglio ispirarono mediocre fiducia a coloro cui si rivolse. Ma quando si seppe com’egli pagava ogni settimana, anticipato l’affitto, che non comprava nulla a credito, e come nessun inquilino recasse meno fastidio di lui, allora riusci trovare l’asilo che cercava.

Però, bisogna dire che il suo modo di vivere solingo, le eccentriche sue abitudini, la tetra espressione delle sue fattezze angolose ed emaciate, non gli valevano da parte della sua locataria, le attenzioni meritate dall’esattezza a pagare, e dalle minime, anzi nulle esigenze.

Del resto, pareva che poco o punto di ciò gli importasse, purchè lo si lasciasse vivere a modo proprio. Spesso gli accadeva rimaner in casa settimana intiere senza uscire; altre volte, s’assentava per sette od otto giorni consecutivi. Dopo questi faceva ritorno assai più pallido o spossato di prima, coi capelli scompigliati, collo sguardo stralunato e con gli abiti induriti dal gelo od umidi dalla pioggia. Nelle contrade, i passanti potevano fissarlo a tutto lor agio, seguirlo, ed anche fermarsi a guardarlo più a lungo; egli non si curava d’alcuno: era sempre concentrato in profonde meditazioni.

Di solito sceglieva per vagabondare lo contrade di Stoccolma, o le campagne adiacenti, tanto in tempi procellosi come nei giorni di neve. Il menomo raggio di sole lo riteneva chiuso in casa: si sarebbe detto che la serenità della natura gli nuoceva e che l’azzurro del cielo lo facesse inorridire. Ma quando muggiva il vento, quando romoreggiava il tuono, quando la tempesta sfolgorava lampi, allora, non era più il taciturno vecchio che sembrava incedere per meccanismo d’automa. Il suo labbro schiudevasi a una specie di lugubre sorriso: la fulva pupilla brillava di una strana vibrazione, e si metteva a camminare rapidamente, come se dietro a sė paventasse la spada dell’Arcangelo che sospinge sempre in avanti l’ebreo Aasvero.

Una sera, la neve cadeva lentamente dall’alto d’un cielo ottenebrato. E la locataria del vecchio, si raggomitolava il più possibile vicino al camino. Ella chiacchierava allegramente in mezzo alle figlie e a tre giovani studenti, che stretti l’uno contro l’altro ristavano come lei seduti intorno al focolare. Nel momento più gaio e precisamente quando la conversazione si faceva interessante, un colpo secco e reciso urto con violenza la porta, che si spalancò, e, sospingendosi, andò a battere contro il muro. Si vide allora apparire e scivolare nell’appartamento la bieca figura dell’incognito. Il freddo aveva illividite le sue membra ottuagenarie; i diacciuoli facevangli ispida la barba ed i capelli: poteva appena reggersi in piedi.

Macchinalmente, il crocchio si rinserrò ancor più, per lasciargli presso il camino un posto ch’egli s’affrettò ad occupare. S’accovacciò col’viso nascosto fra le scarne mani, e rimase in tale attitudine più di due lunghe ore. Alla fine, emise un sospiro, rilevò convulsivamente il capo, con atto di desolazione, guardò il cielo e ricadde nella primiera atonia.

– Dio ne preservi dalle insidie del demonio! esclamò la locatrice spaventata, mentre gli astanti scambiavano con essa uno sguardo irrequieto.
– Il demonio! – susurrò il vecchio con lenta voce, che vibrò sinistramente in mezzo all’assoluto silenzio di quel salone:
– Il demonio! – riprese lui. – Non bisogna parlare di questo terribile angelo, in una simile notte. Forse, il re delle tenebre ristà in agguato là, dietro a voi, forse protende i suoi artigli in alto sulle vostre teste!

Coloro, cui s’indirizzarono queste parole, distolsero con spavento lo sguardo, quasicchè fossero in attesa della presenza dello spirito maligno.
E il vecchio continuò:
– Sì, c’era un uomo buono al mondo, c’era un uomo giusto. Egli amava. Egli amava e aveva rispettata colei che si prosternava ai suoi piedi, folle di passione; teneva in suo possesso il segreto d’un amico, e questo segreto stava gelosamente custodito nel suo cuore; amministrava la giustizia, e giammai, pronunziando una sentenza, aveva dato retta all’umane passioni. Il cuore di lui si manteneva puro da ogni tradimento.
Pure, a forza di contemplare faccia a faccia la spendida luce del vero, il suo sguardo eransi appannato. E mille illusioni, mille vertigini conturbavano quel cervello, fino allora invulnerato, agli attacchi di Satana. Egli chiamavasi Olaf.
– Superiore al resto degli uomini per la virtù, ti resta ancora a sorpassarli, col potere e colla scienza, – gli disse d’un tratto un Incognito che si trovò dinanzi ad Olaf, senza che questi l’avesse inteso a venire, e che lo sorprese assorto nelle sue meditazioni. – Tu sei santo, ma non operi miracoli.
– I miracolo non possono provenir che da Dio, – respirò Olaf.
– Sì, senza dubbio, – rispose l’Incognite – Colui di cui tu parli, può rivelare il segreto di cangiare le leggi della natura. Ma, infine è anche concesso a mortal labbro, al mio, per esempio, di rivelartelo. Giacchè io sono un santo, vedi, compio miracoli, stammi attento.
Stese la mano verso la luna, e la luna s’adombrò come se il velo d’un eclissi fosse transitato davanti il suo disco, richiamò col gesto una stella, e la stella lasciò cadere ai piedi del misterioso vecchio una corona di fiamme, ch’egli raccolse e di cui si recinse il capo.
– Al par di me, – riprese egli – tu possiedi i necessari requisiti per compiere miracoli: vengo dunque a dirtene le formule ed i misteri.
Olaf conturbato, mentre la presenza dell’incognito lo comprendeva d’agitazione dolorosa commista ad un estremo disordine d’idee, avrebbe voluto fuggire. E ciò non ostante, perseverò ad ascoltare colui che gli stava innanzi, avviluppalo in una lunga veste da sapiente.
– Figlio mio, – continuò costui, – non è forse necessario che il tuo esempio iscoraggisca gli altri uomini al bene? La fama di aver poteri soprannaturali non dee forse divenire la colonna di fuoco, per indirizzare coloro che camminano nell’oscurità? Segui i miei consigli e basterà quindi innanzi una volontà del tuo pensiero, un gesto della tua mano per modificare le leggi di natura. Alla tua voce, tu potrai gettare sull’empie nazioni, le sette piaghe della desolazione: coloro che non si genufletteranno al tuo nome, cadranno spezzati ai piedi tuoi. Vieni dunque: l’ora o propizia: é notte.
Olaf seguì questa guida, ch’egli supponeva divina, a mentre incedeva sull’orme sue, avrebbe voluto pregare. Ma la preghiera spirava sulle sue labbra contratte: ogni pensiero gli si faceva confuso nel cervello, ad un tempo irrigidito ed ardente. Attraversarono di tal modo la città di Stoccolma, e penetrarono nel cimitero, la cui porta s’apri dinanzi a loro. Il vento muggiva cosi come mugge adesso, cadeva, turbinando la neve, come ora turbina e cade: gli spiriti infernali, come lo fanno in questo punto, già si tenevan per mano, pronti ad incominciare la ridda del sabbato, ai dodici rintocchi inminenti della mezzanotte.

– Copriti gli occhi con questa benda, – susurrò lo sconosciuto.
Olaf obbedi. Fecero alcuni passi ancora, e i loro piedi si urtarono ad un cumulo di terra che sovrastava ad una tomba.
– Prendi questo sacco di cuojo, – continuò l’iniziatore; – al primo squillo della campana, tu picchierai dodici volte la terra col piede, ripetendo il nome di Satana.
– Il nome di Satana! – sclamó Olaf.
– Non scendo a patti con lui.
– E chi ti parla d’un patto con lui? – interruppe l’altro, con ironia, – anzi, è questo un’esorcismo por iscacciarlo. Quando avrai compiuto il rito, apri il sacco e rinchiudilo immantinenti. Non tener conto de’fracassi che ti perveranno all’orecchio. Chiuso che sia il sacco, nessuno potrà più annullare la tua possanza.
Appena cessó del favellare, scoccò mezzanotte. All’ultimo colpo, ed al dodicesimo appello d’Olaf, tremò la terra, un gemito usci dalla fossa ed una voce di lamento, ripercossa dagli echi, compenetrò d’apprensione e di pietà l’animo di Olaf. Si strappò la benda che gli intercettava la vista. Un silenzio profondo regnava in quel punto nel cimitero, e colui che avea condotto l’insensato nel funebre luogo, s’allontanava a grandi passi, lanciandogli, a guisa d’addio, queste parole:
– Ogni volta, tu voglia operare un miracolo, picchia fortemente il sacco nero.
Olaf seguì, a rigor di lettera, tale consiglio. Picchiò il sacco, ed espresse il desiderio di trovarsi lungi dal cimitero: invisibili braccia l’attorniarono in un attimo, e colla rapidità del pensiero, senza veruna scossa, lo portarono a casa. Trovandosi nel suo oratorio, suo primo moto fu quello di inginocchiarsi, e ringraziare Iddio del dono de’miracoli ch’egli aveva appena conseguito. Pur troppo, la memoria di lui non richiamava più veruna formula di orazione. Picchiò il sacco nero per riavere la facoltà di pregare, ma invano tempestò colpo su colpo; inutilmente strappò allo spirito invisibile, rinchiuso nel sacco, grida strazianti: giammai egli fu in grado di rammentare le prime parole del Pater. Folle d’ira, gettò il sacco nero a terra; lo schiacciò coi piedi; lo colmo di maledizioni; tutto fu inutile, giacchè non poté ottenere quanto bramava. Non gli riusci di pregare. Eppure, una voce pregava nel sacco nero, e strani scoppi di riso si fecero sentire sotto la sua finestra. Finalmente, Olaf ascolto voci, che s’allontanavano, mormorare: « Parricida! parricida! ».

Dopo quella notte, Olaf divenne onnipossente, ma solo per operare il male: ma ogni qualvolta intendeva prevalersi di sua potenza pel bene, il sacco era inetto ad obbedirlo. Disgrazia a chi offendeva Olaf: giacchè terribile vendetta puniva l’insulto. Sventura ancora, doppia sventura a colui che Olaf intendeva aiutare…
Olaf pervenne ad essere un sapiente, senza emuli, ed un principe che sorpassava in potenza tutti gli altri signori della Svezia. A centinaia contava i suoi castelli, e gli bastava picchiare il sacco nero perchè l’oro sorgesse ai suoi piedi.
Ma, pur troppo non si dava giammai riposo per lui. Gli era interdetto gustare il sonno dolce e tranquillo; la fatal parola di « parricida » ripercuoteva, senza posa, al suo orecchio, senza che veruna voce mai la pronunziasse. Era lacerato del rimorso; senza aver commesso verun crimine, il pensiero della madre, lo lasciava in balia alla desolazione, quasicchè fosse un’empio figlio, lui, sempre tenero e deferente per quella santa donna, lui che sì spesso, quand’era in facoltà di pregare, tanto aveva orato per lei! Risolse di por termine a questo stato di sofferenza senza cognita causa. Non essendogli più concesse le preci pel riposo della madre, determinó deferire cotesta cura ad un degno sacerdote, il quale promise celebrare il servizio divino all’intenzione di colei, il cui pensiero dilaniava cotanto l’anima di Olaf.

Olaf si propose d’assistere a questa messa che dovea celebrarsi nel mattino, assai tempo prima del levar del sole. Era la prima volta ch’egli riponeva piede in un luogo sacro, dopo la visita dell’incognito.
Si prese il sacco nero sotto il braccio e s’incamminò alla chiesa. Appena sostò di fronte all’altare, un’invisibile forza lo respinse; i ceri smarrirono la luce, l’organo emise un gemito, il sacerdote, spaventato, troncò a mezzo le sue preci e strazianti lamenti usciron dal sacco nero, per cui, Olaf se lo lasciò sfuggire di mano.
Il sacco andò ad urtare contro un angolo dell’altare e si schiantó! Di subito, n’usci una bianca figura che vibrò verso il cielo, fissando Olaf d’uno sguardo di dolore. Immaginate il suo smarrimento! Era l’ombra di sua madre. Sì: era parricida. Satana gli aveva fatto commettere la più esecrabile di tutte l’empietà. Lo aveva sospinto ad un delitto, pel quale l’umano linguaggio non ha imprecazioni abbastanza tremende.
« Parricida! parricida! »

Cosi favellando, il vecchio piangeva a calde lagrime, e s’abbandonava allo spasimo, come s’avesse condiviso i rimorsi del figlio maledetto! S’alzò: imprese a percorrere, a passi concitati la vasta stanza, appena rischiarata da una lampada, il cui lumignolo mandava fumo. Ad un tratto, suonò la mezzanotte. Egli s’arrestò, tese l’orecchio, il suo sguardo assunse un’espressione strana, e piombò a terra, sclamando:
« Parricida! »
Il dodicesimo colpo di mezzanotte rintronò precisamente, quando la testa del disgraziato percuoteva con tutta violenza il pavimento!
– Dio abbia in pace l’anima sua – sclamarono gli astanti atterriti.
Uno scroscio di tuono rispose a quest’invocazione, e la fiamma d’un’aurora boreale imporporò il cielo. Positivamente gli era qualcosa di terribile quest’amalgama della folgore colla neve, della luce con l’oscura notte!
Iddio si prenda a pietà l’anima sua! – ripeterono a coro i giovani e le giovani.
La tempesta franse i vetri della finestra, e le donne gettarono grida di sgomento, giacchè avevano visto, così dicevan esse, una figura senza nome, fornita di un sacco nero.

Cotesta figura, sembrava tener chiusa nel sacco nero, qual cosa che vi si dibatteva…

Articolo tratto da: L’Illustrazione popolare, 1884
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