VENEZIA – 1867

Venezia è nostra. Quella superba regina dell’Adriatico, che fu soggetto a tanta invidia e a tanto compianto, che fu adorata dai poeti e ammirata dai politici, la tradita di Campoformio, la gran mendica del 1848, l’abbandonata di Villafranca, – è finalmente libera. Nostra sorella da anni con l’anima, lo è oggi di fatto; viene a compiere il grande evento dell’unità italiana.
Venezia era da un pezzo una tomba preziosa, ma una tomba; oggi essa rivive, essa rinasce, e chi l’ha veduta nel suo dolore vorrà rivederla nelle sue gioie.
Venezia spunta innanzi dall’ acque come un magnifico scoglio, come una vera meraviglia della natura e dell’arte. Composta di cento isolette, separate da tortuosi canali e tra loro congiunte da innumerevoli ponti, essa presenta la forma di un otre schiacciato e tagliato a sghimbescio da una più larga corrente. Questa corrente, conosciuta col famoso nome di Canal-grande, incomincia dalla torretta della Dogana di mare o della Salute, poco discosta dal Molo di San Marco; percorre tortuosamente il centro della città, e riesce nella laguna, all’estremità di Sant’Andrea e Santa Chiara verso la terraferma.
Questo corso singolare offrirebbe esso solo larga materia, di poema degnissima e di storia. Circondato da superbi palazzi, ricchi di bellezze architettoniche, di marini preziosi e di più preziose memorie, specchiantisi nella limpida acqua sotto un limpidissimo cielo, ove i notturni silenzi, magnetizzati dalla luna, e rotti qua e là da qualche canto lontano, infondono nell’anima quanto ha il mondo di più sublime e poetico; percorso di giorno e di notte da innumerevoli barche d’ogni forma e dimensione, cariche di merci, di piaceri o di ozi voluttuosi; in più occasioni solenni, teatro di patrie feste e di graziose battaglie, e mirabile ritrovo di quanto v’ha di più ricco, di più bello, di più amabile e seducente, in questa popolazione sì aristocratica che plebea; il Canal-grande può contrastare la palma a qualunque più magnifica strada del mondo, e non v’ha infatti forestiero che lo vegga e non ne resti meravigliato. Per i Veneziani stessi, esso è un incantesimo, sempre nuovo, sempre incomparabile e caro.
Dalla chiesa della Salute a sinistra, eretta nel 1631 dal Longhena per solenne voto della Repubblica dopo la cessazione della peste, l’osservatore è dall’una e dall’altra parte rapito alla vista dei palazzi Giustinian, Contarini, Corner, Grassi, Rezzonico, Foscari, Balbi, Cavalli, Pisani, Barbarigo, Grimani, Donà, Tiepolo, Farsetti, Loredan, Bembo, Manin, Michiel, Pesaro, Tron, Vendramin, Labia ed altri, diversi di età, di stile, di ricchezza, di pregio, ma ricchi tutti di memorie e di glorie, testimoni eloquenti di grandi vicende e sventure. Chi li vede, e non si sente compreso alla mente ed al cuore da un turbine di pensieri e di affetti, è indegno veramente di visitare Venezia.
In mezzo a tali ricchezze d’arte e di storia, sorge maestoso il Ponte di Rialto, col suo unico arco, colle sue tre strade fiancheggiate da botteghe, opera mirabile del Da-Ponte circa il 1590, monumento di forza e d’impassibilità! Quante vicende vide esso passare sopra e sotto di sè senza commuoversi! Però anch’esso prese sempre parte alle feste, ed ai lutti cittadini, accalcandovisi la folla esultante o dolente per vedere dall’alto la fortuna e la libertà di Venezia entrare od andarsene pel sottoposto canale. E fra pochi giorni esso assisterà pure al ritorno di quella fortuna e di quella libertà, a cui Venezia da tanto tempo sospira, e che finalmente raggiunge!
Ma in tempi di violenza e di catene, veniva tolto all’unico Ponte di Rialto il vanto di legare insieme le due parti principali della città, e gli veniva dato un indegno compagno in un ponte di ferro sospeso, che attraversa il Canal-grande presso l’Accademia di belle arti, antico convento di canonici regolari, annesso alla chiesa ed alla Scuola detta della Carità.
Ritornando a S. Marco noi ci troviamo di fronte a quel miracolo d’arte, che si chiama la Piazzetta e la Piazza di S. Marco, e dinanzi a quella simpatica riviera, che si chiama la Riva degli Schiavoni e che dal Molo di S. Marco costeggia a destra la città e la laguna sino all’angolo estremo, ove trovansi i pubblici giardini. E qui la materia, le impressioni, le memorie e gli affetti sovrabbondano e s’ incalzano, in modo da rendere assai difficile, se non impossibile, il parlarne solo di volo.
Eccovi il Molo e la Piazzetta di S. Marco, colle sue monumentali colonne di granito orientale, portanti l’una la statua dell’antico protettore della Repubblica, S. Teodoro, e l’altra il grande Leone di S. Marco, coll’ali aperte ed in atto di spiccar nuovi voli, (colonne trasportate da un’isola dell’Arcipelago nel 1127, ed erette da un lombardo, detto Nicolò il Barattiere, al quale appunto veniva accordato in compenso il privilegio di tenere giuochi proibiti in quello stesso spazio tra le colonne, ove più tardi eseguivansi le sentenze capitali); colle fabbriche vista della Zecca e della Libreria Vecchia a sinistra, pregiate opere del Sansovino alla metà del secolo XVI, ed alla destra quello stupendo edificio, antica sede dei Dogi, una delle più insigni opere dell’architettura ogivale, falsamente attribuita a Filippo Calendario (che fu soltanto marinaio, congiurato contro Marino Falier e quindi giustiziato), ma della quale il primo merito spetta a Giovanni, Bartolomeo e Pantaleone Boni e più tardi all’ illustre Da-Ponte, che con raro talento e coraggio la riparava dai gravi danni d’un terribile incendio, e salvava cosi all’arte, a Venezia ed al mondo uno de’ suoi ornamenti più belli.
Ma, procedendo più oltre, nuove bellezze ti colpiscono la vista e ti parlano al cuore il linguaggio della grandezza e dell’ammirazione.
La facciata del palazzo ducale e l’attigua porta della Carta, da cui vedi il grandioso scalone che mena a quel vago labirinto di sale e di gabinetti dorati, in cui si dettavano le leggi e si discutevano i destini di tanti popoli, e tra cui sembrano ancora aggirarsi le ombre implacate de’ nostri padri, cercando invano un conforto nei magri studi e nelle innocenti radunanze che ne rompono a quando a quando il misterioso silenzio; il fianco e la facciata del bel San Marco, splendido museo di marmi orientali, di sculture, di bronzi e di mosaici dal X al XVIII secolo, insigne monumento d’arte e di storia, superba imitazione di quelle e di chiese bizantine, la cui memoria si lega colle più nobili glorie della cristiana repubblica, che fu terribile baluardo contro l’ottomana barbarie; quel mirabile insieme di colonne, di statue, di cupole e di pinnacoli, collo strano contrasto dei quattro sbrigliati cavalli sopra la maggior porta, che, fuggiti dall’arco di Nerone in Roma, trasmigrarono poscia con Costantino a Bisanzio, di là passarono a Venezia quale frutto della conquista, per lo stesso titolo, circa sei secoli dopo, viaggiarono a Parigi, trascinandovi per la coda la libertà e la grandezza di Venezia, finchè vennero rimessi al loro posto in prova del turpe mercato austro-francese: tutto ciò desta nell’animo del riguardante un cumolo di sensazioni, che non si possono certo esprimere colla brevità che qui ci è prefissa.
Nè più facile compito sarebbe il descrivere le emozioni che suscita la vista della mirabile piazza, la quale fa degno riscontro alla chiesa ed è circondata dalle eleganti, fabbriche delle vecchie e delle nuove Procuratie e del Palazzo Reale (pregiate opere del Lombardo, del Bon, dello Scamozzi e del Soli da Vignola), colle sottoposte arcate, per entro alle quali passeggiarono le successive generazioni di principi e di schiavi, assistendo ai baccanali ed ai funerali della libertà, alle feste ed ai lutti cittadini, che si susseguirono nella corsa dei secoli, segnati dall’inesorabile quadrante della torre dell’Orologio (eretta nel 1496 dai fratelli Rinaldi da Reggio); quella piazza, su cui si compirono fiere e mercati, e si videro giostre e tornei, dai bei giorni di messer Francesco Petrarca alle giornate del marzo 1848.
Ora inoltrandoci per sotto l’arco dell’Orologio attraverso a quel dedalo inestricabile di calli e di vicoli, di ponti e di piazze, ad ogni passo s’ incontra un prezioso monumento d’arte e di storia, chiesa, palazzo, statua, o cisterna; dove i singolari costumi della vita veneziana si frammischiano ai soggetti della tua ammirazione, insieme ai nomi di Goldoni, di Gozzi, di Giustina Renier Michiel, di Buratti, di Gritti e di Carrer; e dove qualche modesta lapide ti addita le venerande pareti che raccolsero Marco Paolo, Fra Paolo Sarpi, Gian Bellino, Tiziano, con una lunghissima serie di guerrieri, di politici, di storici, di letterati e di artisti, dei cui nomi va ricca la storia di Venezia che ha sì gran parte nella storia della civiltà europea.

Ma qui non facciamo che una veduta a volo d’uccello; bisogna dunque sorvolare su troppe cose. Ritorniamo quindi in gran fretta al Molo di S. Marco; e dato uno sguardo pietoso al caratteristico ponte detto dei Sospiri, che congiunge la residenza dei Dogi alle carceri criminali presso l’ altro ponte detto della Paglia, si percorra rapidamente la riva degli Schiavoni, che ricorda un fiorente commercio che più non esiste, per arrestarsi soltanto al ponte di legno, che prospetta le grandi porte dell’arsenale.
Di là tu miri quelle torrette, quei leoni, quei cantieri, che ti parlano di una forza e di una potenza che non è più; tu vedi appena là dentro qualche umile naviglio, il quale ti chiama alla mente quelle flotte poderose, che solcarono tanti mari, recando séco il valore e la gloria d’innumerevoli eroi e le spoglie opime di tante conquiste.
Quivi un cumulo di memorie ti assale; e i nomi venerandi di Dandolo, di Morosini, di Pisani, di Bragadin, di Erizzo e di Emo si confondono con quelli dei fratelli Bandiera e Domenico Moro, e coll’ ultimo di Daniele Manin! Da quei cantieri, un tempo meraviglia del mondo, usciva il superbo Bucintoro, su cui il Doge di Venezia recavasi a compiere le simboliche nozze col mare, che avrebbe dovuto appartenergli in perpetuo. Ma, perduta la sposa, il troppo infido consorte si diede a novelli amori coi vapori del Lloyd austriaco, facendo a fidanza coi pirati, si spinse incautamente sino alle spiaggie dell’ Istria in cerca di un arsenale che ecclissar potesse quello di Venezia, dopo averlo spogliato e quasi distrutto.
Un’altra volta parleremo delle isole. E la città e le isole andremo mano mano illustrando con vaghi disegni.
Due ne presentiamo oggi, ai quali dedicheremo alcune parole.
Il Ponte dei sospiri, come abbiamo già detto, mette in comunicazione il Palazzo ducale colle prigioni. Il nome ci dice tutto; ma non basterebbe quell’architettura massiccia, severa, non basterebbero quelle finestruole sbarrate, quella forma di sarcofago librato nell’aria, a farci pensare al cupo e misterioso Consiglio dei Dieci, che di qui faceva passare e ripassare le sue vittime?
Questa parte sorprende per la sua costruzione ad arco perfetto, e ha dato luogo a numerose tradizioni di lacrime e a melanconiche leggende di poeti.
La sala del maggior Consiglio è magnifica, ben degna di aver accolta l’assemblea che tenne tanto dominio sul mondo. Per ampiezza poche in Europa la eguagliano. Le pareti rilucono d’oro, di pitture, di marmi. I Viviani, i Pisanelli, i Bellini, i Tiziano, i Tintoretto, vi istoriarono le gesta della patria. I primi dodici quadri rappresentano i casi della guerra che arse tra Venezia e Federico imperatore, allorché sceso in Italia pieno di maltalento contro i Guelfi e d’ira contro Alessandro III da lui dichiarato anti-papa.

Succedono diversi quadri sulle gesta di Enrico Dandolo, che coincidono coll’epoca più gloriosa della Repubblica.
Poco lungi Paolo Veronese rappresentò il ritorno trionfale del doge Andrea Contarini. Il lato del trono è interamente occupato da una gran tela del Tintoretto. Il soffitto è ricchissimo per intagli dorati e dipinti storici e allegorici. All’ingiro stanno i ritratti dei dogi da Angelo Partecipazio a Lodovico Manin. In quella serie c’è un posto vuoto, e vi si legge: Codesto è il luogo di Marin Faliero decapilato per delitti. In armadi appoggiati alle pareti stando i codici dell’antica biblioteca ducale, celebre per le ricchezze letterarie e pe’ nomi di Petrarca e Bessarione. Quanti nomi gloriosi! Quante memorie imperiture!

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