Il rapimento delle spose veneziane

Chi di voi, leggitori, non ha udito parlare del porto delle donzelle, nell’isola di Caorle, venticinque miglia a greco da Venezia, già ricca e grande ai tempi dei romani, ed ora ridotta in umile condizione? Quivi una turba di pirati triestini lavò col proprio sangue un infame oltraggio al popolo di Venezia, quando quel popolo, ardito sui mari e infaticabile nel commercio, già incominciava le sue meravigliose conquiste nell’Istria e nella Dalmazia, che estendeva più tardi alla Siria, all’ Anatolia, al Peloponneso, alla città dei Costantini, sinché vide un giorno sventolare gloriosa bandiera del Leone-alato sopra non interrotta linea di piazze forti, da capo d’Istria ai Dardanelli. Popolo sveglio, valoroso e gentile, le cui cronache, bene o male raccolte da scrittori nazionali e stranieri, formarono le più belle pagine della storia della penisola, dopo che il nome dei figli di Quirino altro non fu per l’Italia che una splendida, ma vana rimembranza.
Era il due febbraio, giorno della purificazione di nostra donna, e la chiesa di San Pietro di Castello, detta Olivolo, addobbata a festa, rischiarata da sacre lampane e profumala di mirra, accoglieva le giovani veneziane, che ai piè di un medesimo altare doveano ricevere la benedizione nuziale.
Dicevasi anticamente la festa dei matrimonj; si disse dappoi la festa delle Marie, come vedremo più innanzi; e molto prima che fosse stabilita la costituzione, nominato del cielo, il Doge come capo della repubblica, e la signora dell’Adriatico cresciuta in ricchezza e popolazione, i veneti connubi del due di febbraio erano quanti numerosi e festevoli, altrettanto modesti e felici, recando le spose al tempio, colla loro innocenza non più d’una meschina dote, consistente in un povero corredo nuziale entro piccola cassa chiamata arcella.

Non oro, non trapunti, non pietre preziose; ma candidi lini, un fiore artificiale, una piccola croce. Il vescovo univa le destre, confortava le coppie alla fedeltà, alla tenerezza, alla concordia, alla pace; e, possano uscire, diceva, da questi maritaggi, sui quali invoco la benedizione del cielo, figli che sieno degni di portare il nome italiano! – e non dicea veneziano, – – – Se non che, col volger degli anni, la festa dei matrimoni si volle rendere più splendida e dispendiosa, siccome avvenne di tutte, o quasi, le antiche instituzioni, le quali deviarono dall’intrinseco loro scopo a misura che vennero a subire novelle esterne modificazioni.
Fu decretato che dodici fanciulle veneziane, trascelte dalla classe più povere della plebe, belle di aspetto e d’esemplare condotta (giudice della bellezza il voto pubblico, e della onestà la voce dei sacerdoti preposti alla cura delle anime) fossero dotate dalla nazione, e condotte con pompa al tempio di san Pietro di Castello, per essere quivi unite ai loro promessi sposi.
Il Doge coperto del suo manto regale, e circondato da seguito pomposo, con magistrati e poche cittadinesche milizie, accompagnava egli stesso le vergini, le quali, benchè conservato il candido vestimento modesto dei primi tempi, fregiavano però i loro colli d’oro, di perle e di gemme; vezzi che faceano singolare contrasto col bianco velo, appuntato alla sommità del capo, e scendente largo e maestoso intorno agli omeri, simile, benchè alquanto più corto, al niveo lino delle romane Vestali.
E poichè la povertà delle spose loro non consentiva di adornarsi con fregi propri, cosi le matrone di Venezia non isdegnavano, anzi avevano caro, di dare ad esse a prestanza i più preziosi giojelli, coi quali accrescevano allora (come le nostre dame accrescono anche oggidì) nelle pubbliche adunanze e nelle veglie notturne in ispecie, se non la bellezza, certo i mezzi di seduzione. Tanto le dodici donzelle dotate coi fondi pubblici, quanto le altre cui per difetto di avvenenti forme, o per non sicura fama d’illibati costumi, era disdetto un simigliante beneficio, venivano, oltre al suo velo, acconciate con una corona d’oro, che, terminata la cerimonia, restituivano insieme colle perle e colle gemme, non conservando che gli umili e candidi loro vestiti.
Bizzarra costumanza era questa che avrebbesi potuto scambiare per un insulto all’onorata lor povertà, o per un mezzo indiretto di render loro più allettevole e seducente il sacrificio della loro libertà e della loro innocenza!
Dissero alcuni che il progetto di rapire le giovani spose veneziane fosse ai pirati triestini consigliato da quello stesso bisogno che spinse gli audaci romani al ratto delle Sabine; ma ciò non è vero: e per poco che vogliasi esaminare la varia condizione dei due popoli, si converrà di leggeri che mal fondata è cotesta supposizione. Avidità di bottino, gelosia dell’ingrandimento di Venezia, e insopportabile esacerbazione per le molte sofferte sconfitte, diedero vita alla trama, e consigliarono i mezzi più acconci, tuttochè arrischiatissimi, di mandarla ad effetto.
Non ignoravano que’ ladroni di mare l’uso introdotto in Venezia di adornare le spose di gioje; eran lor note le arcelle, e sapevano per certa scienza quasi indifeso nel tempio di san Pietro di Castello il popolo di san Marco, sul quale non argomentavano invano la sorpresa e il terrore avrebber prodotto risultamenti alle rapaci loro mire propizi.
La notte del primo febbrajo dell’ anno 914, precedente la magnifica festa dei matrimoni, fitte tenebre favorivano e nascondevano le mosse ostili dei pirati triestini, i quali, appiattati nelle lor barche, stavano aspettando dietro l’isola di Olivolo, che forma la parte più orientale della mirabile metropoli dei Veneziani, divisa dal rimanente della città dal canale di Castello, il momento opportuno all’esecuzione del loro infame progetto. Vegliavano que’ ribaldi; chè il sonno di niun ristoro è cortese a chi disponsi a un delitto. Mille pensieri di timore e di speranza, quindi or mesti ed or lieti, si avvicendavano nelle lor menti esaltate, perocchè dall’idea seducente di ricca preda e di lascivi piaceri non era disgiunta l’immagine spaventosa del grave rischio, della vendetta e della morte.
Ma i più arditi animavano con parole accorte e lusinghiere i più paurosi, si che al comparire dell’alba non si udia fra la turba che la sommessa espressione di unanime desiderio.

Suonavano a festa i sacri bronzi del maestoso campanile di san Pietro; e il popolo veneziano, empiendo di buon mattino la chiesa, precedeva il solenne corteggio, a cui tenevano dietro, lieti insieme e dolenti, i parenti più prossimi delle spose. Già stava ognuno al suo posto, assistente in divoto raccoglimento ai santi riti; e già le coppie felici sollevavano al cielo le loro preci, e protendeano le destre al Pastore che le dovea benedire; quand’ ecco irrompe improvvisa e forsennata per tutte le porte del tempio la turba dei rapitori.

(Il rapimento delle spose Veneziane).

Splendono in alto spaventose e rotanti le loro spade; grida, bestemmie, minacce echeggiano per quelle volte tranquille, sotto cui da un secolo in poi non era risuonata che la santa parola di Dio, parola di consolazione e di perdono.
Le spose sono strappate dall’altare, e con esse involate le arcelle. La confusione, il disordine proteggono gli assalitori, i quali si fanno strada per mezzo al popolo sbigottito e fuggente, seco loro portando le giovani ed il bottino. Raggiungono in men che il dico le barche, vi si gettano alla rinfusa colle donne e colle gioje involate, e fuggono a piene vele dall’ isola d’ Olivolo.
Al primo inerte stupore del popolo veneziano successe un general sentimento d’ altissima indignazione, eccitato in ispecie dalle grida di quelle infelici, più forti del rumor de marosi dalle barche fuggenti rapidamente solcati. Il doge Pietro Candian III, presente all’ oltraggio, si precipita fuori della metropolitana, seguito dai già vedovi sposi e da tutti gli astanti, e con solenni parole chiama i cittadini alla vendetta: soffrirem noi, esclama nell’ impeto del suo sdegno, che una mano di vili rechi cotanto insulto al popolo di Venezia? Che nella casa stessa di Dio entri forsennata col ferro per rapirci le nostre donzelle e le gemme delle vostre matrone? Siam noi già caduti si basso che una turba di ladri possa impunemente oltraggiarne? All’armi, cittadini di Venezia!… All’armi, ripeterono alla voce sonora e autorevole del doge Candian mille giovani risoluti, a cui il cielo e l’amore, a’ generosi sempre propizi, arrisero favorevoli.

Si raccoglie in pochi minuti gran numero di barche; lieto chi primo vi può entrare coll’ armi, mortificato e dolente chi, tardi arrivato, rimane inutile testimonio della numerosa dipartenza. Il vento gonfia le vele di quella piccola armata, nella quale il mercante, l’artigiano, il patrizio, il marinajo, il Doge, tutti sono soldati, tutti senz’ambizione di distinzioni o di comando, tutti animati da un sol desiderio, quello della vendetta.
I rapitori, approdati frattanto all’ isola di Caorle, stavano alle rive del piccol porto affaccendati a disputarsi le vaghe donzelle e il pingue bottino. Li vedono i Veneziani, li assalgono con impeto pari al furore, li combattono… ed i pirati son vinti; chè alla volontà di un popolo, unanime e generosa, la vittoria serve fedele.
Neppur uno di que’ miserabili potè sottrarsi al ferro vendicatore dei Veneziani; nè paga a ciò la dispettosa ira che a questi impavidi aveva armata la destra. Per comando del Doge i cadaveri dei pirati triestini vennero gittati nel mare, e perchè fosse loro negato l’onor della tomba, e perchè i parenti e gli amici non potessero ardere ad essi un rogo, raccoglierne le ceneri, oppure alle salme comporre umile sepoltura. E a fine di perpetuare la memoria di cotesto avvenimento, Pietro Candian III impose al piccolo porto, testimonio di quella strage, il nome che serba ancora di porto delle donzelle.
Spiegate indi a poco novellamente le vele, i Veneziani riconducono in trionfo le salvate zitelle: nessuno ha perduto la propria sposa; tutte ritornano intatte fra le materne, dice Giustina Ranier Michiel.

Non è possibile significar con parole di quanta gioja esultasse Venezia, e per la ottenuta vendetta piena e solenne, e per la gloria della nazione, già lusingata di estender coll’armi le proprie conquiste nelle conquiste nella Dalmazia e nell’ Istria. La piccola armata vincitrice fu accolta dal popolo con grida di universale acclamazione; e al Cielo, che pareva avere permesso quel rapimento per mettere a prova il coraggio dei giovani sposi, e per far loro sentire più caro il sacro nodo che stavano per contrarre, onde alle prove di esso avessero parimente a resistere con animo risoluto e costante, al Cielo, dissi, s’innalzarono tosto inni sinceri di grazia. La sospesa funzione fu quindi ricominciata, e le donzelle impalmaronsi a chi aveva saputo si ben meritarle, amandole, e vendicandole.
Decretò la nazione che la memoranda impresa fosse, alla stessa epoca, celebrata ogni anno, non più col nome di festa dei matrimoni, sì bene con quello di festa delle Marie, come ho già sopra accennato.
Varie sono le opinioni dei cronisti intorno a questo cambiamento di titolo; e chi vuole che procedesse dall’essere accaduto il fatto nel giorno della Purificazione di Maria; chi dalla chiesa a nostra donna consacrata, che gli sposi andavano a visitare, dopo la celebrazione dei maritaggi; chi infine dalle molte donzelle di nome Maria che dai pirati triestini erano state rapite. Checchè ne sia, egli è certo avere il decreto della nazione avanzato di lunga mano il pubblico voto, perocchè nel volgere di pochi anni questa solennità salì a tale magnificenza, che nazionali e stranieri accorrevano da ogni parte a Venezia per esserne spettatori. Non era più la modesta cerimonia di un giorno solo, ma bensì la splendida festa di otto, in ciascheduno de’quali si offrivano alla moltitudine svariati e dispendiosi spettacoli, che alcuni scrittori, imitando gli antichi, chiamarono Ludi Mariani.

A. PIAZZA.

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