FILANDINE E IMPIRARESSE

Povere filandine,
desfortunae che semo,
la paga che ciapemo,
i ne la vol magnar.

Ma c’erano filandine a Venezia? Oggi, alle prese con la globalizzazione e l’invasione dei prodotti cinesi a basso prezzo, stentiamo a crederlo. E invece c’erano, in un contesto economico diverso da quello odierno e in una città articolata e complessa, che in passato non disdegnava produzioni artigianali ed anche industriali, pure in settori che non appaiono del tutto tipici. Soprattutto l’isola della Giudecca ne sapeva qualcosa, ricordiamo il mulino Stucky o la mitica Junghans.

E allora è chiaro che Venezia aveva le sue manifatture ed esprimeva anch’essa come il resto del mondo un movimento delle classi subalterne, magari con un coinvolgimento femminile veramente importante e che per molti versi si radicava in una qualità storica della presenza femminile nella città. Le donne a Venezia ci appaiono molto consapevoli e poco disposte a farsi mettere i piedi in testa. Se poi lavoravano in una produzione industriale, o artigianale, sviluppavano rapidamente una sorta di “coscienza di classe”, un senso di appartenenza e di consapevolezza rispetto ai processi e alle dinamiche nelle quali erano inserite, perdita del potere d’acquisto per effetto dell’inflazione (naturalmente voluta e favorita dai padroni) e per effetto delle trattenute, dei ritardi, e dei vari balzelli sulla paga, ed era inevitabile che la cosa si riverberasse nella canzone autenticamente popolare:

Ghe ne ciapemo trenta,
i ne magna sessanta,
al zioba i ne la canta,
al sabo in la tien.

Non manca la consapevolezza del rischio che il lavoro comporta per la salute. Il tema della nocività, che poi ha conosciuto a Marghera sviluppi importanti e controversi, e che è oggi tuttora di stretta attualità, evidentemente ha uno spessore storico non privo di precedenti nel contesto veneziano:

Povere filandine,
se levemo su a bonora,
ciapemo ‘na malora
par mezo franco al dì.

E anche le impiraresse, esponenti di un’altra storica categoria della produzione veneziana (in questo caso, assolutamente specifica, oltre che articolata e complessa), sanno qualcosa a proposito del rapporto del lavoro con la salute:

Semo tose che consuma
De la vita i più bei ani,
par un fià de carantani
che no basta par magnar.

Le impiraresse, le donne che infilavano le perle, che evidentemente rappresentavano un piatto forte dalla produzione vetraria muranese, costituivano una categoria produttiva molto importante nell’economia veneziana. Chi scrive ricorda di averle viste ancora all’opera a San Giuseppe di Castello nel corso degli anni ’50 (ma c’erano anche in altre zone popolari); erano le ultime rappresentanti di un’attività che aveva conosciuto precedentemente un notevole sviluppo, proprio per la specificità della manifattura insulare. La loro canzone le vuole consapevoli, orgogliose e anche battagliere, come effettivamente dovevano essere.

Semo tutte impiraresse,
semo qua de vita piene,
tutto fogo ne le vene
core el sangue venesian.

In queste categorie produttive, come dicevamo, c’è ovviamente quella che si può chiamare una sorta di coscienza di classe, un senso di appartenenza, una forte solidarietà, ma non manca d’altra parte la percezione del conflitto e la lucida individuazione degli avversari. Così le filandine:

E anca el caposala,
che nol xe bon da niente,
ghe vegna un assidente
su la punta del cuor.

E naturalmente si augura l’accidente solo per modo di dire, per ragioni metodologiche. Non c’è odio, casomai c’è rabbia. Le impiraresse invece, più che su casi umani e le malattie, comunque utili a togliere di mezzo i padroni e i loro manutengoli, confidano nella lotta:

Co ‘ste mistre che vorave,
tutte quante a magnar lore,
co la sessola a ‘ste siore,
su desfemoghe el cocon.

Sempre mangiare, sempre mangiare, come al solito i poveri non hanno altro in mente. I padroni e i caporali (in questo caso le “mistre”) mangiano, i lavoratori no. E allora lotta sia! E la minaccia consiste nel “desfare el cocon”, sciogliere l’acconciatura a crocchia delle caporalesse, le intermediarie che distribuivano il lavoro, lo ritiravano e lo pagavano (poco). Lo strumento dell’attacco sarebbe stata la sessola, il contenitore delle perle, fatto in modo da ricordare quel marchingegno tradizionale e ancor oggi in uso che serve a svuotare le barche dall’acqua che si infiltra sul fondo.

Appare altresì chiaro che con ogni probabilità le mistre non sarebbero state proprio disposte a lasciarsi “desfare el cocon”, tanto meno con la sessola che, anche se non adattissima per la bisogna, risultava comunque contundente. La lotta sarebbe stata dura.

Su compagne avanti sempre,
no badè che vinsaremo,
uso perle impiraremo
chi che torto ne darà.

E qui invece si minaccia di infilare come perle quelli che daranno torto alla causa; anche in questo caso una lotta un po’ particolare, molto specifica e non troppo violenta, però le impiraresse si definiscono compagne, appaiono pienamente consapevoli delle loro potenzialità:

No gh’è niente che ne tegna
quando furie deventemo,
semo done che impiremo
e chi impira ga ragion.

Furie, una reminiscenza classica atta a spaventare gli avversari e a suscitare spirito di corpo: le donne si scatenano come le mitiche Erinni anguicrinite, e tutti devono tremare. Notiamo infine che la consapevolezza dell’appartenenza deriva immediatamente dal lavoro: è la condizione lavorativa che crea solidarietà e coscienza di classe, come da manuale.

Antonio Socal
[email protected]

Pubblicato su “Il Gabbiano Felice”
Periodico trimestrale dell’UNITRE di Mestre – Venezia

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Dall’aprile del 1998, quando è uscito il numero zero, la nostra Università pubblica, con cadenza trimestrale, un periodico, denominato “Il Gabbiano Felice”, che viene distribuito gratuitamente a tutti i soci.
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Articolo precedentemente uscito su L’Avocetta e qui pubblicato di nuovo per gentile concessione.