DUE GATTE

Di Emilio Zola

Ho due gatte. L’una, Francesca, è bianca come una mattina di maggio; l’altra, Caterina, è nera come una notte d’uragano.
Francesca ha la testa rotonda e allegra d’una figlia d’Europa. I suoi grandi occhi, d’un verde pallido, occupano tutto il suo viso. Il suo naso e le sue labbra ottone sono tinte di carminio. La si direbbe una vergine innamorata del suo corpo.
Essa é grassa, affusolata, parigina fino alle punte degli artigli. Si ferma camminando, assume pose seducenti, ritirando la coda col fremito brusco d’una signora che rialza lo strascico tutti del vestito.
Caterina ha la testa appuntita e fina d’una dea egiziana. I suoi occhi gialli come lume d’oro, hanno la durezza impenetrabile delle pupille d’un idolo barbaro. Agli angoli delle sue labbra sottili ride l’eterna e muta ironia delle sfingi. Quando si accoccola sulle zampe posteriori, colla testa alta ed immobile, è una divinità di marmo nero, la gran Pacht jeratica dei templi di Tebe.
Passano ambedue le loro giornate sulla sabbia gialla del giardino. Francesca si avvoltola col ventre all’aria, tutta occupata della sua toeletta, leccandosi le zampe colla cura delicata d’una civetta, che s’imbianca le mani coll’olio di mandorla dolce. Non ha tre idee in capo e lo s’indovina dal suo folle aspetto di gran mondana.
Caterina pensa, pensa, guardando senza vedere, penetrando collo sguardo nel mondo sconosciuto degli Dei. Ella resta, per ore intere, dritta, implacabile, sorridente del suo strano sorriso di bestia sacra.
Quando accarezzo Francesca colla mano, essa arrotonda il dorso, emettendo un leggero miagolio di contentezza. È si felice quando qualcuno si occupa di lei! Alza la testa con un movimento blando e mi rende la carezza fregando il suo naso contro la mia guancia. I suoi peli fremono, la sua coda ha lente ondulazioni, e finisce col cadere il deliquio cogli occhi chiusi, facendo dolcemente le fusa.
Quando voglio accarezzare Caterina, essa evita la mia mano. Preferisce vivere solitaria, immersa nel suo sogno religioso. Ha il pudore d’una dea, cui ogni contatto umano punge ed irrita. Se arrivo a prenderla sulle ginocchia, ella si stende colla testa allungata, cogli occhi fissi, pronta a scappare d’un salto.
Le sue membra nervose, il suo corpo magro resta inerte sotto le mie dita che lo accarezzano. Essa non degna discendere alle gioie amorose d’una mortale.
È cosi che Francesca è una figlia di Parigi, lorette o marchesa, creatura leggera ed incantevole che si venderebbe per un complimento fatto alla sua veste bianca; è cosi che Caterina è una figlia di qualche città rovinata, di non so qual paese lontano, dalla parte del sole. Esse sono di due civiltà; bambola moderna l’una, idolo di una nazione morta l’altra.
Ah! se potessi leggere ne’loro occhi! Le prendo in grembo, le guardo attentamente, perchè mi confidino i loro segreti; ma non abbassano le palpebre, anzi son esse che studiano me. Io non leggo nulla nella vitrea trasparenza dei loro occhi, che si aprono come buchi senza fondo, come pozzi di pallida luce in cui nuotano scintille ardenti. E Francesca fa le fusa più teneramente, mentre gli sguardi gialli di Caterina penetrano in me come spilli di ottone.
Ultimamente, Francesca è divenuta madre. Quella cervellina ha un cuore eccellente. Essa cura con un’infinita tenerezza il piccino che le venne lasciato. Lo prende delicatamente per la pelle del collo affine di condurlo in tutti gli armadi della casa.
Caterina la guarda immersa in profonde riflessioni. Il piccino la interessa; essa assume in sua presenza atteggiamento di filoso antico, che pensa alla vita e alla morte delle creature, fabbricando in sogno tutto un sistema filosofico.
Ieri, intanto che la madre era uscita, venne ad accoccolarsi presso al piccino. Ella lo ha toccato, lo ha rivoltato colla zampa. Poi bruscamente, l’ha portato in un angolo oscuro, ove credendosi ben nascosta, si è posta davanti al piccino, cogli occhi lucenti, colla schiena fremente, come una sacerdotessa che si prepara al sacrifizio.
E credo ch’ella fosse sul punto di stritolare coi denti la testa della vittima, quando intervenni e la scacciai. Ella gettò sguardi diabolici, mentre fuggiva sottile, silenziosa, senza una protesta.
Ebbene, io amo sempre Caterina; l’amo perchè è perfida e crudele come una bestia dell’inferno. Che m’importano le grazie leggiere di Francesca, le sue smorfie deliziose, il suo portamento di ragazza folle? Tutte le nostre figlie d’Eva hanno la sua bianchezza. Ma io non ho potuto ancora trovare una sorella a Caterina, una creatura perversa e fredda, un idolo nero, che viva nel sogno eterno del male.

Émile Édouard Charles Antoine Zola

Tratto da Google Libri
L’Illustrazione popolare


Émile Édouard Charles Antoine Zola, meglio conosciuto come Émile Zola (Parigi, 2 aprile 1840 – Parigi, 29 settembre 1902), è stato uno scrittore, romanziere, giornalista, drammaturgo francese.