GIOVANNI SENZA PAURA

F. CORONA
(FIABA CAGLIARITANA)

C’era una volta un giovine robusto e coraggioso, il quale abitava con la vecchia madre una casupola distante alcune centinaia di metri dal villaggio.
Sin da fanciullo egli aveva mostrato gran coraggio, e, allorchè divenne adulto, al suo nome di Giovanni fu aggiunto il soprannome di Senza paura, perchè egli diceva sempre che nulla lo spaventava, e che bramava conoscere se la paura aveva peli o penne.
Molte volte i suoi compagni tentarono di mettere alla prova il suo coraggio con degli spauracchi di finte apparizioni, ma Giovanni non si era punto impaurito, anzi avea fatto scappare coloro che avrebbero assistito con piacere alla sua fuga.
Una sera, Giovanni dovette recarsi nel villaggio vicino per comprare un litro di vino e la medicina per sua madre, che era ammalata.
Alcuni giovani della sua età vollero persuadersi se veramente Giovanni meritava il suo soprannome.
Uno di essi si distese attraverso il piccolo sentiero per cui Giovanni dovea passare nel ritornare a casa, e i suoi compagni lo ricopersero d’un lenzuolo bianco, e gli misero ai fianchi quattro candele accese, come fosse un cadavere. Poscia essi si nascosero dietro una siepe, ed attesero il passaggio di Giovanni.
Dopo un po’ di tempo, ecco Giovanni di ritorno dal villaggio.
Quando egli fu a pochi passi dal finto cadavere strinse colla destra il suo bastone, che non l’abbandonava quasi mai, e, fermandosi, gridò:
Se voi credette di farmi paura vi sbagliate di grosso. Alzatevi, o io v’ammazzo sul serio.
Non battere, Giovanni, sono Luigi, il tuo amico Luigi esclamò il finto cadavere, levandosi e togliendosi di dosso il suo sudario.
Giovanni rise di cuore guardando il suo amico, mezzo morto dallo spavento, darsela a gambe.
Questo fatto confermò in paese ancora di più la sua fama di coraggioso.
Un mese dopo Giovanni senza paura mostrò desiderio di correre in cerca d’avventure, e andato dalla madre le disse:
– Mamma, io voglio andare a girare per il mondo e a farmi ricco. Cosi potrete passare felici i vostri ultimi giorni, Io finora non ho conosciuto nulla che mi faccia paura, nè so se essa abbia peli o penne. Chi sa che il mio coraggio non mi dia fortuna!
La madre, prima, si oppose, facendogli riflettere che essa era assai vecchia, e che le rincresceva di morire lontana da lui, poscia, quando vide la di lui ostinazione, benchè a malincuore, v’acconsenti. Nell’accommiatarsi dal figlio, essa volle dargli un consiglio, e gli disse:
– Senti, Giovanni, giacché tu sei deciso ad abbandonare la casa paterna, voglio darti un consiglio, che ti gioverà sempre che tu voglia seguirlo. Non viaggiar mai da un sole all’altro, e fermati per coricarti appena il giorno lascia il posto alla notte.
Giovanni abbracciò la madre, che piangeva nel vederlo partire, e seguito da un asino, che portava il suo bagaglio, si mise in cammino alla ventura.
Egli camminò tutto il giorno, e, quando vide il sole tramontare, si stese sull’orlo di un fosso, a piè di un albero, sopra un tappeto di foglie secche, e non si svegliò che al bisbiglio degli uccelli, che annunziavano il mattino, saltando sui rami al disopra della sua testa.
Al cadere della seconda giornata, nel mentre cercava un luogo per passare la notte, scorse, agli ultimi raggi del sole morente, una piccola cappella in fondo ad un viale. Tosto vi si diresse, e, quantunque non fosse molto lontana, quando vi giunse era già notte fonda.
Giovanni legò l’asino ad un albero, ed entrò nella cappella. Questa era tutta in rovina; le finestre non avevano più vetri, e la porta era mezzo sconnessa.
Ma Giovanni, che non era molto difficile, pensó giustamente che quivi dormirebbe meglio della notte precedente.
Dalla trave, che sostenera il tetto della cappella, pendevano tre cadaveri, i cui piedi quasi toccavano il pavimento.
Giovanni, a causa dell’oscurità, non li avea visti. Egli si sdraiò per terra facendosi cuscino della sua bisaccia e, col bastone a portata della mano, si preparò a dormire.
Ma, nel punto in cui prendeva sonno, il vento, che penetrava dalle finestre senza vetri, fece urtare gl’impiccati l’uno contro l’altro con un forte rumore.
Giovanni si mise a sedere, dicendo:
– Oh! Vi faccio rimaner subito tranquilli, io.
E alzatosi in piedi con un colpo di bastone fece cadere al suolo uno degl’ impiccati.
Aspettò un poco, poi, non avendo inteso più nulla, si tornò a coricare. Ma, un istante dopo, una nuova raffica urtò fra di loro gli altri due impiccati.
Giovanni ne bastonò ancora uno con tale forza che esso rotolò sul pavimento della cappella.
Poi si coricò ancora nella speranza di poter dormire. Di li a un poco il vento scosse il terzo impiccato, che batte i piedi sul muro.
Come? gridò Giovanni — Tu sei solo, e non puoi star tranquillo? Aspetta un poco, che ti tratto come gli altri.
Non mi bastonare gridò l’appiccato. Ascoltami. Noi siamo stati strangolati qui dal carnefice per aver rubato il tesoro della chiesa, che abbiamo nascosto sotto una pietra sepolcrale, che è in fondo a questa cappella a fianco del fonte battesimale. Se tu hai tanto coraggio di prenderlo e di restituirlo al parroco, noi potremo almeno sperare di ottenere la misericordia di Dio.
Bene disse Giovanni senza paura tranquillo; domani io farò ciò che tu desideri; non sarà già questa la volta in cui io avrò paura.
E si coricò per la quarta volta, e finalmente potè dormire. Quando, appena fatto giorno si svegliò, andò a sollevare la pietra che nascondeva il tesoro rubato, e corse a portarlo al parroco, a cui raccontò punto per punto la sua avventura della notte precedente.
Il parroco fu contentissimo di ricuperare gli oggetti, che credeva perduti, e promise di dire delle Messe per il riposo delle anime degl’ impiccati. Indi ringrazio Giovanni senza paura, e volle ricompensarlo con una somma di danaro, che Giovanni ricusò, pregandolo invece di fargli dono della sua stola. Con essa egli pensò e il mio bastone posso correre il mondo senza temere nè il diavolo, nè gli uomini.
Il parroco gli rispose che non poteva dargli la stola, perchè essa era benedetta, e quindi non si poteva prendere a gioco.
Non è per mancare di rispetto alla vostra stola, che io ve la domando, ma per respingere gli assalti del demonio e distruggere gl’incanti; degli uomini se ne incarica il mio bastone.
Il parroco allora acconsenti a dargli la stola, che Giovanni si mise in tasca e se ne parti.
Cammino tutto il giorno, e verso sera vide in una vasta pianura un castello bellissimo. Egli accelerò il passo, e prima d’arrivarvi scorse una casettina, alla cui porta sedevano alcuni soldati godendosi il fresco.
Giovanni chiese loro se il padrone del castello l’avrebbe alloggiato per quella notte.
Si vede che voi non siete del paese – gli fu risposto – altrimenti voi sapreste che il castello è incantato dai diavoli e dai folletti; quanti vi vollero dormire all’indomani non furono trovati, oppure li trovarono morti. Con vostro permesso disse Giovanni senza paura io voglio provare se questa notte vi posso dormire. Io non so ancora se la paura abbia peli o penne, e credo che neanche questa volta verrò a saperlo. Solo vi prego di prestarmi una di quelle sciabole, che sono appese a quella parete, perchè mi possa difendere nel caso venga attaccato.
Giovanni entrò nel castello, ne visitó le sale senza trovarvi l’ombra d’un uomo, e si fermò in cucina, ove trovò una tavola preparata con pane, scodelle e piatti, mentre sul fuoco del camino una marmitta bolliva a fianco d’una casseruola piena di minestra.
Giovanni prese un pane e si mise a tagliarlo a pezzi, che in una scodella, poi s’accostò alla marmitta per spillarne il brodo. Una voce cupa risuonò in quel momento nella cappa del camino. Versa quattro zuppe disse la voce. Se ciò mi piace rispose Giovanni senza muoversi Domandatelo almeno per favore.
Ebbene, ti prego di preparare la zuppa per quattro fece la stessa voce.
Volentieri, ma a condizione che voi veniate a mangiarle in mia compagnia disse ancora Giovanni.
Tosto un rumore di ferri s’intese al disopra del camino, da cui si videro pendere alcune catene.
Ebbene? disse Giovanni Lasciate cadere le tre catene, di cui mostrate le cime. Non è così che mi intimorirete,
Le catene caddero con fracasso sul fuoco, seguite da tre diavoli vestiti in abito nero, dal quale usciva una lunga coda.
La zuppa non è ancora pronta disse uno di essi scoperchiando la casseruola. – Se voi volete frattanto possiamo giuocare una partita alle carte.
I diavoli sedettero, ed il più giovine di loro lasciò cadere per terra una delle sue carte.
Raccattami quella carta – ordinò egli a Giovanni.
Tu potresti parlar meglio e fare da te stesso le cose tue. Io non sono mica il tuo servitore gli rispose questi.
E come il diavolo abbassò il capo al disotto della tavola per raccogliere la carta, Giovanni senza paura gli passò la stola intorno al collo.
A quella vista gli altri demoni sparirono per il camino, lasciando il piccolo diavolo a dimenarsi come fosse dentro la pila dell’acqua benedetta, e supplicando Giovanni di levargli la stola, che lo bruciava come un collare di ferro arroventato.
Ah! disse Giovanni – eccoti preso, tu che credevi di prendere gli altri. Prima che io ti lasci libero tu devi dirmi perchè volevi che io raccogliessi la tua carta.
Per gettarti in un pozzo, che è sotto la tavola.
Grazie tante. Io però non sono vendicativo, e acconsento a liberarti dalla stola se tu scrivi e sottoscrivi col tuo sangue un atto, col quale mi cedi il castello e tutto ciò che esso contiene, e ti obblighi a non più comparirvi nè tu, nė nessuno de’ tuoi.
Il diavolo prese un coltello dalla tavola e si fece una ferita al braccio, indi bagnò una penna nel sangue che ne sprizzava, e firmò la carta che Giovanni gli avea chiesto.
Appena libero della stola il diavolo si mise a saltare come uno scoiattolo, ed era cosi contento che, prima d’andarsene, indicò a Giovanni un ripostiglio, che stava sotto una scala, in cui trovavasi un barile colmo di monete d’oro.
Giovanni dormi tranquillamente il resto della notte, e appena giorno andò dal padrone del castello, e gli diede lo scritto del diavolo e il barile d’oro.
Il padrone volle ricompensare Giovanni senza paura, e desiderò tenerlo presso di sé, ma questi dopo qualche giorno si decise ad andare in cerca di nuove avventure e parti.
Dopo molto camminare un giorno entrò in una città, e ne vide tutti gli abitanti vestiti di lutto e con la faccia addolorata. Egli chiese il perchè di ciò, e gli fu risposto:
Si vede che tu non sei di questo paese. Domani il serpente a sette teste deve divorare la figlia del re. Chi riesce ad ucciderlo, e così liberare la principessa, avrà in premio la di lei mano di sposa. Ma, quantunque essa sia bella come un sole, nessuno non si è ancora presentato a suo difensore, perchè il serpente getta fuoco e fiamme dalle sue sette teste, e non è possibile di ferirlo.
M’impegno io di liberare la principessa disse Giovanni. – Io non so ancora se la paura ha peli o penne.
Condotto tosto alla presenza del re, il quale al vedere un uomo cosi risoluto e coraggioso nutrì qualche speranza di aver salva la figlia; questi ordinò che si avesse cura di lui, e gli promise formalmente di dargli la principessa in isposa.
All’indomani Giovanni si portò nel luogo, ove la figlia del re, piangendo e pregando, stava in attesa del serpente.
Giovanni, appena vide da lungi il mostro, che arrivava fischiando e lanciando fuoco e fiamme dalle sue sette bocche, prese in una mano la stola e con l’altra la sua sciabola. Poi arditamente si avanzò incontro al serpente, che gli vomitò addosso fuoco e fiamme.
Ma queste, a causa della stola che era benedetta, si spegnevano non appena toccavano Giovanni.
Allora le sette teste si precipitarono su Giovanni per divorarlo, e già lo afferravano quand’egli con un colpo di spada ne tagliò quattro, e senza fermarsi con un secondo colpo recise le altre tre teste, che caddero a terra accanto al cadavere del serpente
Giovanni raccolse le sette teste e ne taglio le lingue, che mise in un fazzoletto con il suo nome, e, assieme alla principessa, s’avviò verso la città.
Ma colto dalla notte, e non volendo disobbedire al consiglio della madre, lasciò che la principessa proseguisse sola la strada, e si coricò.
Questa volta, essendo molto stanco per la lotta sostenuta col serpente, rimase addormentato anche dopo il levar del sole, e non si svegliò che quando una rondinella, volando rasente terra, gli sfiorò il viso colle sue ali.
Giovanni, toccato cosi bruscamente, provò nel sonno un senso di raccapriccio, e aperti gli occhi vide l’uccello che fuggiva.
Ah! gridò egli, Io non sapevo fino adesso se la paura avesse peli o penne. Ora so che essa ha penne.
Fu questa l’unica volta in vita sua ch’egli provò un principio di paura.
Alzatosi si diresse verso la città, e, nell’entrare nel palazzo del re, che era tutto adornato a festoni, seppe che la principessa dovea sposarsi quel giorno stesso con colui che l’avea liberata dal serpente a sette teste.
Lo sposo era seduto al fianco del re e della principessa, ed era vestito da principe.
Egli, che non era altro che un impostore, era passato per caso nel luogo in cui il serpente giaceva ucciso, e raccolte le sette teste con esse si era presentato al re, spacciandosi per il liberatore della sua figlia.
Aspettate gridò Giovanni, presentandosi al re – quest’uomo è uno sfacciato. Guardate se le lingue sono ancora in bocca alle sette teste.
Si guardarono subito le teste, e furono trovate senza le lingue.
Giovanni allora presentò il suo fazzoletto con il suo nome, dentro cui erano le sette lingue ancora sanguinanti.
Il re, irritato, fece squartare, da quattro cavalli indomiti, l’uomo che si era falsamente dichiarato per il liberatore della figlia.
Giovanni fu vestito di ricchi abiti, che lo fecero bello come un principe, e andò a nozze con la figlia del re.
Nella città vi furono molti giorni di feste, le migliori che si videro nel paese, e i porchetti correvano per le strade arrostiti o lessati con la forchetta sul dorso, perchè ognuno che ne voleva potesse servirsi, ed io, che era fra gl’invitati, ebbi un fiasco di dolci ed un cesto di vino. *

* Con quest’ultima frase, e con altre simili, si chiudono d’ordinario le fiabe, che corrono per la bocca del popolo nella parte meridionale dell’isola. La frase in dialetto è questa : «E ddeu chi femmu cumbidau ndi seu torrau cun d’unu frascu ‘e binu e uno ciuliri ‘e pistoccu».

F. CORONA.
Rivista delle tradizioni popolari italiane, Volume 2
a cura di Angelo De Gubernatis