IL NEROFUMO

Racconto

Un povero tubetto di nerofumo se ne stava solo solo, dopo esser ruzzolato un giorno in un angolo dello studio dalla scatola di colori di un artista; e rimase lì trascurato per un anno intero. “Son soltanto Nerofumo” diceva tra sè. “Il maestro non mi guarda mai; dice che son peso, brutto, senza lucido e inutile. Vorrei rapprendermi, seccarmi, e morire, come fece la Biacca quando lui parve che diventasse gialla e non se ne servi più.”

Ma il Nerofumo non poteva morire; non poteva far altro che starsene nel suo tubo di metallo, lamentandosi come un coso sciocco e sconsolato era, in compagnia di qualche pezzetto di carbone e di un mestichino tutto arrugginito. Il maestro non lo toccava mai; passavano i mesi e nessuno pensava a lui; per gli altri colori veniva sempre il momento fortunato ed essi se ne andavano allegri nel mondo o nelle grandi accademie di pittura o negli splendidi palagi, trasformati in mille guise, una più bella dell’altra, o servendo in vari modi a qualcosa. Ma del Nerofumo nessuno si occupava perchè era grossolano e smorto; e poveretto, quel che v’è di peggio, egli s’accorgeva di questi suoi difetti. “Non sei altro che un deposito! ,, gli dicevano gli altri colori; ed egli sentiva che l’esser un deposito era una cosa vergognosa, quantunque non capisse bene quel che voleva dire quella parola. “Oh! se potessi esser felice come gli altri! „ Pensava tutto addolorato nel suo cantuccio il povero Nerofumo fuligginoso. “Ora c’è il Bistro, che in fin dei conti non ha un aspetto più bello del mio, eppure senza di lui non si fa nulla, lo mettono dappertutto, sia sul volto di una fanciulla, sia nell’acqua di un fiume! „

Gli altri colori eran tanto felici in quel bello studio ridente, di cui le grandi finestre aperte eran tutte ornate di mirto e di fiori di passione ed il silenzio che vi regnava non era interrotto che dal canto degli usignoli. Il Cobalto, con un paio di pennellate, diventava l’incanto di un bel cielo d’estate nelle prime ore del mattino; le Lacche ed i Carmini brillavano in mille fiori delicati ed in mille creazioni fantastiche; ai Cromi e alle Ocre (semplici terre smorte) veniva permesso di spargersi in strati d’oro, i quali arrecavano la luce del sole nei luoghi più tenebrosi; alla Terra d’Ombra, una cosa cupe e triste era pure concesso di nascondersi tra i riccioli di un bambino e di scherzare tra i suoi sorrisi; mentre tutte le famiglie dei Vermigli, dei Turchini, dei Verdi vivevano in una gloria continua d’albe e di tramonti, tra le onde dell’oceano ed i boschi d’autunno, tra le feste dei re e le pompe marziali.

Il povero Nerofumo si sentiva scoppiare il cuore, sopratutto quando pensava alla graziosa Robbia che amava teneramente e che non lo guardava mai perchè era tanto superba; ed aveva ragione davvero d’esser superba visto che la mettevan sempre nientemeno che nelle nuvole rosee, nell’interno delle rose od in qualcosa di vago e di spirituale.

“Io non sono altro che uno sciagurato deposito! ,, diceva sospirando il Nerofumo, ed il mestichino rugginoso brontolava dal canto suo: “Mi son rovinato nel grattare i pennelli sudici, e vedete qual’è la gratitudine degli uomini e dei pennelli! „
“Ma almeno una volta tu hai servito a qualcosa; ma io no, mai, mai!,, replicava sconsolato il Nerofumo; e davvero era stato lì tanto che i ragni gli avevan tessuto attorno la loro rete argentata ed egli diventava grigio come una vecchia bottiglia in una cantina buja.
In quel momento s’apri l’uscio dello studio, entrò un’onda di luce e s’udi il passo d’un uomo; i cuori di tutti i colori balzarono di gioia, perchè era quello il passo del loro negromante, che dalla condizione di argille comuni e di minerali macinati sapeva con un sol tocco innalzarli agli splendori degli dei e delle divinità immortali.
Però, il cuore del povero Nerofumo polveroso non ebbe un palpito di più, sapeva che lo lasciavano sempre solo e nessuno si degnava di gettargli addosso uno sguardo. Non poteva credere a sè stesso quando quel giorno, – oh miracolo ed estasi infinita! – il passo del maestro attraversò la stanza dirigendosi nell’angolo oscuro ove egli giaceva nascosto sotto le tele di ragno, e la mano del maestro lo toccò. Il Nerofumo si senti svenire dalla contentezza. Cominciavano dunque ad apprezzarlo?
Il pittore lo prese in mano: “Sarai buono per questo lavoro„ disse; e il Nerofumo fu portato tutto tremante al cavalletto. Gli altri colori, trascurati alla loro volta, si affollarono per guardare, e nei loro tubetti di metallo tutti lucenti facevano la figura di una fila di soldatini coll’armatura.

“È quel brutto e antico deposito, „ mormoravano tra loro in aria di disprezzo, pur provando curiosità come fa generalmente la gente sprezzante.
“Ma anch’io sarò glorioso e grande, „ pensava tra sè il Nerofumo col cuore gonfio d’albagia; d’allora in poi non avrebbero più potuto scagliargli l’epiteto di deposito, epiteto che tanto più l’offendeva perchè non lo capiva.
“Sarai buono per questo lavoro, „ ripeteva il maestro, e facendo uscir fuori il Nerofumo dalla sua prigione metallica, lo portò alla luce toccandolo col pennello che era la sua bacchetta magica.
“Che cosa diventerò? „ disse tra sé il Nerofumo quando si sentì mettere sopra una grande asse di abete, tanto grande che credè di dover servire a tracciare almeno i contorni di un atleta o le ombre cupe di una tempesta.

Egli stesso non sapeva dire quello che diventasse; era abbastanza felice e superbo d’esser adoperato, e mentre si servivano di lui cominciò a sognare mille cose sui spettacoli ai quali avrebbe contribuito, su tutte le sfumature che avrebbe avuto, e su tutte le lodi che avrebbe udite quando fosse andato in quel gran mondo meraviglioso del quale il suo padrone era l’idolo. Fu svegliato a un tratto dai suoi sogni incantevoli; tutti i colori ridevano e sghignazzavano attorno a lui e ridendo facevano scuotere i loro elmetti di latta.

“Il vecchio deposito diventa un cartellone, ,, gridavan tra loro cosi allegramente che i ragni, pur non essendo creature socievoli, furon costretti a venir fuori dai loro buchi ed a ridere anche loro. Un cartellone! Il Nerofumo, disteso in estasi sull’asse, si scosse con un brivido dai suoi sogni dorati e contemplò la metamorfosi. Di lui erano state fatte sette lettere, così:

B. A. N. D. I. T. A.

Questa parola significa: luogo nel quale è proibito il cacciare e l’uccellare. In quelle sette lettere, distese sull’asse, fu crocifisso il Nerofumo.
Addio ambiziose speranze e sogni beati! Era stato adoperato per dipingere un cartellone, una cosa alla quale i ragazzi tirano i sassi, che sarebbe sempre esposta ai venti ed alle intemperie e rosa continuamente dai topi. Meglio la polvere ed i ragnateli del cantuccio che una vergogna simile!
Ma non c’era rimedio, la sorte ormai era decisa. Fu seccato con uno strato di trementina, rivestito in fretta di un altro strato di copale, e prima che fosse pienamente consapevole della sua sventura, fu portato via sull’asse di abete e consegnato al giardiniere.
Il pittore, uomo ardente e risoluto, s’era stizzito perchè in quel giorno gli avevano ucciso tra i lacci alcuni suoi tordi prediletti, e nella fretta aveva voluto far da sè quello che avrebbe potuto fare un lavorante qualunque. Il Nerofumo fu portato per l’ultima volta fuori dello studio, e quando dietro a lui si chiuse l’uscio, sentì che i colori ridevan tutti; le risa più forti eran quelle della piccola Robbia che gridava al Giallo di Napoli, giovane elegante il quale le faceva la corte: “Povero deposito, vecchio e brutto! Ora brontolerà colle civette e i pipistrelli! ,,

L’uscio si chiuse ed egli fu per sempre messo fuori da quell’allegra brigata, da quel palazzo di fantastiche visioni; le rozze mani del giardiniere lo afferrarono, portandolo sul limitare del vasto giardino del quale il muro prospettava sulla strada maestra; lì lo attaccarono con un grosso filo di ferro ed a grande altezza, attorno al tronco di un albero. Quella notte piovve dirottamente, soffiò il vento di settentrione, e si fece anche sentire più volte il tuono. Il Nerofumo abituato a stare nella sua casina di latta, fu cosi sbalordito di trovarsi li all’aria aperta in mezzo al furore degli elementi, che gli parve d’essere tra le creature infelici, la più disgraziata di tutte.
Un cartellone! Nient’altro che un cartellone!
L’avvilimento di un colore, creato per l’arte e per gli artisti, non poteva esser maggiore nè più doloroso in nessun altro luogo. Oh! quanto rimpianse il suo tubetto di latta ed il cantuccio tranquillo ove se ne stava in compagnia del mestichino e dei pezzetti di carbone!
Li, è vero, ero stato infelice, ma pure l’aveva sempre confortato un raggio di speranza, perchè in fin dei conti c’era la probabilità che un giorno o l’altro potesse arridergli la sorte essendo scelto a diventare almeno lo strato inferiore di qualche lavoro immortale.
Ma ora non gli sorrideva più nessuna speranza. La sua fine, il suo destino eran decisi ed immutabili.
Non avrebbe mai potuto esser qualcosa di diverso da quello che era; non potevano verificarsi nell’esser suo altri cambiamenti che quelli operati dal tempo e dalle intemperie; era destinato a marcire sull’umido terreno, rovina frantumata e rosicchiata dai vermi.
Spuntò il giorno: una mattinata trista e nuvolosa.
Dal punto ove l’avevan crocifisso sul tronco dell’albero, non poteva neppur scorgere la sua diletta abitazione, lo studio del pittore; non vedeva altro attorno a sè che una gran confusione di rami intralciati, un buio pesto, e sotto il muro di pietrame, rivestito di piante rampicanti, la strada maestra, grigia e fangosa, tutta inzuppata dall’acqua caduta nella notte.
Passò un uomo seduto sopra un carro da mugnaio, e guardando in su, scagliò un’imprecazione al cartello; la gente essendosi sempre divertita ad andare a caccia nel possesso boschivo del pittore o ad acchiapparvi coi lacci gli uccelletti, non capiva perchè adesso non ci dovesse più andare.
Strisciò sopra al Nerofumo una lumaca, poi venne anche una chiocciola; un picchio verde lo martellò col suo fortissimo becco. Un ragazzaccio andò sotto il muro e gli gettò dei sassi, accompagnati da ogni specie d’insolenze. Ricominciò a piovere e l’acqua veniva giù a catinelle. Il povero infelice pensava al suo studio così ridente, ove era sempre estate e sempre tempo buono, ed ove prima di mezzogiorno aveva veduto centinaia di volte dal suo cantuccio isolato, schierarsi tutti i colori pronti alla festa dell’Arte.

“Oh! se fossi morto come la Biacca! ,, pensava tra sè; ma i sassi non riuscivano che ad ammaccarlo senza ucciderlo, ed il grosso filo di ferro gli faceva male, ma non lo soffocava. Chi soffre molto, ha sempre tanta forza per continuare a vivere! Il suo cuore fedele imprecava e malediva quasi il maestro che lo aveva destinato ad una esistenza così crudele.
Trascorse la mattinata, passò il mezzogiorno e cessò di piovere. Scappò fuori il sole daccapo, e il Nerofumo, sebbene imprigionato ed infelice, non potè a meno di guardare con compiacenza lo spettacolo incantevole che presentavano le foglie bagnate, i filamenti di Santa Maria colle goccioline d’acqua attaccate, ed il cielo turchino che brillava tra i rami: non aveva passato invano tutti i giorni della vita in compagnia |di un grande artista, anzi era rimasto sensibilissimo alle bellezze della natura. Il sole scappò fuori e nei suoi raggi cominciarono saltellare tra le fronde alcuni uccelletti bruni; erano semplici ed innocenti nei costumi e nel semplice contegno, ma il Nerofumo sapeva che i poeti nutrono per essi un grande affetto, perchè aveva sentito il suo padrone chiamarli tante volte nelle notti d’estate. Gli uccelletti bruni vennero a saltellare ed a beccare sull’erba, sotto il tronco dell’albero, poi svolazzarono sul muro, rivestito di Banksia e d’altri rampicanti. Gli uccelletti bruni intonarono una canzoncina; sebbene cantino più specialmente al lume di luna, cantano anche di mattina e qualche volta anche tutta la giornata. Ed ecco quello che cantarono:

“Oh! come siamo felici, come siamo felici! Ora nessuno ardisce più stendere le reti a nostro danno, i ragazzi non s’azzardano a saltare il muro e nessun cacciatore crudele ardisce far fuoco. Siamo sicuri, proprio sicuri, ed è cominciata la dolcissima estate! ,,

Il Nerofumo stette a sentire ed anche in mezzo al suo dolore fu commosso e rallegrato dalle note affettuose e limpide che uscivano da quelle piccole gole, tra i fiori di un giallo tenero della Banksia rampicante; e quando uno degli uccelletti bruni venne a posarsi sopra un ramo a lui vicino, dondolandosi e bevendo la gocciolina appesa ad una foglia, si arrischio domandargli, per quanto glielo permetteva il grosso filo di ferro che lo strozzava, perchè fossero così sicuri e donde venisse la loro felicità.

L’uccelletto lo guardò sorpreso.
“Non lo sai? ,, rispose. “Sei tu!

“Io! ,, ripete il Nerofumo, e non potè dir altro, tanto ebbe paura che l’uccello lo canzonasse; lui, povero color nero, scipito e senza splendore, sparso lì soltanto per marcire al tempo buono ed al tempo cattivo. Poteva egli forse esser utile a qualche creatura!

“Tu, ,, ripetè l’usignolo. “Non hai veduto quell’uomo sotto il muro? Aveva in mano un fucile; se non c’eri tu ci avrebbe uccisi. Se ti fa piacere verremo a cantare accanto a te tutta la notte; e quando all’alba anderemo a letto, diremo ai nostri cugini, i tordi ed i merli, di sostituirci, affinchè tu abbia sempre di giorno e di notte attorno a te chi ti rallegri col canto.
Il Nerofumo tacque.
Aveva il cuore troppo gonfio per poter discorrere.
Ma dunque in fin dei conti era utile a qualcosa!
“È proprio vero? ,, chiese finalmente con timidità.
“Verissimo, ,, rispose l’usignolo.
“Allora il mio padrone sapeva quello che faceva, „ disse tra sè il Nerofumo.

Non avrebbe mai servito d’ornamento ad un palazzo, nè sarebbe stato adorato sopra un altare. Le sue ambiziose speranze eran tutte morte come le foglie dell’anno precedente. Ai colori dello studio appartenevano tutte le glorie mondane, ma egli finalmente era utile; serviva a tutelare quelle piccole esistenze. Povero e spregiato, ammaccato dai sassi ed inzuppato dalle burrasche, pure era contento, inchiodato li sull’albero, perchè non era stato creato addirittura invano.

Gli splendori del tramonto, rossi e dorati, penetrarono tra le tenebre dei rami e del fogliame e gli uccelletti cantaron tutti in coro, ebbri di gioia, le lodi del Signore.

OUIDA.

Articolo tratto da: La ricreazione raccolta illustrata di racconti e novelle per la famiglia
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Maria Louise Ramé (1 gennaio 1839[1] – 25 gennaio 1908), sotto il nome di Marie Louise de la Ramée e conosciuta con lo pseudonimo di Ouida, è stata una scrittrice inglese. Durante la sua carriera, Ouida ha scritto più di 40 romanzi, oltre a racconti, libri per bambini e saggi. (Wiki)