Di Giuseppe Castelli
La patria del poeta filosofo, che nel secolo di Dante scontava sul rogo la pena della libertà di pensiero, non possiede alcun monumento del più illustre suo cittadino. Gli archivi sono muti; le croniche e le storie municipali non contengono che frammenti di tradizioni e notizie confuse ed incerte; la biblioteca civica non vanta che qualche povera edizione delle opere di Cecco. Unico segno di reverente affetto alla memoria di lui può dirsi il quadro rappresentante il maestro in mezzo ad una corona di uditori: insigne lavoro, che nel marzo del 1876 fu posto nell’aula massima del palazzo comunale.
La grande tela è opera è dell’ egregio pittore ascolano cav. Giulio Cantalamessa, che alle felici prove nell’arte alterna l’assiduo e fecondo lavoro della critica, per cui va segnalato fra i più geniali scrittori di cose artistiche.
Rappresenta Cecco d’Ascoli, che a Firenze, in una sala del palazzo del podestà; ove teneva sua corte Carlo Duca di Calabria, fa lezione davanti a un uditorio di dotti e di gentiluomini italiani e francesi.
Chiunque ha vivo nell’anima il sentimento dell’arte e intende appieno ciò che il disegno e il colorito sanno manifestare di pensieri e di affetti umani, giudica questa pittura del Cantalamessa come una delle composizioni storiche più belle ed espressive e la considera altresì come il capolavoro del giovine artista.
Quadro del Cantalamessa presso la regione Marche
A commento e illustrazione di questo quadro farò un compendio di notizie biografiche del personaggio che sì nobilmente ispirò il nostro pittore, affinchè l’opera d’arte sia meglio compresa ed ammirata anche da chi non fece studi e ricerche speciali sopra uno scrittore sì poco noto. Lo scopo di questo scritto ne determina e circoscrive i mezzi, e perciò ne restringe le proporzioni entro modestissimi confini. Chi desidera cognizioni più estese può consultare i molti autori che trattarono lo stesso soggetto, e specialmente lo studio sapiente pubblicato dal prof. Felice Bariola su «Cecco d’Ascoli e l’Acerba» (Firenze, 1879, Tip. della Gazz. D’Ital).
Molti scrissero intorno a Cecco d’Ascoli (Francesco di Simone Stabili), a cominciare da Giov. Villani (Cron. X, 40, 41) fino ai moderni autori di storie letterarie ed agli illustratori delle memorie locali, fra cui tengono onorevole posto Giac. Cantalamessa e Giov. Spalazzi. Eppure non risplende ancora della sua vera luce la figura dello scienziato del martire, che fu grande in una età, di cui noi tardi nipoti andiamo raccattando i più tenui indizi di arte e di scienza.
Sembra davvero che l’atroce condanna toccata all’infelice ascolano si sia comunicata, in odium auctoris, a tutto quanto potesse avere relazione col pensiero, colle opere, colla vita di lui. I codici che rimangono delle sue scritture sono conservati come rari cimelii, ma danno segni manifesti di perturbamenti, di lacune, di guasti profondi; l’opera principale, l‘Acerba, le cui edizioni, come fossero state fatte alla macchia, sono uscite tutte scorrettissime, fu perseguitata certo e accanitamente nel XIV secolo e ne’seguenti; onde si spiega la grande rarità di tutte l’edizioni, perfino dell’ultima di Venezia, 1820.
L’odio degli emuli, più che il rigore della Chiesa, proseguì il maestro per tutta la vita; ed anche quando il braccio dell’inquisizione, dattosi stromento degl’invidiosi, ebbe acceso il rogo che incenerì lo scienziato, non si quietarono costoro, anzi si fecero più acerbi persecutori della memoria di lui.
L’odio armato di calunnia generò una leggenda diabolica, per la quale il pensatore e l’artista furono soffocati dalla truce personificazione del mago e del negromante.
A fuorviare i giudizi contribuì anche la forte impressione che fece in tutti la tragica fine di un uomo, che sapeva ed operava cose, dal volgo dei dotti credute superiori alle facoltà umane; sicchè ebbe posto fra gli alchimisti, gl’impostori e gli eretici chi doveva meglio essere collocato fra i poeti e gli scienziati notevoli del secolo XIV.
Quelli che hanno dovuto parlare di Cecco, copiandosi l’un l’altro quasi tutti, hanno detto che quando il maestro fu bruciato nel 1327 era settuagenario; onde la data della sua nascita cadrebbe nell’anno 1257. Di questa opinione fu il nostro egregio pittore, che rappresentò già vecchio il protagonista del suo quadro, allorchè, non prevedendo il processo e la condanna imminenti, esponeva la sua scienza alla corte del Duca di Calabria.
Ma il Bariola con sodi argomenti e ragioni di fatto dimostra che la nascita di Cecco dev’essere trasportata molto più presso alla fine del secolo XIII, e che in ordine alla cronologia non possono essere asserite come certe che la data della prima condanna a Bologna e quella della morte a Firenze.
Come e con quali aiuti Cecco facesse in patria i primi studi ci è ignoto; sono fiabe quasi tutte le notizie della sua giovinezza. In tanta incertezza, ardisco mettere innanzi l’ipotesi che Francesco Stabili fosse condiscepolo del suo concittadino Domenico Savi, o Meco del Sacco, che nel 1345 fu arso vivo in Ascoli insieme ai suoi libri, come empio e scismatico e capo di oltre a dieci mila eretici del Piceno.
A tale ipotesi sono indotto dalla menzione che fanno i cronachisti ascolani dell’acume e della dottrina di questo nuovo martire, il quale, dice il Marcucci (şaggio delle cose Ascolanė, pag. 272) «fù dotato di arguto ingegno e di calda fantasia e studiò lingua latina e franzese, Filosofia e Sacra Scrittura. Compose tre libri, uno in franzese sopra i salmi, e due in volgare nostro, cioè intorno al Vangelo ed all’Apocalisse, pieni di falsità ed errori.»
Accennano sopratutto ad analogia di studi ed a comunanza di aspirazioni le seguenti parole: «In casa si fece una macchina, come una specie di sfera armillare, dove si rappresentata il Paradiso, la Terre co’ quattro elementi, il Purgatorio e l’Inferno, ch’egli spiegava a suo piacimento.» I libri e la macchina, in cui forse Cecco aveva studiato, furono bruciati sullo stesso rogo apprestato al capo dei fraticelli e dei flagellanti ascolani. Oltre a ciò, fra le sette proposizioni di costui, condannate dal Tribunale dell’ Inquisizione, v’era, a dire del Marcucci, questa, che avrebbe precorsa l’eresia del Molinos: «Viros et mulieres comuniter noctu orantes in obscuro esse impeccabiles, quidquid insimul agant.»
Siffatta proposizione trova un certo riscontro in una strana lettera attribuita a Cecco e diretta ad una suor Lucia de Empulo (forse meglio de Esculo) per la quale il nostro sarebbe stato preso non di platonico amore. Anche ammettendo inventata la lettera, per ischerzo o per artifizio di calunnia, se ne potrebbe dedurre qualche indizio di rapporti veri o supposti fra le due vittime dell’Inquisizione (V. Fr. Novati, Tre lettere giocose di Cecco d’Ascoli in Giorn. stor. della lett. ital., fasc. 1, 1883 pag. 62 segg.)
Comunque sia di ciò, non potevano a Cecco mancare scuole e maestri, giacchè in Ascoli fiorirono gli studi e gli studiosi, sotto l’influenza immediata della dotta Bologna, anche prima che il Papa ascolano Niccolò IV, istitutore di università dentro e fuori d’Italia, ordinasse nella sua patria una specie di studio generale. (1227 1292). A convincersi di questo basterebbero, del resto, gli articoli dell’antico statuto, contenenti esenzioni e privilegi preziosi a favore dei giovani che si stabilissero in Ascoli per ragione di studi; certo è che il legislatore non si sarebbe tante volte e con premura speciale occupato di cosa molto importante.
Raccontano i biografi del nostro (alcuni però in tono canzonatorio) che Cecco, per dimostrare la sua singolare valentia nelle applicazioni pratiche della meccanica e della matematica, proponesse al suo Comune di condurre le acque dell’Adriatico fin sotto le mura di Ascoli e trasformare così la metropoli del Piceno in porto di mare, e che la paradossale proposta venisse naturalmente respinta.
Ma forse, sotto il velo metaforico assai trasparente di siffatta proposta, conservataci dalla tradizione, si nascondeva un alto concetto economico, quello che purtroppo è sempre allo stato di vano desiderio, che cioè si possa e si debba eseguire l’arginatura e l’incanalamento del Tronto; per cui non solo si restituirebbero all’agricoltura molti e non angusti poderi, ma si creerebbe ancora un canale, una specie di piccolo naviglio, tra Ascoli e il suo porto, in servizio dell’industrie e del commercio.
Tale spiegazione diventa ancora più ragionevole, quando si pone a confronto con un’altra proposta più seria e positiva ancora, fatta da Cecco, secondo si narra, a Carlo Duca di Calabria e per costui mezzo a Re Roberto di Napoli per la restaurazione della via Salaria che da Roma per Ascoli congiungeva l’ Adriatico al versante del Tirreno. (V. Memorie d’ Accumoli del Dott. Cappello, in Giornal. Arcadico, Gennaio 1826, pagg. 100 e 101.)
Una relazione manoscritta della condanna e della morte di Cecco, nel codice Riccardiano N. 1895, va d’accordo con quei biografi che affermano avere lo Stabili ricevuta un’accurata educazione con quei mezzi che la ricca famiglia e la città non incolta gli potevano somministrare. Si aggiunge che nell’adolescenza fece rapidi progressi nelle lettere e specialmente nella poesia; che poi, consacratosi tutto alle scienze, divenne eccellente nella filosofia, nella medicina, nella matematica e nell’astrologia. Onde, nel mentre si guadagnava la stima e l’ammirazione degli studiosi, presso la plebe fanatica acquistavasi la sinistra fama di stregone e di taumaturgo infernale.
Di tal fama rimane in Ascoli traccia nella fantastica tradizione di un ponte sul Castellano edificato da Cecco in una notte coll’aiuto del diavolo: tradizione che poi ad arte venne torta a designare un omonimo architetto di Abruzzo; così pure nella diceria, sempre rinascente, che nella casa da Cecco abitata presso Porta Romana sian sepolti tesori. Simiglianti leggende ed anche più strane si formavano prima e dopo la sua morte; come quella di un gran tesoro scavato da esso in Calabria e del libro del comando presentatogli dagli spiriti infernalia per mezzo del qual libro, egli poteva poscia viaggiare in un attimo per l’universo ed operare miracoli. Un’altra volta, di pieno inverno, trovandosi a banchetto con alcune gentildonne, fece, per incantesimo, apparire pergolati, fiori primaverili e frutta d’autunno.
I diavoli furono quelli che restituirono a Cecco i libri scientifici, sequestratigli dall’inquisitore di Bologna. A Firenze, un giorno, mentre il barbiere lo radeva, la testa del maestro spiccossi dal busto e andò a posarsi sul pavimento. E un’ altra volta, nella stessa città, in piazza di Mercato Nuovo, mentre il cielo era serenissimo, fece apparire una nuvola con entro un frate e una monaca.
Il poema l’Acerba fu poi confuso nell’immaginazione popolare col libro del comando ed è ora incatenato ad un banco della biblioteca laurenziana ed è il cod. 52 del plut. XL. Nè mancano, in pieno secolo decimonono, dei baccelloni che visitano la laurenziana solo per vedere, a debita distanza, il terribile libro del comando.
Il gesuita Appiani, difensore appassionato di Cecco, vuole che il primo raffreddarsi dell’amicizia fra Cecco e Dante nascesse da che un giorno, questionando essi qual più potesse la natura o l’abito, e stando Cecco per quella e per l’abitudine Dante, questi mostrò un gatto che reggeva con le zampe la candela accesa, mentre egli leggeva o scriveva; ma Cecco, recata una pentola con dentro alcuni topi e lasciatili, il gatto si avventò subito a quelli e così fe’vincere a Cecco la questione.
Mentre il disgraziato poeta era condotto al supplizio, da una finestra di S. Maria Maggiore si affacciò un prete e gridò:
«Non gli date da bere: non morira’ mai» E Cecco, vòlto in su, gli rispose per le rime:
«E tu la testa di lì non cavera’ mai»
Il prete rimase pietrificato all’istante e la sua testa marmorea è ancora confitta lì sul fianco della chiesa che guarda via Cerretani. Questa leggenda si connette coll’altra del demonio che aveva promesso a Cecco di salvarlo da morte, purchè, nell’estremo pericolo, egli avesse bevuto!
Sul punto di essere divorato dalle fiamme,si tramutava ora in un fastello; ora in un covone di paglia, e così tentava uscire di mano alla sbirraglia ed ai carnefici. Ma finalmente, disperando oramai degli aiuti diretti e immediati, si risovvenne della profezia, ch’egli non avrebbe potuto morire se non tra Africo e Campo de’ fiori. Per questa predizione, fattagli molti anni prima dalla potestà infernale, si era sempre guardato dal mettere piede stando a Roma, sulla piazza detta Campo dei Fiori, e, dovunque, dall’uscire di casa, quando spirasse il vento Africo.
Ma, per opportune interrogazioni fatte, seppe che li presso appunto scorreva il torrente Africo; sicchè avveravasi la profezia della sua morte tra Africo e Campo dei Fiori, cioè Firenze; si tenne morto ed esclamò: actum iam est de me!
Seguendo la triste leggenda, l’Orcagna dipinse in un affresco a S. Croce l’illustre ascolano fra i dannati dell’inferno, forse a giustificazione della chiesa e dei frati, ond’era uscita l’iniqua sentenza.
Appartiene forse alla favola quel che si narra averlo Papa Giovanni XXII, mosso dalla grande fama del maestro, chiamato in Avignone per farlo medico di corte; ed avere il pontefice esclamato con ira, all’annunzio della sua morte: cucullati minores recentiorem peripateticorum principem perdiderunt. Leggendaria certo è la storiella dell’oroscopo da Cecco rivelato alla Duchessa Maria di Valois, consorte al Duca di Calabria, ch’essa e la figliuola Giovanna, a quando indicavan le stelle, si sarebbero macchiate del vizio della scostumatezza.
Alle leggende si aggiunsero le calunnie, perfino di alcuni scrittori che sognarono le più strane cagioni della sventura onde venne colpito l’uomo, ch’ebbe l’ardimento di competer con Dante, non per le dolci rime, ma per il contenuto di un poema.
Così meravigliosa tela di favole e di leggende, intessuta per seicento anni dalla commossa immaginazione popolare, ha soltanto il valore di una prova di più per dimostrare che la fama di Cecco fu grande e universale, e che la vita e le opere sue furono tali da esercitare non lieve influenza sul movimento scientifico del secolo ed anche sulla vita dei contemporanei e dei posteri.
Documenti più sodi e durevoli della fama universale di Cecco, nel secolo XIV e nei prossimi seguenti, sarebbero i giudizi di storici e di scrittori di scienza che n’esaminarono le opere, e ne ricercarono le notizie negli archivi pubblici e privati. Ma anche di mezzo a sì gran mole di materiali, appena la critica si ponga a vagliarli accuratamente, ben poco ne può cavare, che abbia i caratteri della certezza, quando si eccettui la serie di notizie e di giudizi che possono essere dedotti dalle opere stesse di Cecco e dalle osservazioni dei contemporanei. Dubbia pertanto deve sembrarci la notizia, onde saremmo indotti a credere che Cecco, recatosi una prima volta a Firenze verso il 1290, entrasse nel sinedrio dei poeti e degli scienziati dell’Atene d’Italia e divenisse quivi, prima amico e maestro, poi emulo e nemico di Dante, e che si erigesse ad acerbo critico della canzone di Guido Cavalcanti:
«Donna mi priega perchè io voglia dire»
Sicchè ricevuto prima con grandi onoranze, come si conveniva verso un maestro, che le più reputate Università si disputavano, fu poi fatto segno all’ira e alla vendetta di potenti famiglie fiorentine, alla cui testa erano gli Alighieri, i Cavalcanti e i loro consorti.
Certa invece è la notizia che verso il 1322 Cecco, salito già a grande rinomanza, fu eletto dall’università di Bologna a leggere astrologia nel famoso Ateneo ed ivi professò la detta scienza fino al 1324, commentando la sfera di Sacrobosco cioè il trattato dell’inglese John Halifax di Holywood ( 1256).
Molti hanno asserito che Cecco fu anche medico celebre e fortunato, fondandosi forse sul fatto delle molte e gravi nozioni mediche, di cui abbondano le sue opere. Forse in Bologna, oltre all’ordinario ufficio di lettore di astrologia, egli tenne anche cattedra di filosofia e di quelle parti di Fisica, di Alchimia e di storia naturale, che più hanno attinenza colla medicina; forse, durante la intiera sua vita di scienziato, ebbe frequenti occasioni di fare studi e sperimenti di fisiologia e di applicare il tesoro delle sue cognizioni e della sua esperienza alla cura degli infermi. Non può ad ogni modo disconoscersi che dall’esame delle opere che ci rimangono di Cecco, si fa manifesto che neppure la teologia e la politica erano aliene dagli studi suoi particolari e profondi.
A Bologna, che fu il teatro più fulgido della gloria di Cecco, cominciarono le persecuzioni implacabili, che lo spinsero al patibolo. Il plauso degli scolari e dei dotti, che abbondavano in quel centro luminoso di cultura, esasperavano l’invidia degli emuli ed acuivano la loro malizia. Fra questi era Tommaso del Garbo, pur esso lettore nella medesima università; il quale, appena furono pubblicati e divulgati i commentari alla Sfera, si diede a riprovarli aspramente in pubblico ed in privato. E pare, che non contento di così sleale guerra contro un collega, denunziasse l’autore a frate Lamberto da Cingoli, inquisitore della eretica gravità, e lo inducesse a procedere contro il tanto plaudito professore.
A Bologna, che fu il teatro più fulgido della gloria di Cecco, cominciarono le persecuzioni implacabili, che lo spinsero al patibolo. Il plauso degli scolari e dei dotti, che abbondavano in quel centro luminoso di cultura, esasperavano l’invidia degli emuli ed acuivano la loro malizia. Fra questi era Tommaso del Garbo, pur esso lettore nella medesima università; il quale, appena furono pubblicati e divulgati i commentari alla Sfera, si diede a riprovarli aspramente in pubblico ed in privato. E pare, che non contento di così sleale guerra contro un collega, denunziasse l’autore a frate Lamberto da Cingoli, inquisitore della eretica gravità, e lo inducesse a procedere contro il tanto plaudito professore.
La sentenza dell’inquisitore, emanata il 16 dicembre del 1324, condannava Cecco a penitenze ascetiche, in riparazione de’ suoi errori e peccati in materia di fede; lo spogliava di tutti i libri di astrologia, e gli vietava d’insegnare più oltre, in Bologna o altrove, fino a sua nuova permissione, sospendendolo dal magistero e dal dottorato; per di più lo multava in danaro. Ed ecco il nostro sincero e coraggioso scienziato, vittima della invidia di perfidi rivali e della intolleranza fratesca, balzato dalla cattedra, ch’egli aveva illustrata col suo sapere davanti ad una delle più numerose e fervide scolaresche del mondo.
Questo primo ed amaro disinganno lo costrinse a ramingare per l’Italia, in cerca di un quieto asilo ai suoi studi. È probabile che Cecco, non molto dopo la persecuzione patita, forse dopo aver rivista la sua Ascoli diletta e visitate Roma e Napoli, riparasse a Firenze o vi fosse chiamato.
E verosimile altresì il credere che le relazioni di amicizia e di alleanza, intercedenti fra le repubbliche di Firenze e di Ascoli, oltre alla fama della dottrina, rendessero cortese ed ospitale al proscritto la nuova sede, ove pochi anni dopo un Medialuso d’Ascoli sarà podestà riluttante alla usurpazione tirannica del Duca d’Atene.
Un altro suo concittadino, un altro Francesco d’Ascoli, frate e teologo, chiamato il Dottor succinto, consigliere aulico di Re Roberto, lo mise forse nelle buone grazie del Duca di Calabria, prima ancora che questi fosse chiamato a riordinare ed a reggere lo stato di Firenze.
Comunque sia di ciò, noi troviamo Cecco alla corte del Duca in qualità di astrologo, e fors’anco di maestro e di medico, verso il 1326, nel palagio del Comune di costa alla Badia. L’onorevole ufficio e l’alta protezione rendevano a Cecco più che agevole e fruttuoso il lavoro scientifico e gli fornivano i mezzi necessari a studi seri ed efficaci. Era tornato, per altra via, al porto da lui desiderato; gli rifioriva una vita nuova di propositi e di speranze, proprio nella città, ove il pensiero ed il cuore d’Italia più fortemente si agitavano ed operavano i miracoli nuovi della letteratura e delle arti figurative. Lo scienziato temprava il suo ingegno alle sorgenti stesse del dolce stil nuovo e si rivelava poeta.
Ma i suoi nemici vecchi vigilavano e sorgevano dei nuovi, preparandosi tutti di concerto ad assalto più poderoso.
Il maestro, riavutosi presto dai colpi dell’avversa fortuna, riprese con intrepido carattere e irrefrenabile libertà di pensiero e di parola a professare la sua dottrina dentro e fuori la corte; concepì e compose in gran parte un poema, l’Acerba, che per l’importanza del contenuto, se non per la forma, doveva osare di misurarsi col più grande poema dell’umanità. La superbia del concepimento fa testimonianza delle profonde convinzioni del poeta filosofo e della fede inconcussa di lui nella verità e utilità indiscutibile della sua scienza, non già di puerile vanità di oscurare la Divina Commedia ed il divino genio del Ghibellino fuggiasco.
Intanto gli avversari, di cui istigatore e consigliere era questa volta Dino del Garbo, padre del denunziatore di Bologna, impotenti a combattere ed a vincere nel campo del sapere, si erano volti al tradimento ed avevano guadagnato alla loro causa Frate Accursio, inquisitore del santo uffizio nella Toscana, dopo averglielo rappresentato come un eretico della peggiore specie, e capace di corrompere e perdere tutto lo stato fiorentino. Frate Accursio si fece mandare dal collega di Bologna il processo del 1324 e su quello cominciò a machinare il nuovo procedimento contro il favorito del Duca. Per meglio colorire il pravo disegno, Dino del Garbo e i suoi alleati tirarono dalla loro il Vescovo di Aversa, cancelliere di Carlo di Calabria, e lo persuasero a screditare Cocco nell’animo del signore, onde questi, capo di guelfi in una città guelfa, lasciasse piena libertà d’azione al sacro tribunale, contro l’illustre maestro, Cecco fu tradotto dinanzi a Frate Accursio dell’ordine dei minori e chiamato a rispondere delle accuse mossegli contro. Testimonianze ben congegnate o i poderosi argomenti della tortura poterono facilmente produrre l’evidenza legalo della colpabilità.
Nel coro della Chiesa di S Croce, alla presenza del detto inquisitore, del Cardinale Giovanni degli Orsini, legato pontificio, di Buoso eletto aretino, di Filippo cameriere di detto legato, del vicario generale del Vescovo di Firenze, dei dottori consulenti dell’ufficio d’inquisizione e dei loro famigliari e di molti altri chierici e laici, il povero Cecco fu fatto salire sopra in alto palco, perchè di lì ascoltasse la lettura degli atti processuali e della sentenza. Ad ogni capo d’accusa, veniva domandato a Cecco se fosse vero, ed egli rispondeva con fermezza stoica: l’ho detto, l’ho insegnato e lo credo! Parole che dovrebbero essere incise sul monumento del martire!
Pronunziata la ferale sentenza, che non turbò punto il forte pensatore, questi fu consegnato al Bargello Iacopo da Brescia, acciò il crudele giudizio fosse tosto eseguito. Dal tempio di S. Croce Cecco fu immantinente condotto fuori porta alla Croce, al luogo solito della giustizia, mostrando egli per tutto il cammino animo intrepido e costante. Giunto al luogo determinato, fu legato con una catena ad un palo, intorno al quale era gran quantità di legna. Il carnefice appiccò il fuoco e lo scienziato ascolano fu bruciato alla presenza di moltitudine infinita di popolo.
Ma il martirio del maestro non poteva appagare la giustizia, che infierì subito, e per lunghi anni dopo, contro gli scritti di lui, volendo cancellarne, se fosse stato possibile, perfino la memoria dal mondo. Nel truce proposito riuscì in parte, perchè ancora, in pieno secolo XIX, gli studiosi sono ben lungi dalla meta generosa di ricostruire il personaggio e l’opera sua.
Le due opere maggiori di Cecco, che ancora ci rimangono sono:
1. I Commentarii sulla sfera di Sacrobosco da lui composti in Bologna ed esposti in quella Università;
2. Il poema l’Acerba, che sembra composto verso il 1326 e 27, o almeno non compiuto prima di questo tempo, giacchè non si trova menzionato nella sentenza dello inquisitore di Bologna, neppure citato nei commentarii, mentrechè viene nominato e scomunicato nel processo fatale di Firenze. Fra le opere di lui, oltre l’Acerba e i Commentarii, si novera da qualcuno un’opera rara intitolata il modo di conoscere quali infirmità siano mortali o no per via delle stelle, ed anche un sottilissimo commentario sopra la logica che si vede nella libreria del serenissimo Sig. Duca d’ Urbino, citato dal Mirandola etc.
Il Padre Appiani aggiunge le Praelectiones ordinariae Astrologiae habitae Bononiae, un’epistola o trattato della qualità de’ Pianeti, che lo Stabili ne’Commentarii dice di avere indirizzato al Cancelliere della città di Bologna, le Profezie, conservate nel codice vaticano 9049, alcuni Sonetti, le Glosse al Centiloquio di Tolonieo e varie altre opere che si trovano nelle biblioteche romane e nella laurenziana.
Dell’animosità di Cecco contro Dante Alighieri non sono certo prova convincente i passi dell’Acerba, in cui l’ascolano, per ben sette volte, cita il divino poeta è mostra talora dissentire da quel grande. Provano invece una stretta relazione fra i due ed anche una certa comunanza di studi, tenuta viva per corrispondenza epistolare e poetica.
Come documenti dell’amicizia che legò il nostro ad insigni poeti dell’età sua si citano due sonetti indirizzatigli da Cino da Pistoia. Trascrivo uno di questi da una raccolta manoscritta di rime, esistente nella Casanatense, segnata d. V. 5, insieme colla risposta di maestro Cecco.
« Cecco i ti prego per virtù di quella
Ch’è de la mente tua pennello et guida
Che tu corri per me di stella ‘n stella
Del Cielo, di cui sai ciascuna rida,
« Et di’chi m’ assicura et chi mi sfida
Et qual per me è laida et qual’è bella;
Poi che rimedio la mia scampa grida,
Per qual da lor giudicio’s’ appella;
« Et se m’è buon di gire à quella petra
Ov’è fondato ‘l gran tempio di Giove;
O star lungo ‘l bel fiore o gire altrove.
« O se cessar de la tempesta tetra
Che soura ‘l genital mio terren pioue;
Dimmelo, o Ptholomeo, ch’ el vero troue.
Risposta di Cecco a Messer Cino:
« Di ciascheduna mi mostra la guida
Per qual vertu si move mia facella,
Et poi la sesta spera ogni hor m’affida
Tenendo la bilancia in man per ella:
« Il terzo cerchio ‘l cor mena et appella,
E l’ amorosa fiamma che vannida
Del dolce dire Apol ve rinovella,
Che par che sua vertu con voi divida.
« Ciascun de questi corpi per voi impetra
Salute et fama, et non ricchezze uove,
Hor non lasciate ‘l fior che frutto move.
« Pistoia per sua peste non si spetra,
Girando ‘l cielo per questi anni nove,
Dico, se la pietà ciò non rimove.
Altri sonetti furono pure diretti a Cecco da Guido Cavalcanti ed uno dal Petrarca, benchè quest’ultimo, sulla fede di codici, sia attribuito da altri a Muccio Ravennate.
Consento col Bariola che del nostro possono trovarsi altri scritti nelle biblioteche, ed auguro agli studiosi buona fortuna nelle ricerche, ora, che, per merito specialmente del Bariola, una critica seria e positiva ha cominciato a dissipare le fitte tenebre intorno alla figura «del grande Ascolan che il mondo alluma» Guglielmo Libri (Hist. des sciences math. in Ital., Paris, 1838, pag. 92, 93, 94, 191, 192, 193) parla a lungo della scienza di lui, fondandosi specialmente sull’esame dell’Acerba. Afferma che Cecco fu maestro di Dante, senza però produrre alcuna prova della sua asserzione.
Ed aggiunge che l’Acerba non è sprovvista di bellezze poetiche: e bisognerebbe studiare sotto l’aspetto scientifico questa enciclopedia (che non è punto imitazione delle enciclopedie francesi, e si allontana dal trivium e dal quatricium); si troverebbe così che per le osservazioni fisiche, in essa racchiuse, può ritenersi come l’opera scientifica più notevole del secolo. Nonostante le credenze astrologiche e magiche dello Stabili, ch’egli d’altronde aveva comuni cogli uomini più insigni dell’età sua, questo poema comprende un gran numero di fatti curiosi, che nessuno si aspetterebbe di trovarvi. Oltre alle nozioni, molto diffuse a quei tempi, sulle cause dell’ecclissi e sulla sfericità della terra, vi si riscontrano cognizioni molto progredite di metereologia. Cecco parla delle pietre del fulmine (alludendo forse alle folgoriti), degli aereoliti metallici, delle stelle cadenti, e spiega assai ragionevolmente la formazione della rugiada; indica la relazione che intercede fra i venti periodici e i moti apparenti del sole; parla dei lampi senza tuoni, ed a questo proposito prova, mediante una semplicissima osservazione, che la velocità della luce è maggiore di quella del suono, ch’egli definisce una vibrazione dell’aria.
Assicura che vi sono montagne la cui cima sorpassa la regione delle nubi; descrive l’arco baleno e paragona questo fenomeno alla rifrazione dei raggi calorifici. Lo scintillio ch’è proprio delle stelle e che l’autore considera come un’illusione; le piante fossili, che egli riferisce alle rivoluzioni del globo, onde si formarono le montagne, ed altri fatti non meno curiosi si trovano nell’Acerba. Da questo ben si vede che l’autore non doveva al caso le sue cognizioni, ma che l’osservazione e l’esperienza, da lui invocate spesso, lo avevano guidato alla scoperta di fatti e di fenomeni nuovi.
Il Libri conchiude:
» Au reste, Cecco d’ A. scoli, qui avait écrit beaucoup d’autres Ouvrages, n’était pas seulement un savant; c’ était aussi un homme de sentimens élevés, et il serait temps que les Italiens rehabilitassent, comme on le suppose généralement, une des illustres victimes de l’ inquisition.»
A dimostrare il credito in cui fu tenuta l’Acerba si fa un confronto fra l’edizioni note di questo poema e quelle della Divina Commedia nel principio della stampa. Quella, secondo il Mazzucchelli, ebbe nel XV secolo dieci edizioni, questa diecinove in Italia dal 1471 al 1500.
Senza accettare l’esagerazione del Perticari, il quale sostiene che la lingua di Cecco supera in purezza e regolarità grammaticale quella dei Fiorentini medesimi di quel secolo, deve pur riconoscersi che nell’Acerba e nelle liriche, l’ascolano adoperava, valendosi soprattutto del dialetto nativo, un linguaggio che non è più scorretto e plebeo di quello usato da molti egregi rimatori del suo tempo.
E se il Prof. Bariola ci darà presto l’edizione critica dell’Acerba, e si potrà ricostruire il piccolo canzoniere di Cecco, qualche spirito gentile avrá poi la gloria di radunare le fronde sparte per intessere a Francesco Stabili una bella corona di scienziato e di poeta.
Intanto rallegriamoci col valente pittore che in un quadro ha saputo, quasi profetando, far rivivere il maestro venerato, in mezzo ai suoi discepoli ed ammiratori di Firenze, tra i quali si raffigura già Maestro Dino, cioè il perfido Scariota che lo trascinerà al supplizio.
Tratto dalla digitalizzazione di Google Libri
Da: Sulla vita e sulle opere di Cecco d’Ascoli.
Di Giuseppe Castelli