Racconto di Raffaele Martire (1)
I.
Maria del Pilerio
La nostra avvocata,
Si è tutta impegnata
Per questa città.
Sarà distrutta
La nostra Cosenza;
La sua clemenza
Ci ha da salvar.
Questi otto rustici, rusticissimi versetti, accozzati alla peggio dal nostro popolo, che è sempre poeta a modo suo, venivano cantati in coro da una numerosa coorte di donne il giorno 12 febbraio scorso, mentre si accompagnava passo passo per la città la statua della Madonna portata a spalle da quattro devoti (2).
Come vedete, i versetti sono proprio nulla per sè; pure, messi in bocca a quella gente che li cantava a voce alta ed armoniosa, con uno spirito di compunzione edificante, avevano la virtù di richiamare a sensi di pietà e di abbandono.
Fra le moltissime voci ond’ era composto quel coro angelico
(1) Accogliamo volentieri questo lieve racconto del giovine e signor Martire; per una certa natural sua freschezza ed evidenza nella pittura di costumi Calabresi che non isfuggirà certamente ai nostri lettori.
(2) È uso presso il popolo cosentino di celebrare ogni anno, con una festa religiosa, l’anniversario del tremuoto onde fu bersagliata la città il 12 febbiaio del 1854, quasi a ringraziarne la Madonna del Pilerio di averla miracolosamente sottratta ad una totale rovina in quel memorabile giorno, secondo la credenza del volgo.
ce n’erano di soavi e di argentine, come le voci delle Verginelle (1); ed io che mi trovavo tra la folla, cacciato lì non so come, forse spintovi anch’io da un ignoto sentimento religioso, notai la voce dolce e metallica di Rosinella, che si alzava sopra tutte, correva più lesta che le altre ne’cieli.
Questa giovinetta teneva un bambino tra le braccia che dormiva e sorrideva, cullato mollemente dal moto uniforme del passo di lei e da quella cantilena che, oltre all’essere una mistica salmodia, era una meravigliosa ninna-nanna.
Vi fu un istante in cui la folla divenne cosi compatta, addossandosi quasi gli uni sugli altri, per il restringersi della via, che il bambino picchiato e ripicchiato, si svegliò e dette un vagito « Mamma! » e « Mamma, che vuoi di Mamma? » ripeterono, carezzandolo due o tre, le più vicine, tra quelle donne, fanciulle e vecchie che, tutte li raccolte, parevano un mare fluttuante, in mezzo al quale il figliuoletto di Rosinella nuotava, ma senza paura, perchè egli era di continuo rallegrato dal sorriso della madre, che se lo stringeva al petto.
Ripresero la cantilena e il bambino si riaddormì.
II.
Rosinella aveva vent’anni, proprio l’età delle cento febbri, e veniva su, gracile, snella, piccina, piccina, onde a buon dritto si chiamava da tutti col suo diminutivo; il suo volticino era roseo come mela, e i genitori fin dai primi di della sua fanciullezza le avevono dato l’appellativo di Rossomelilla, come il giovine principe di questo nome delle nostre bizzarre romanze calabresi; i suoi capelli del colore della buccia di castagna, appunto di quelle che ella soleva corre nel podere, perchè Rosinella era nata in un podere, poco lungi da Cosenza; i suoi occhi meravigliosamente lucidi e grandi; la boccuccia come un anello (2), e quel non so che di modesto, di puro che traspariva da lei ne avrebbero fornito un tipo allo spagnuolo Murillo per dipingere un’altra madonna. Tuttochè figlia della campagna, dove si respirano aure serene, non cresceva robusta; ed io, per questo ve la presentai pic-
(1) Le Vergini è un pio ed antico stabilimento che raccoglie con operosa ed intelligente carità le fanciulle indigenti, come quelle che nascono dalla colpa.
(2) Aver la vuccuzza cumu n’aniellu, è frase tolta al nostro fecondo dialetto, il quale, molto graziosamente, a significare la picciolezza della bocca, è ricorso all’immagine dell’anello.
ciola di forme: che, se ad una fanciulla di città, malinconicamente gaia, mettete sulle guancie due rosette, invece del belletto e del minio, avrete Rosinella.
Infine, della città non aveva che la spigliata gracilità del corpo; e della campagna il colorito.
Il castello di Cosenza, ruinoso avanzo dei beati tempi feudali, del quale una parte oggi si trasformò in prigioni, sorge sopra un monte dalle cui falde orientali discende Cosenza, che poi, come una conca si riversa dall’altro lato, e, intersecata da due fiumi, si adagia sulle pittoresche colline opposte: la facciata occidentale guarda le ubertose terre del Cosentino, e in una di esse, Tenimento, tra le pareti di rustica casetta, nacque Rosinella.
Beppe e Maria, suoi genitori, l’amavano come cosa santa, e la contentavano in tutti i suoi infantili desiderii, carezzandola e baciandola mille volte al giorno.
Nella campagna, sola, senza gli svaghi onde é si varia la città, Rosinella si traeva negli anni cogli uccelli, cogli alberi, co’ fiori, con l’erbe, fortunati confidenti della sua fanciullezza. Agli uccelli dava le miche del suo pane di miglio; sugli alberi saliva agile come comoscia; e fu veduta spesso sospesa tra i rami di un mandorlo agitare lievemente con le braccia la pianta e piacersi di quell’ondeggiamento, quasi dicesse col poeta:
Io son del bosco l’ignota fanciulla
Di un arbore amica mi ho fatto la culla; (1)
e veramente pareva una colomba nel suo nido; dell’erbe nudriva i conigli, e de’fiori faceva mazzolini e intesseva ghirlande per le teste delle sue piccole Madonne. E Madonne e Sante e Santi si moltiplicavano ogni giorno su le pareti della sua chiesuola, fatta dentro un’alcova della sua camera.
Beppe era un modello di padre: buono, semplice, religioso, anzi superstizioso, a tal punto, da credere con la stessa sincerità ai diavoli, come ai santi. Maria era l’ombra di Beppe; pensava come lui, sentiva come lui, e non si era mai avvisata di contraddirlo.
Quando la fanciulla al mattino, mentre ancora le aleggiava sulla fronte un sogno interrotto, tepida e giuliva, esciva per corre, di estate, le frutta, Beppe e Maria co’gomiti sul davanzale della finestra, ascoltavano attenti i suoi canti che andavano confusi co’gorgheggi dell’usignolo.
(1) Biagio Miraglia, da Strongoli.
Nelle domeniche, allorchè si scendeva in città per la messa al Sacramentello (era il solo giorno che la fanciulla metteva il piede fuori di casa) Beppe e Maria se la cacciavano in mezzo e si compiacevano di lei, e si pavoneggiavano.
L’orgoglio de’padri per una perla di figlia, è come l’orgoglio dei re per la corona; ma Beppe e Maria non avrebbero data la loro fanciulla per una corona.
Beppe sapeva leggere, ma capiva poco, tanto poco che nulla, perchè ne’suoi dì lo scolare era un pappagallo, come ne’nostri è un dottore; ed egli, mal suo grado, aveva ritenuto delle innocenti qualità del pappagallo; nė, del resto (è bene dir l’una e l’altra) egli era stato un assiduo alunno: tuttavia, per la intelligenza dei suoi due libri, i soli ch’ei leggesse e che tutti i coloni delle terre limitrofe a Cosenza leggessero, avrebbe sfidato chichessia: il Guerin Meschino e i Reali di Francia. Se oggi ancora chiedeste loro che contenessero que’ libri, vi reciterebbero fil per filo le gesta cavalleresche de’famosi paladini.
Ogni volta che Beppe si recava fra mani gli scartafacci sdruciti, laceri, unti e bisunti, di che aveva fregiato gli ammuffiti scaffali di uno stipetto, Rosinella rideva.
– Perchè ridi, briccona ?
– Io rido sempre babbo quando tu leggi: sgangheri la bocca e dalle tue labbra esce un miau! miau! delizioso come quello del mio buon gatto.
Rosinella veniva su negli anni come il bottone di una rosa, ed ogni giorno che scorreva di quella sua spensierata infanzia, Il fiore della vita metteva una nuova foglia, su cui tessevano i loro fragili ricami i sogni d’oro.
Oh se l’aveste veduta! Le sue labbra rosee spiravano un profumo verginale; la voce, sempre dolce ed insinuante, l’ascoltavate come una musica; nè meno ammirevole era la campagnuola nei suoi passatempi: la chiesuola di proporzioni minime, i nidi delle passerette che soleva governare con la sollecitudine seria di una madre, le bambole di carta-pesta, la comare, la sposina, la donnetta galante, il brigante, ognuno addobbato dalla sua sagacia nella foggia migliore con gli avanzi delle stoffe che le regalava la mamma. Tutte queste cose le davano da fare, ed era curioso il vedere la serietà che metteva Rossomelilla nelle sue fanciullaggini. Il dono di un briciolo di merinos per la gonna della sposina era una festa, una felicità da angioli.
Così passavano per Rosinella gli anni a fila di oro, quando dalla finestretta della stanza di una fanciulla esce ogni mattina, sull’alba, una schiera di sogni, sogni che le hanno popolato la fantasia e che ritornano sul calar della sera; e, in quegli anni, se Beppe e Maria si sentivano nell’allegrezza del paradiso, confessandosi ingenuamente l’un l’altro la loro beatitudine, Beppe diceva:
– Dio ci ha mandato uno dei suoi angeli nella nostra Rossomelilla; e Maria:
– Questo credo pur’io: ma che abbiam noi fatto di buono su questa terra per meritare tanta grazia?
– E che so io ?! Chi ci vede nella mente di Dio? Vorrà dire che non siamo cattivi; altrimenti il Signore (e scopriva il capo) non ci avrebbe mandato Rossomelilla.
– Davvero, così dev’essere.
III.
Quando dall’interno della città di Cosenza, salite verso il Castello, vi si presenta un quartiere che è quasi staccato dal rimanente del paese e che si chiama Portapiana: l’ultima fabbrica dell’ala sinistra è una chiesetta, il Sacramentello, la quale cape appena un venti persone o poco più.
Or fanno quindici o sedici anni che questa chiesetta fu restaurata con le elemosine che un divoto popolano, in odore di santità, raccolse dalla pietà dei cittadini, ed ogni anno, il 3 di maggio, vi si celebra una festicciola religiosa che vien detta la festa dello Ecce Homo.
Questo paese va in sollucchero per le feste e le cerimonie, religiose, e quando ne ricorre qualcuna (il che avviene spessissimo) è una generale esultanza.
Il 3 di maggio del 1865, mentre a Firenze si facevano gli apparecchi per il sesto centenario di Dante, Portapiana non capiva in sè dalla gioia, perchè ricorreva il dì dell’Ecce Homo nel Sacramentello.
Tamburi e grancasse nel breve larghetto della chiesa assordavano il cielo, e una nidiata di monelli con salti e capriole aumentava il frastuono e la confusione prodotta da quella razza di strumenti a straccia-orecchi. Vi si ballava la tarantella dalle fanciulle e dai villici accorsi; vi si vendeva dell’acquavite e del rhum pei beoni; dei ginetli (biscottelli) e taralli per i bimbi; de’fiori a mazzetti per gl’innamorati: infine vi era tutto il corredo delle feste che si celebrano in questi paesi,
Al mattino la campanella annunzia che hanno principio le messe, e dieci o dodici di quella eccellente semente di frati e di preti, ve le snocciolano alla lesta, intascando il due-carlini (1), mentre il popolo, composto per la più parte di coloni dei circostanti poderi, canta, grida, schiamazza, urla, fa una casa del diavolo.
Una fanciulla, la nostra amabile Rosinella, condotta da’suoi genitori s’indirizzava pure in quel mattino alla chiesetta per udirvi la messa; ma ella muoveva lenta; pria di porre il piede sul sacro limitare, Beppe, tirata a sè la figlia, appressolla al banco dell’acquavitaio per darle a bere, e la fanciulla rifiutandosi, e stando di mala voglia, Beppe le domandò:
– Ohe! Rossomelilla, tu non sei tu stamattina. Ti hanno fatto qualche magaria (stregoneria), e debbo dire alla comare perchè ti sfascini.
– È affascinata (ammaliata), soggiungeva con una cert’aria da credenzona, Maria; povera figlia! Eh, eh, bisogna che non esca più di casa perchè io ci credo a la iettatura, (2) e qui, in Portapiana non ci è la più bella gente del mondo, te lo dico io: e mi anno guardato Rossomelilla con tanto d’occhi; pareva proprio che volessero mangiarla; ed io lesta a far le corna (3). A proposito, hai la crocetta di sale addosso con l’abitello, quello regalatoci da Frate Antonio? (4).
– Ho la crocetta, ho l’abitello, ho tutto, rispondeva la fanciulla con aria mesta e sbozzando sulle labbra un lieve sorriso.
Perchè Rosinella era malinconica?
Non già che si mostrasse meno carezzevole alle sollecitudini materne, o che facesse mal viso ai complimenti del padre quella mattina: ma che so io! Rosinella sentiva di avere qualche cosa che la sottraeva al riso naturale e alla abituale giocondezza, e quel giorno trovava una predilezione a camminare a capo chino, quasi ne sentisse un bisogno.
(1) Il carlino è l’antica moneta del Napolitano e corrisponde a un 43 centesimi.
(2) Iettatore, presso la nostra genterella, è chi col fascino delle pupille ha la singolare virtù di abbattervi e di ammaliarvi.
Comunemente si crede iettatore chi abbia le sopracciglia congiunte, ed il volgo se de guarda. (!)
(3) Si fanno le corna per scongiurare e impedire l’azione della iettatura, e quest’atto consiste nel tener tesi per un pezzo l’indice ed il mignolo, mentre le altre dita stanno chiuse. Le sfascinatrici, che per lo più sono vecchiaccie, hanno la formola dello sfascino, che è tutta di un gergo inintelligibile. Quando esercitano quest’atto, grosse lagrime spremono dagli occhi (pur troppo bugiarde lagrime!;; il che per i credenzoni è certo segno che l’affascino esisteva. Tale è il popolo calabrese!
(4) La crocetta di sale, o, in generale, un pezzo di sale, è un preservativo (bizzarro, invero!) contro la jettatura. Si crede che chi ne sia fornito vada immune da stregonerie. L’abitello è un segno di divozione che consiste in un sacchetto di seta od altro, in cui sono raccolte reliquie di santi, figurine, madonne ec. ec.
Se la vedeste anche ora, com’è bella Rosinella vestita delle robuccie di festa! Porta una gonnella di seta rossa a brevi piegoline, nel fondo della quale, proprio fin sui calcagni, è una striscia di seta verde, larga un tre dita; una gorgieretta di lino ricamata che lascia scorgere cinque o sei fila di coralli; un farsetto verde aggiustato alla vita, e una pezzuola di mussolina sul capo, la quale lascia cadere un lembo acuto, intarsiato di varii bizzarri lavori ad ago, sulle spalle.
I capelli divisi nel mezzo della fronte, si perdono, tesoro non visto, sotto la mussolina; senonchè due aluccie castagne scendono fin sulle ciglia, e poscia si riversano dietro le orecchie, egualmente sepolte dallo zendado. Quel ciglio sottile e leggermente curvo, ombreggia la palpebra diafana e vellutata, e sotto di essa nuota nella sua luce la simpatica pupilla della fanciulla.
Si entrò nel Sagramentello. Tonnuccio, il restauratore della chiesetta, assisteva il prete in cotta pronto alla messa. Tonnuccio è brutto, gobbo, gialliccio, ernioso, e lo diresti discendente in linea retta del Quasimodo di Notre Dame de Paris: egli inchioda sempre gli occhi sul suolo, e li eleva quando cerca il cielo o i ragnateli della volta, nella preghiera.
Vi erano otto o dieci donne, e il resto uomini; parte in ginocchio e parte sugli scanni. Beppe e Maria seppero farsi strada e collocaronsi presso l’altarino; Rosinella meno esperta, restò un pochetto discosta da loro, e come s’ebbe per cinque o sei volte fatto il segno della croce, s’ inginocchiò, la colombella! Dopo un pezzo di tacite preghiere, sollevò gli sguardi e li girò attorno desiosi e sublimi; e scorse nello svago innocente un giovine bello, dai capelli ondeggianti e dalle forme gentili, ed alto; egli si compiaceva dell’inamidato petto della camicia, e della spilla di corallo, e de’ bottoni stralucenti che fregiavano la sua giubba di festa.
Egli andava per la prima volta alla messa in quella chiesetta. Abitava il Vallo, fertilissima ed estesa pianura che si allontana per molte miglia dal paese, e si portava in Portapiana solo nelle domeniche per visitare una sua vecchia zia.
La fanciulla appena scontro i suoi occhi con quelli del giovine che vedeva la prima volta, avverti un tremito alle ginocchia e qualche cosa nel profondo del suo cuoricino, come di un palpito; ma non vi badò più che tanto. Procurò di tenere le pupille conficcate sul suolo; ma no, chè senza volere, li rialzava a mezza palpebra quasi, come chi, conscia di sua reità, attendendo il rimproccio, guarda furtiva, e li posava involontariamente sul fulvo capo del giovine.
Di bel nuovo si sforzava di tenerli a terra, dove cercava e ricercava invano un oggetto che li distraesse, e di nuovo senza saper come e perchè, li risollevava al suo vicino. La povera colombella si vide disperata contro quella ignota forza e guardo sua madre, tenendo fisi, fisi gli occhi stralucenti su di lei, con tenerezza e smarrimento, come in un rifugio, come in una stella di salute, implorando quasi con la supplichevole pupilla, pietà, protezione dalla madre contro quel non so che di profondamente misterioso che cominciava a farsi strada nel suo cuoricino. Ella non rimuoveva più gli occhi da Maria che, avvistasi di quei malinconici sguardi, le sorrise, mormorando: Ti farò sfascinare presto.
Rosinella provò un conforto immenso a quel sorriso; non si stimò più sola, perchè, per un istante, la fanciulla ebbe paura: paura? e di che? di abbandono? Non sapeva dirlo; tuttavia la sua guancia pur dianzi rosea e sentimentale, era diventata di scarlatto; e gli occhi che aveva tenuti per un pezzo chiusi onde scongiurare il suomalessere, nuotavano nelle orbite, improvvisamente pregni di nuova luce. Quell’indicibile turbamento l’avea stanca, scema di forze, e, quando provossi a pregare, non sapeva più la formola della preghiera o non sapeva più dirla.
Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il nome tuo, fa che venga …e stette la poverina, perchè le parole non venivano. Guardò il cielo, il crocifisso, le immagini, il sole che irradiava della sua luce quell’augusto tempietto; poscia portò gli occhi sopra lo storpio Tonnuccio; ma non l’avesse mai fatto, perchè da lui passarono rapidamente sullo sconosciuto dai lunghi capelli: e lo guardò.
Nel primo incrociarsi degli occhi di Rosinella con quelli del giovine, la campanella sita sulla porta del tempietto, e che poteva suonare mercè una corda tirata da basso, avea dato sei o sette rintocchi, ma vibrati e solenni, come un allarme, un annunzio, un segno. Chi ha suonato la campanella? si dicevano l’un l’altro que’ contadini: e chi l’ha suonata? si rispondeva interrogando: ma quando la messa fini, un grazioso fanciulletto sporse il viso dalla porticina della sagrestia e si annunziò ridendo per il colpevole! Forse, senza volere, quel biricchino aveva partecipato al cielo il principio dell’innamoramento di Rosinella; come quel malessere, quell’insolito abbandono di malinconia che pur dianzi l’assalse, n’erano stati, i messaggieri.
Ma se la fanciulla, nell’atto che vide il giovine, si era intesa quella tempesta nell’anima, che dire di lui? Appena terminata la messa, egli usci; pigliò la via che conduce a S. Maria, traversò S. Maria; andò a Porta di Ferro, troversò Porta di Ferro; andò oltre, e ancora e sempre, lontan lontano, in fino a sera, chè tutto il mondo, dall’allegrezza, gli pareva suo; ma, nel rifare la stessa strada, tornando a casa, il giovine Pietro muoveva lento; la tanta allegrezza gli si era mutata in melanconia profonda.
Dormì la notte Rosinella? Se il lettore è stato qualche volta innamorato (il che è probabilissimo) saprà dire se dormì. – Ella incrociò le bianche manine sul petto; cacciò il capo sotto le coltri; si strinse nel corpicino; chiuse le palpebre e volle dimenticare che cosa? Quell’immagine. Aveva apprese varie canzoni del dialetto a mente; le recitò tra sé, le mormorò tra le labbra: fu inutile, quella figura trovava modo di entrare in ciascuno dei suoi rispetti, come se ella li avesse allora improvvisati.
Quando fu giorno, balzò da letto: sua madre dormiva; ella si vestì in fretta in fretta, corse alla finestra, l’apri. Una striscia di bianco, annunziatrice dell’alba, si stendeva come nitida fascia di argento sulle cime degli alti monti silani. Al rumore prodotto nell’aprire della finestretta, Maria si destò: Vuoi forse dell’acqua per bere, Rossomelilla ? chiese la madre, mezzo sonnacchiosa.
No, mamma, cercavo il mazzettino di viole per odorarvi, perchè mi sento non so che cosa stamattina; non ho preso sonno, ho il capo giro, il cuore mi trema peggio che ieri, quando andammo a messa, e carezzava, stringeva, baciava e ribaciava la madre! Tutto quel dì e i venturi, gli augelli non ebbero governo nei loro nidi, le bambole di carta-pesta (Rosinella, sebbene grandetta, non si divideva mai da’ suoi giocattoli) giacquero e la polvere cominciò a far casa su loro. Anche il mandorlo fu deserto, e l’usignolo non udi più, nell’aurora, la sua compagna; la chiesuola, lasciata intatta, dormiva anch’essa, e i santi di che era piena quell’alcova avevano calato il broncio. I fiori della corona di S. Antonio appassirono e caddero, come pure quelli delle ghirlande intessute alle Madonnine! Tutte queste cose insieme, augelli, bambole, santi parevano cercare ansiosi la Rosinella per chiederle conto dell’improvviso abbandono.
Se Rosinella correva mille volte all’ora nel seno dell’affettuosa madre, ora le si appressa più riverente, un cotal po’ peritosa, e con gli occhi fissi in un punto che non è la genitrice, non gli augelli, non il cielo, non il sole, ma lui, quel lui che non conosce e pure ama alla follia.
V.
Sul conto di Pietro si dicevano tante cose: lo si chiamava fuggifatica, ubbriacone, bestemmiatore Fra l’altro si diceva che le sere all’ora tarda s’era visto che traversava la via del Carmine, ubbriaco fradicio da non reggersi sulle gambe e che attaccava sagrati a tutta gola.
Ciò in parte era vero, perchè Pietro rimasto senza parenti fin dalla sua prima fanciullezza s’ ebbe a compagna una cattiva gente che gli si era messa subito attorno, laonde il disgraziato si ruppe al vizio e crebbe nemico all’onorato lavoro delle proprie braccia Inoltre, qualche po’ di sostanza venutagli dalla morte de’suoi, contribui a sciuparlo; ma in ciò che si buccinava di lui ci era dell’esagerato assai, perchè Pietro aveva un bel cuore, buontempone sì, ma natura aperta e generosa. Trascinato a quelle riprovevoli abitudini, più volte aveva fatto forza sopra sé medesimo, combattimento eroico tra l’uomo buono e il tristo, ma non seppe trovare la virtù bastevole per liberarsene. Aveva uopo di pace, e credeva trovarla nella religione, quale il popolino l’intende; cioè, nell’assiduità alle feste, alle processioni, alle messe; e dalla chiesa il primo passo era sempre rivolto alla taverna.
Ma, dopo aver vista Rossomelilla, « com’è bella, aveva egli gridato: io me la beverei per gli occhi, io sento già qualche cosa che mi lacera l’anima e mi dice: Sposala, sposala, te la bevi in un sorso d’acqua quella bellezza, quell’angelo, quella figlia di Dio! Oh! mia fanciulla, mio sole, mia vita, mia stella matutina, mia lampada d’oro, se tu sapessi …! Oh! io ti amo, ti amo come mia madre, e se tu volessi il mio cuore dentro una coppa d’argento, io mi spaccherei il petto, me lo strapperei e ti direi: prendi, bellezza, grandezza mia, esso è tuo, luce di sole quando splende; luce di luna quando tramonta! » Poi, dopo un pezzo che era stato soprapensiero, ripigliava: « oh gioia mia, colonna della mia vita, tu non mi ami, e sono infelice, sventurato son io . . . »
Un bel mattino, a capo basso, pensoso e preccupato, traversò Portapiana, svolto a destra, fece lestamente la viuzza rapida e scoscesa detta della Cava, e si portò nel podere di Michele, vecchio colono, pieno di buon senso e di esperienza, il quale sapeva dare al bisogno savi suggerimenti.
Dopo qualche tempo, egli ne usciva con la faccia più serena, ripetendo tra sé e sè queste parole: Lavoro, lavoro, col lavoro potrai esser buono, accetto e ben visto da tutti: il soldo che ti frutterà la zappata che avrai data nelle zolle dell’altrui podere, sarà sudore del tuo fronte, e tu vivrai libero e sciolto, senz’essere a peso di nessuno: quando avrai fatto qualche passo per questa via, allora si vedrà se sarà il caso di pigliar moglie.
Ed ecco lo scoglio della vita, soggiungeva pronto il giovane a sè stesso, è si faceva scuro nel viso: come acconciarmi alla fatica in tanto abbandono ? Qui, in Cosenza, in questo maledetto paese, che Dio possa fulminare nella sua ira, nessuno può più vedermi, e son certo che non troverò nemmeno un cane che mi dica: ecco un pezzo di terra, lavora.
Mentre Pietro faceva questo soliloquio, scendeva pian pianino l’erta per la quale si andava alla casa di Michele.
Il sole si era già fatto alto ed insinuandosi attraverso i verdeggianti ulivi dei Costi, proprio a’ piè del castello, rompeva l’ombra sotto cui Pietro camminava. Si sentiva il soave garrito della passeretta fra’ cespugli e su le ginestre, il gorgheggio del cardellino tra le foglie dell’ulivo e del fico. Pietro per andarsene verso le terre ove egli abitava, aveva a sua scelta due vie; l’una quella per d’onde era venuto, l’altra per il fiume Busento, ma preferì quest’ultima perchè gli avrebbe dato l’agio di passare presso la casa di Rosinella: e quando fu sotto l’ameno è delizioso poggio che fa parte del Tenimento, e che si chiama il Cozzo, egli alzó gli occhi e vide la sua innamorata.
Sopra quel poggio ci erano cespi di rose e viole; e la fanciulla ne avea colte tante da empirne il grembiule. Quando la montanina lo vide, non potè reprimere un moto di meraviglia e di stupore, e si lasciò cadere quel nembo di fiori dal grembo. Pietro col capo all’insù era rimasto inchiodato.
Ma corriamo un poco.
Dal fortunato giorno della festa religiosa, il 3 maggio, a quel giorno, n’erano passati tanti, e Pietro l’aveva riveduta, anzi, anzi (zitti, chè ci potrebbe sentir Beppe) le aveva parlato. L’amore è un gran pedagogo, istruisce senza libri, senza sferza, senza i tanti apparecchi onde è ingomberata la scuola, e Rosinella e Pietro, ciascuno nel suo segreto, avevano tratto grandi vantaggi dalle tacite lezioni del dio d’amore. Nondimeno alla prima rimasero storditi.
L’una dall’alto, l’altro dal basso, si guardavano, anzi si contemplavano.
Quell’ameno poggetto, coronato di ogni ragione di fiori, faceva spiccare vieppiù la figura della fanciulla, che si era appoggiata pensosamente ad un albero.
Pietro, il bruno Pietro da’capelli scarmigliati, folti, negletti, dall’occhio e dalle parole di fuoco, come gli orientali, ruppe primo il silenzio:
– Rosinella, lampada d’oro mia, dov’è tuo padre?.
– A Cosenza, rispose fatta di brace nel volto.
– E Maria?
– Nella vigna.
– E tu, fiore in mezzo a’ fiori, giglio tra’ gigli, stella fra le stelle, che fai tu qui?
– Raccolgo rose e viole per la festa di mezzo-agosto, e spiccò un sorriso.
– Rosinella, e Pietro pronunzió questo nome con grande malinconia, speravi tu di trovare il cardo e la spina là dove non germogliano che rose? Io sono il cardo, fanciulla ardente, perla marina, io sono la spina e tu sei la rosa! Discacciami, discacciami, ed io andrò a precipitarmi da quella rupe, come si dice di Melillo nella romanza, e, rotolando di burrone in burrone, dirò: Rosinella, colonna mia, stella che non fa scuro, quando nasce, il sole, tu mi scacciasti ed io muoio.
– Parti … parti . . . mormorò la fanciulla commossa.
– Partire poi che ti ho vista? Quando ci è la luna ci sono le stelle, e quando ci è Rosinella, Pietro non si allontana.
– Parti, bello mio, mamma ci sgriderebbe, replicò con forza.
– Bello mio! Oh come è dolce, com’è dolce, Rossomelilla, dolce più che succo di viola, pronunziato dal tuo labbro, scintillante come rubino, ardente come vulcano, soave come una canzone, puro come l’acqua che esce dalla fontana!
– Pietro, va, va, allontanati; hai indugiato a bastanza, bellezza mia.
– Quando tu preghi e piangi, escono perle dagli occhi tuoi che si cangiano in fiori, regina da’ sette troni, mia; dammi un giacinto.
– Oh ma Dio mio! Madonna santa mia! (e la fanciulla, preso dal grembo un fiore, glielo lanciò).
Quel fiore restò sospeso sopra un ramo di ginestra; Rosinella sorrise; Pietro si provò di raccoglierlo, ma fu impossibile. Allora la fanciulla ne buttò un secondo che andò a cadergli tra le mani.
– Grazie, grazie, Rosinella, fanciulla dagli occhi sereni come le stelle, luccicanti come una pietra preziosa.
– Mo’, addio, Pietro, me ne vado . . .
– E nulla più mi lasci?
– Che vorresti ancora?
– Il core, colombella d’oro, mia!
– Che l’ho io forse ancora?
E la fanciulla s’involò rapidamente con trilli di gioia.
VI.
Tanto va la secchia al pozzo, che alfin vi perde il manico, dice un adagio. Chi troppo tira, la spezza, suona un altro. E così fu dei due campagnuoli innamorati. Rosinella co’ suoi sogni d’amore e Pietro con le sue passeggiatine campestri, che se avevano un lato vulnerabile, era certo quello della frequenza, dettero da pensare a Beppe e Maria, i quali poi, sia detto a loro onore e gloria, sebbene un po’grossi, avevano buono odorato, e seppero avvedersi che gatta ci covava che i due birbi, com’essi li dicevano, s’erano innamorati.
Davvero, davvero, davvero, soleva dire Maria, dopo i discorsetti tenuti sul proposito, mala me, non ci avevo pensato niente! Quanto a Beppe si riserbava per la grande occasione da lui preveduta; e l’occasione non tardò a venire. Un bel giorno Pietro gli piombò addosso, quando egli sapeva che nè la fanciulla, nè la Maria erano in casa.
Il primo atto di Beppe fu mostrar grande meraviglia; quindi egli si fece dire da Pietro l’oggetto che già supponeva qual fosse) della sua visita, ascoltando in silenzio e dondolando una gamba messa a cavalcioni sull’altra; poi, siccome non sapeva infuriarsi, disse calmo calmo che non intendeva maritare sua figlia per allora; che, se in appresso si fosse deciso, e per di più la fanciulla avesse amato passare a nozze, egli non l’avrebbe certo data a lui, per la mala fama che il paese gli avea data; al che aggiunse che gli parlava con schiettezza, perchè il suo costume era tale.
Se piacque a Pietro la maniera oratoria onde il lettore del Guerin Meschino e de’ Reali di Francia, espresse le sue idee, certo non gli tornò gradevole il contenuto. Senza dir parola e chinando un pochino il capo in atto di saluto, si partì con la tempesta nell’anima; ma egli ebbe dopo qualche giorno per via di Michele la consolazione d’apprendere che Beppe avrebbe consentito e di buona voglia, quando egli (Pietro) fosse divenuto un laborioso ed onesto giovine.
A dichiarare quel mutamento improvviso di Beppe, convien rammentare ch’egli avea core di padre.
Un giorno la Maria, accanto alla sua creatura, era uscita in questo lamento: mala me, una rosa damaschina ha perduto il colore per un aspro cardo. Oh amore, amore, brutto demonio, quale pessima sementa non sei tu! tu che porti la ruina nelle case. Rossomelilla del core mio, t’hanno piagata e t’hanno ammazzata! Rossomelilla, senti un po’, gioia mia, se io ti dicessi: sposa Pietro, tu lo sposeresti, n’è vero?
La fanciulla per tutta risposta proruppe in singhiozzi e cominciò a piangere.
– É perchè mo’ questo pianto? esclamò Maria tra stizzita e commossa. Rossomelilla, Rossomelilla, sole di mamma, paradiso mio, tu non sei più quella! e stringendole la testa nel seno restava pensosa e sfiduciata.
Rosinella era divenuta tutta fredda e tremava come canna, onde Maria il cui primo pensiero era di sgridarla, presa la pezzuola, le terse le lagrime. Poco dopo entrò Beppe:
– Che cos’ ha la Rosinella del core mio?
– Nulla, nulla, e Maria cercava di far segni con gli occhi al marito perchè capisse il motivo del pianto.
Beppe non credeva che l’amore fosse così potente e diceva: Ma perchè mai ci siamo amati senza piangere con la Maria?
Ma, egli si ricordò ad un tratto di Fioravante, di Rizzieri, Buovo d’Antona, e de’ loro strepitosi amori cavallereschi, e diede ragione a Rossomelilla.
Ma le tenerezze della madre e del padre non valsero; Rosinella ammalò.
Pensate ora al dolore di Beppe e Maria Esso cerco prontamente sfogo ne’soliti voti a S. Francesco, a S. Anna, alla Vergine, ad ogni fantoccio vestito da santo; e que poveri diavoli erano già costretti a gemere sotto un pesante fardello di orecchini, anella, coralli et similia; anzi S. Anna avea piegato addirittura l’arco delle spalle, come un uncino, e parea proprio dicesse: Pietà, io non ne posso più!
Si costuma pure legare il corpo del santo con funicelle, strette strette; e questo bizzarro voto era toccato a S. Antonio, che mi avea tutto l’aspetto di un reo con quelle corde attorno alla smilza personcina. Il porco non si lega; solamente se S. Antonio concede la grazia, se ne compra uno al mercato, si fa impinguare con ogni sorta di cibi, e quando viene il mese di Gennaio si uccide e della carne se ne imbandiscono pranzi ogni dì, fin che dura, dagli aggraziati.
Tra i brindisi poi dell’allegra brigata, che mesce senza riguardi, non è raro sentirne del genere del seguente:
Chi vin non beve, lo pigli il demonio
Brindisi faccio a Sant Antonio;
ed altri, della scuola di Epicuro, soggiunge sotto voce:
Alla faccia di Sant’ Antonio!
Ma le digressioni non so se piacciano; quindi tiro via. Per tutta la casetta era un via vai, una confusione, un diavoleto. Maria non voleva dar mano a nulla finchè non fosse uscita di malattia la sua creatura. Beppe, lo stesso e gironzolava per la camera leggiucchiando or qua or là per la millesima volta, senza più capirlo, il suo Meschino.
Stavano taciturni, accigliati, compressi come sotto di un incubo. Maria recitava preci da mane a sera, accendeva lampade, appiccicava sempre nuove Madonne ai muri; Beppe leggeva orazioni, preghiere, novene e snocciolava rosarii, si che era un vero all’arme dato a’ beati del paradiso, e il paradiso, cred’io, se ne mise in rivoluzione.
Si diceva da que’ buoni contadini che la notte Rosinella, in sogno, parlava e diceva: piglia tutte le rose che ho colto e fanne un giardino per ci dormire il core mio e il core tuo! Piglia acqua a la fontana e rinfrescami l’anima, ch’ io mi sento morire: qua, qua, nel mio petto ci è il paradiso ed io lo guardo. Com’è bello il paradiso! E tu se’ il sole che lo illumini, perché senza di te, nel mio paradiso sarebbe scuro, scuro, scuro, come una sera che si spense il lume nella mia stanza ed ero sola! Ma ora io non sono più sola ! Mamma mi dice che nel paradiso gli angeli cantano sempre, e tu pure sarai come un angelo che canterà sempre nel mio core.
Nella mia anima ci ho stelle di argento e come tremolano! Io ho domandato a mamma Maria: chi l’ha fatte le stelle? Dio: e a Dio chi l’ha fatto? Mamma non rispondeva ed io: Forse si è fatto solo? Mamma rideva. Com’è bello il sole! Chi l’ha fatto? Dio. E sempre lui; pensa, o mamma, come ha da essere ricco Dio che fa tante cose! E finalmente taceva.
Dopo una buona ora, s’intesero questi versi che la fanciulla mormorava, sempre dormendo, con una mano sotto la guancia e l’altra sul petto:
La luna è ianca e vua brunietta siti
Illa l’argientu, e vua l’oru portati,
La luna ammanca e vua sempri crisciti,
La luna eccrissa (ecclissa) e vua nun eccrissati,
La luna nun ha vampi e vua l’aviti,
Illa perdi la luci e vua la dati,
E si bella la luna e la vinciti,
Chiù (più) bella della luna vi chiamati. (1)
– E sempre i sogni ci si hanno da ficcar dentro, e co’ sogni le poesiacce e il brutto scomunicato di Pietro, esclamava Maria. Poi, volta al marito: Che gran disgrazia è piovuta sulla casa nostra! Lo dicevo io che ce l’hanno iettata: non fossimo mai andati il 3 maggio al Sacramentello. Eh, mio caro, gran brutta cosa ch’è la iettatura, lo diceva sempre mia nonna, e sta a vedere che da mo’ innanzi non staremo più felici in casa nostra.
– E sempre i sogni ci si hanno da ficcar dentro, e co’ sogni le poesiacce e il brutto scomunicato di Pietro, esclamava Maria. Poi, volta al marito: Che gran disgrazia è piovuta sulla casa nostra! Lo dicevo io che ce l’hanno iettata: non fossimo mai andati il 3 maggio al Sacramentello. Eh, mio caro, gran brutta cosa ch’è la iettatura, lo diceva sempre mia nonna, e sta a vedere che da mo’ innanzi non staremo più felici in casa nostra.
– Hai ragione, hai ragione, mormorava Beppe con faccia pensosa e rannuvolata. Ma non l’hai tu fatta sfascinare?
– E sì! Bello mio, da quando in quà hai dimenticato che se l’affascino è potente, gli è come pestar l’acqua al mortaio, e quel che ha da venire viene?
– Oh non fossimo andati mai al Sacramentello!
– Si, mio caro, non ci fossimo andati mai! E i buoni villici rimanevano in attitudine pensosa e gli occhi al cielo.
Ma o fosse che quella dozzina di santi si movesse per quella volta a pietà, o perchè, ridotti al verde in paradiso, avessero uopo di tutti que’voti ond’erano carichi per cangiarli in tanta cartamoneta e campar la vita quaggiù, o come andasse altrimenti, Rosinella a poco a poco usci di malattia, e il mattino vegnente Beppe sceso al mercato acquistò il porco.
VII.
Una domenica, era di agosto, Rosinella fu menata a messa da Beppe in S. Maria, vecchio tempio annesso all’Ospedale Militare, e mentre si assistea alle funzioni, un’amica le si calò all’orecchio e vi mormorò: Sai? Hanno carcerato il tuo Pietro!
– Carcerato? esclamó la fanciulla impallidendo, e come? e perché?
Ha fatto una lite con Nicola Lancetta, quel pessimo avanzo di galera.
– Madonna mia, Vergine Santa mia, e cadde boccone covrendosi colle mani la faccia. Rosinella piangeva.
Suo padre corse improvvissamente; la sollevò, pareva convulsa; la prese tra le braccia e le sciolse il farsetto per farla respirare più liberamente; poscia l’avvicinò all’acquasantara (pila o acquasantino) e facendo conca della mano le riversò sul volto pallidino tre o quattro manate d’acqua benedetta. Era un nuovo battesimo.
Il pover’uomo credette quell’improvviso malore conseguenza della infermità patita, e si penti di averla condotta fuori di casa.
(1) Troppo facili questi otto bellissimi versi del nostro dialetto perchè faccia mestieri di parafrasi. Occorrendo di riportarne altri in seguito non meno pregevoli di questa originale poesia calabrese, metterò tra parentesi la voce italiana equivalente, di quelle che per essere esclusivamente del vernacolo, non s’intendessero.
Per tutto il tempio era un mormorio sordo e confuso delle male lingue; pur, non poche, tra quelle donne, si levarono in soccorso della poverina.
– Presto, presto, gridava Beppe, che qualcuno vada in Portapiana a procurarmi un ciuccio (ciuco); voglio menarmela a casa la mia gioiuzza, chè, se no, qui mi muore, la meschinella; e la baciava e ribaciava.
Ma il solo Pietro avria potuto guarirla.
Ed era vero purtroppo che avean menato Pietro in prigione! ma del pari, che Pietro aveva avuto ragione di menar le mani; perchè uno schiaffo era venuto a provocarlo; ora, uno schiaffo in Calabria è fomite, a grandi vendette! E il Lancetta avea provocato Pietro solamente perchè questi non avea volato cedergli la sua carabina mentre Pietro sapea bene a qual uso volea il Lancetta adoperarla.
Certo per gettarsi in campagna; perchè egli era un avanzo di galera, un brigante di Pedace, tutto ciò che di più turpe può immaginarsi. Pazzo da catena, più volte avea compromesso il nome di onorati popolani: ci lottò Pietro e vinse, e si ebbe da tutti lodi; solo si deplorava che il Lancetta non fosse rimasto morto.
Tuttavia l’indignazione contro il Lancetta, non lo salvò dalla carcere.
– Ecco, ecco. Be’, diceva vittoriosa Maria, il bell’uomo che avea fatto proposito di cangiar vita!
– Dici bene, Marì; però quel Nicola Lancetta è un brutto malandrino. L’avrà provocato.
– Che provocato mi vai dicendo, Be’! Il lupo cangia pelo ma non cangia vizio.
– Può essere, Ma . . . Ma . . . Marì, Dio non ci vuol più bene; questo dic’io.
– E mo’ te ne vieni, carino mio? Pietro è un soggettaccio, è un soggettaccio!
– Lo sarà! Ora Dio così vuole e sia fatta la volontà sua.
Sia fatta la volontà sua. Immaginate intanto qual core fosse quello di Rosinella. Sentiva un fastidio di tutto e di tutti: non voleva prender cibo e amava più adornarsi delle sue belle robuccie come per lo innanzi. Ella però, in tanta miseria, aveva un conforto; chè il cancello della prigione di Pietro rispondeva alle parte occidentale del castello, sì che agitando i fazzoletti e facendo altri segni ella dalla finestra della casetta, egli dalla carcere si sarebbero potuti agevolmente salutare, risalutare e intrattenersi in tacito colloquio di anime.
Sia fatta la volontà sua. Immaginate intanto qual core fosse quello di Rosinella. Sentiva un fastidio di tutto e di tutti: non voleva prender cibo e amava più adornarsi delle sue belle robuccie come per lo innanzi. Ella però, in tanta miseria, aveva un conforto; chè il cancello della prigione di Pietro rispondeva alle parte occidentale del castello, sì che agitando i fazzoletti e facendo altri segni ella dalla finestra della casetta, egli dalla carcere si sarebbero potuti agevolmente salutare, risalutare e intrattenersi in tacito colloquio di anime.
Era una bella sera della piena està, e la luna, falcata, spuntava sulle ruinate muraglie del castello, battendo i raggi di argento sul volto della fanciulla addormentata nella serenità del paradiso. Vicino alla casa ci era un pantano, attorno al pantano alcuni salici, e la luna bicorne intramezzandosi fra’rami era ita a carezzare la superficie delle torbide acque, mentre un’aura leggiera come il fruscio dell’ala di un augello le increspava agitandole soavemente.
Si vedeva ancora qualche lume vagare dagli aperti vetri delle poche case di Portapiana, che s’internano tra gli ulivi di quella campagna.
Gli alberi mandavano un susurro; la sentinella che vigila allo Ospedale dava il grido d’intesa all’altra del castello, e n’era ricambiata: tranne queste voci che si riproducevano di quando in quando come rintocchi di campana, era un silenzio universale.
A un tratto si udì un canto distinto, chiaro come se fosse stato a pochi passi di lì; ma in realtà veniva dal castello, dove, un povero carcerato sfogava così il dolore dell’anima sua:
Viddi la mia furtuna mienzu mari,
Supra nu niuru (nero) scuogliu chi chiangla, (piangea)
Ju le dissi: furtuna tu chi hai,
Chi d’hai furtuna chi chiangi ppe (per) mia? (me)
Chiangiu cca (perchè) nun ti puozzu (posso) chiù aiutari,
Duvi si mpiutu (invischiato) povariellu tia. (te)
Cum’era durci (dolce) lu (il) sua lacrimari
Puru li pisci (pesci) chiangiari facia!
Quannu (quando) gioiuzza (da gioia) tu alla Ghiesa (chiesa)jisti andasti)
Cu (con) s’uocchi bielli la lampa allumasti (accendesti)
Quannu a (la) manu alla frunti ti mintisti mettesti)
Carrica (piena colma) de diamanti la cacciasti (togliesti)
Quannu supra la seggia (sedia) ti sedisti
Nu (un) jardinu (giardino) d’amuri ci lassasti, (lasciasti ivi)
E quannu de la Ghiesa ti n’escisti
N’angiulu ppe la manu ti portasti!
Rosinella non si destò; neppure la madre che le russava accanto. Il prigioniero (che era Pietro come avrete indovinato) ripetè i due ultimi versi della seconda strofa (canzuna) con voce più vibrata e metallica:
E quannu de la Ghiesia ti n’escisti,
N’angiulu ppe la manu ti purtasti :
allora sorrise la giovine dormente come si fa nel sogno;
. . . . . . . . . . un riso tremulo siccome
L’ultima stella che va dietro a’ monti! (1)
e mormorò lentamente questi due versetti, velati misteriosamente dal sonno:
Ti priegu, o Pietru, mo chi sulu stai,
Ricordati, ricordati de mia!
Che sognava ella? Probabilmente quel che sognava Pietro, stando desto, e le anime sorelle s’intesero tra loro, per la soavità del canto!
D’improvviso Rosinella si svegliò esclamando: è partito!
– Chi è partito? chiese Maria destandosi pure in quel momento.
(1) Vincenzo Padula, poeta acritano.
– Oh nulla, nulla, mamma mia, rispose Rosinella e le si strinse al collo paurosa e tremante.
– Ma . . . figlia, tu tremi?!
– Ho fatto un sogno.
E sempre sogni; che siano maledetti!
VIII.
Passò qualche tempo in questa immobilità di cose, Rosinella che sognava, Pietro che cantava, e starei per dire, rubando una frase a Vittor Hugo, che nella loro infelicità erano felici, o almeno sembravano.
In un villaggio vicino a Cosenza, Donnici superiori, ci era una zia di Rosinella, Margherita, la quale, saputo de’suoi casi, ella che andava pazza per la nipote, la chiese un mesetto a’ genitori per farla distrarre del suo amore.
Margherita aveva una bella casetta in campagna ed era ricca, sebbene non apparisse tale, come Beppe e Maria che si spacciavano per poverissimi (e ciò ad arte onde non inciampare in qualche iettatura), sicchè credette che la ragazza ci andasse di genio, ma s’appose male, perchè Rosinella non voleva a nessun patto portarvisi; però quando si vide ripresa da suo padre, che si atteggiava invano ad iracondia, fece di necessità virtù ed una mattina sopra di un asinello, come la Madonna, accompagnata da Beppe, partì pe’ Donnici.
Dal castello si vede molto tratto della strada che doveva attraversare la giovinetta, e quando costei fu tra’ castagni di que’colii pittoreschi, Pietro le volse un ultimo sguardo che fu come l’addio.
Ma espiata, la pena, sebbene indebita, egli fu messo in libertà.
Di Nicola Lancetta, il suo provocatore, si seppe con raccapriccio che avea ripresa la vita del brigante, e che anzi, unitosi col famigerato Palma, capo di una numerosa banda, scorrazzava per le terre del Rossanese, seguendo la Masnada.
Dopo dieci anni di lavori forzati, ritornato ne’ patrî lari, costui compì le vendette lasciate abbozzate, e prima vittima immolata dal suo coltello omicida, fu una giovinetta che sdegnando giustamente di amarlo, si era congiunta in nozze con altri.
Due lustri maturò quella vendetta, e dopo due lustri la compiva. (1)
Pietro tutto gioia per la ricuperata libertà, ardeva dal rivedere Rosinella e parlarle; ma come fare? Ella era in Donnici!
Questo pensiero lo attristò.
Voglio prima, disse, ritentare con Beppe se me la dà. Che difficoltà ci potrà avere ? Non gli ho detto che lavorerò con lui ? Non sarò suo figliuolo? Ma la prigione?! La lite! E che vuol dir ciò? Quanti innocenti non vanno carcerati? E quanti, onesti e buoni, non perdono le liti?
(1) È storico, come ogni parte essenziale di questo racconto.
Ed andò al Tenimento vestito da testa, col cappello a cono (cirbune) da cui scendevano i nastri di velluto (zagarelle) fermate alla felpa da una fila di madreperle rilucenti.
Un fazzoletto gli pendeva dalla tasca destra, uno dalla sinistra, e un terzo attorno al collo. Una filza di bottoni guarnivano la sua giacca; i fulvi capelli svolazzavano al vento, il manico di un coltello (sciabolotto) esciva da una tasca tutto inargentato: è un vezzo de’ nostri calabresi il portarlo a quel modo.
Niun’altra arma; pareva un bel brigante, se un brigante può pare bello.
Beppe sfornava i fichi dal forno attiguo alla casetta, e Maria seduta sur una pietra, poco discosto da lui, cuciva una camicia per Rosinella: essi non si aspettavano di certo quella visita e rimasero a occhi aperti.
– Pe’, iu sugnu cca (Be’ io sono qua). (1)
– Ennua simu cca (E noi siamo qua), ripresero ad’ una voce i coniugi.
– Chi avimu de fari? Mi vuliti fari moriri dispiratu? Sugnu jutu carciratu ppe una svintura, e Michele forsi ve l’ha dittu, e mo’ chi sugnu esciutu ppicchì mi faciti u mussu stuortu? Ju staju a la casa vostra, vua mi tiniti cumu nu figliu, iu faticu, Rusinella fatica, che vuliti chiu de mia? Dicitimi, chi vuliti? E via, ca si fuassi statu n’autru a chiss’ura, senza mi fari penjare, Rusinella forra mia.
– A vu sentari bona, prese a dire Beppe con faccia risoluta e mal garbo, senza che ti ncagni, Russumililla nun ti la vulimu dari, no, no, no, no!
– E no ppi sempri, anche si ci lu dicissi a Vergine Santa! aggiunse stizzita Maria.
Queste parole giunsero come punte di spille nel cuore del di. sgraziato Pietro che avrebbe voluto avventarsi, stringerli tra le sue mani di morsa e stritolarli; ma si ritenne. Gettò il cappello; si levò la giubba, si cacciò le mani tra le chiome foltissime e corse all’impazzata un buon tratto di via. Beppe e Maria si fecero piccini, piccini dalla paura!
– Addiu, esclamò con accento disperato Pietro e guardandoli in faccia; addiu, nun mi viditi chiu mai, mai, ma Rosinella ha da essere mia, o vulite o nun vulite; e si slanciè furioso per la via dopo di aver raccolto il cappello e la giubba.
La mattina vegnente si portava da Rosinella tutto chiuso nel suo dolore. Non era ancor spuntato il sole dalle montagne silane; eppure la giornata si annunziava caldissima.
Come vedere da solo a sola Rosinella? Era questo un altro problema nel quale la sua mente s’impelagava. Darò il solito fischio quando sarò alla Pigna di Tucci; ma no, quando sarò al Casino di Orlandi, e se è dentro la casa, affaccerà.
(1) Sono proprio queste le parole dette da Pietro alla presenza di Beppe e Maria, e mi piace riportarle nell’originale.
La fortuna gli fu propizia, e allorchè si trovò sul luogo, dette un acuto fischio; Rosinella l’udì; rattoppava una veste accanto alla finestra, balzò di gioia e quando il fischio fu ripetuto si fece alla porta. Era lui! L’amante che aveva ricuperata la libertà! Pietro scese la rapida falda di una collina, a’ pie’ della quale era la casa di Margherita, e come le fu presso:
– Rosi, parto, disse, ora che sono stato liberato, e chi sa se più . . . gioia mia!
– Parti? davvero? e mo’? divenendo mesta di allegra che era.
– Proprio mo’ e per non più vedere gli snaturati tuoi genitori. Essi mi hanno cacciato di casa loro come una birba, mentre che ero andato per parlar loro di te, bellezza mia! Avant ieri ti mandai a dire che sarei uscito; eccomi ora a te, ma solo per pochi momenti . . .
– Tu sei pazzo, Pietro: invece di ringraziare la Madonna Santissima di averti liberato! disse con voce che pareva un gemito. Oh no, non partire, ne morirei; ho pregato i santi perchè t’avessero scarcerato, e tu!.. Pietro, se parti non mi vuoi più bene.
E fisò un occhio supplichevole e pieno di lagrime sul giovine.
– Io ti amo come amo Dio, Rosinella, anzi amo più te, gioia mia; ma debbo partire perchè non sono degno della tua mano; mi guardano come cane e mi vorrebbero morto al Crati.
– Non credere alla gente; eppoi, ti amo io.
– Viola di siepe, se di amore si potesse vivere!
– E che ci manca?
– Ah Rossomelilla, ci manca il consenso di Beppe e di Maria, che non ce lo daranno mai, mai. Addio dunque, pensa a me qualche volta e prega la Vergine del Pilerio perchè mi faccia tornar salvo alle tue braccia. Vado nientemeno che ad una terra lontana, lontana, lontana, forse più lontana del cielo e delle stelle; all’America!
– America hai detto ? Ma che cosa è?… oh no, non andarci, mio angelo… Basta! tu forse ti pigli giuoco di me; e che ti ho io fatto per straziarmi cosi? Non ti ho voluto sempre bene come a mamma?
E gli si appressò, posandogli una mano sulla spalla, e un’altra sul cuore, mentre le pupille piene di luce irradiavano l’abbronzata guancia del giovane. Pietro la contemplava silenzioso.
Rosinella cacciò allora nel biondo cupo de’ suoi capelli la manina che gli aveva posata sul petto, li sconvolse, li liscio, li carezzo, vereconda e mesta. Pietro tremava e da’suoi occhi traluceva la tempesta dell’anima agitata da mille affetti.
La fanciulla gli tergeva il sudore dal fronte; poi riprese:
– Pietro, tu vaneggi.
– No che non vaneggio, riprese Pietro. Io vado in America, un altro mondo, quanto il paradiso, pieno di oro, di foreste, di tigri e di leoni!
– Dio! comprendo, esclamò atterrita Rosinella, passando una mano in fronte, come ad evocare una memoria, tu vuoi andare dove ci sono gli uomini selvaggi, che si ammazzano. Ho capito, ti vuoi fare brigante all’America!
Ma la zia Margherita ritornava e il giovine ebbe appena il tempo di svincolarsi dalle sue braccia, darle un fazzoletto per ricordo, baciarla sulle ardenti labbra e sparire.
Rosinella restò muta, agghiacciata.
Sembrò che l’anima le partisse con lui!
Quel giorno sì doloroso per ambedue era di sabato, e quando fu l’alba del dì venturo la nostra campagnola scese il letto, si vestì con massima prestezza, aperse con cautela la porta, uscì, la richiuse dietro a sè e s’involò rapidamente tra’ castagni. Dove andava la colomba?
Ma fu inutile; Pietro era partito davvero.
Partito! Oh non potevo crederlo nemmeno se me lo avesser detto gli angeli del paradiso. Ecco la grata da cui sempre mi sorrideva! Come pare deserto il castello senza di lui, e come ci è scuro in quella stanza; sembra un cimitero! Chi mi dirà se Pietro ritornerà più?
Poi cadendo in ginocchio e giungendo le mani supplici al cielo, disse:
– Madonna mia, Vergine del Pilerio, se Pietro non deve più ritornare, fammi morire, perchè almeno morirò colla speranza di rivederlo nel paradiso.
Era di fronte alla finestra della sua casa un noce; e sopra un ramo cantava un cardellino.
– Se io avessi le tue ali, mormorò la fanciulla, rivolta all’augello, se avessi le tue ali andrei proprio mo’a raggiungere l’amor mio.
Ma il cardellino seguito il suo melodioso idillio, svolazzando giulivo e festevole di frasca in frasca.
Ella riprese:
– Cardellino, imprestami quelle ali, fallo per l’amore grande che ho portato agli uccelli tuoi pari nella mia infanzia. – Oh se qui fossero il mio Giorgetto, la graziosa Stella, il Giacinto, il Rosmellino, poveri uccelli che ho abbandonati, se qui fossero, mi presterebbero le loro ali di oro; e chinava il capo in atto pensoso.
Ma il cardellino seguitò il suo melodioso idillio, saltellando giulivo e festevole di frasca in frasca. Ella continuò:
– Cardellino) udisti la mia preghiera?
Ma il cardellino era volato e spaziava nell’azzurro!
– Anch’egli mi abbandona!
Passava il tempo e la Rosina non dimenticava il suo Pietro.
Ella vicino al suo letto, teneva un S. Francesco di legno. Rosinella pigliò le poche gioie rimastele e le depose a’ piè del santo con questo voto:
– S. Francesco mio, se Pietro ritornerà salvo da quella lontana terra, ed io ti regalerò tutto ciò che vedi; ma se non torna! e dondolò il capo in atto minaccievole.
Beppe e Maria vedevano male quei voti e dicevano:
– Rossomelilla uscirà pazza!
– Pietro le ha fatto una magaria; questo ti dico; caro Beppe.
– Una magaria, dici bene, dici bene. Povera Rosinella, piange sempre!
– Sempre!
– Se tu la chiami, ella ti corre fra le braccia e singhiozza!
– Singhiozza!
– Ma avranno bene pietà di lei il Signore e la Madonna!
Il Signore e la Madonna!
Un giovine calzolaio che aveva la sua bottega nel quartiere dei Rivocati, chiese in isposa Rosinella a’genitori. Questo giovine ereditava da suo padre duecento cinquanta ducati, co’quali metteva su bottega, e la gente del quartiere visto che Antonio lavorava bene, correva da lui; sicchè non ci era settimana che egli non lucrasse netti trenta carlini.
– Trenta carlini alla settimana! quattro carlini e più al giorno! È una ricchezza da principe, diceva Maria. Beppe, orsù, a che stai cosi grullo? Afferriamo l’occasione e maritiamo Rosinella allo scarparo Io l’ho visto, è bello, ben messo di abiti, pulito. Oh che felicità non sarà per noi vivere in Cosenza, in mezzo a tanta gente, e con un calzolaio per figlio che ti guadagna quattro carlini al giorno! Afferriamo l’occasione, Beppe, che la fortuna una sola volta si affaccia, e se ci scappa, buona notte.
– Lascia che ci pensi un po’… davvero che Rosinella andrebbe collocata come una principessa.
– E una cosa fatta, saltava a dire Maria, Antonio ha una bella casa a Cosenza, e Rosinella ci starà felice.
– E un matrimonio magnifico, ma…
– Ma che? Oh! tu incominci colle tue.
– Se essa non lo vuole?
– Ah, ah, ah, mo’mi fai ridere: chiodo nuovo caccia chiodo vecchio.
– Senti, Maria.
– Di’ di’ pure, Beppe.
– Facciamo prima che Rossomelilla lo vegga.
– Sì, si.
– Penso meglio: andiamo prima da lei, se consente.
– Andiamo.
– Bada, veh! Maria; vuol esser presa colle buone.
– Lascia fare a me, e sarebbe una pazza se dicesse no.
– Eh! Chi lo sa! Solo Dio lo sa!
– Questo è vero, ma Dio non ci vorrà infelici per sempre.
E Beppe e Maria, cheti, cheti, come se andassero a consultare una Sibilla, umili e riverenti, si appressarono alla figliuola.
Ma riuscirono inutili le preghiere, le suppliche, le minacce. Rosinella, non volle consentire e la sua sola risposta era il pianto.
– E vana ogni premura; Rosinella è pazza!
– È pazza, rispondeva Maria; e si avviavano assieme a capo basso a deporre un « no » rotondo a’piedi del calzolaio, proprietario di cento cinquanta ducati.
Una mattina Antonio passò azzimato e profumato di sotto la casa; Rosinella lo vide e voltasi alla madre, con piglio severo e risoluto, esclamò:
Chi va facennu (facendo) su piru (pera) scunchiutu (maturo)
Chi ppe la terra fa lu nnamuratu?
Miegliu (meglio) si se va scava nu tavutu (fossa)
E si ce jetta (getta) cumu (come) n’ammazzatu (ammazzato).
E la madre a sgridarla.
Cosi passarono dolorosamente i mesi e gli anni; alfine, Beppe e
Maria ebbero una lettera a mezzo di Michele, e la lettera diceva così:
« Caro Bepe, cara Maria e cara Rosamelilla,
« Sono gionto in sarvazione in cotesta cità di America, ed o
« lugrato miloni a zapare e trovare zapando loro.
« Voi come stati? Aviti ancora dispiaceri con mia? Non ce navite
« perchè io venirò sobbeto e mi sposerò tua figlia, che come sta
« di salute? Non mi scrivite, che io vennirò sobbeto.
« Rosamelilla è mia, capite? Io vi faccio ricco e venirò sobbeto.
« Non scrivo a longo perchè sono sopra mare.
« Datemi la santa benedizione, salutatemi Michele e Rosamelilla,
« statevi bene e sono tuo
« Affezionato figlio
« PIETRO M’.
X.
Era il 30 di febbraio dello scorso anno 1869, giorno di sabato, ed un vapore mercantile approdava alla spiaggia di Paola.
Ventisei giovani calabresi provenienti dal Nuovo Mondo, presero terra lieti dell’essersi approssimati a’ loro paesi nativi. Cinque eran di Rogliano, e il resto de’paeselli di Spezzano Grande, Pedace, Figline, Celico, Piane, Malito, salvo un solo che era di Cosenza, e propriamente del Vallo: voi già l’avete indovinato; quest’ultimo era il nostro Pietro che ritornava nella Calabria dopo la non breve assenza di anni quattro.
Tutto questo tempo, che fece Pietro in America?
Lavoro e guadagno non soltanto il pan giornaliero, ma eziandio tanto da poter trarre con agiatezza onorata la vita. — Il Nuovo Mondo lo spogliò delle abitudini viziose portatevi da casa sua; cangiò la nativa inerzia in operosità instancabile, e fece di Pietro un galantuomo.
Rosinella l’attendeva dall’alto di una rupe cantando:
Stilla lucente ch’esci la matina
D’oru e d’argientu carricata vai,
Quannu te lievi e ti cuonzi la scrima
Li giuvanielli moriri li fai,
Assomigli la frunna de l’alivi
Che è sempri virdi e nu spampina mai.
Assomigli la rosa dommaschina
Chiù ti fai ranni e chiù bella mi pari.
Dopo un istante riprendeva:
– O tu, chi duorini a ssu liettu rosatu
Suseti ca ti cantu anima mia,
Ju fa ssu durci suonnu aggraziatu
Ma iu nu duormu no pensannu a tia,
Leva da l’ uocchi tua su suonnu amatu,
Quantu ti cantu li pensera mia,
Cca tu m’ha fattu stu cori chiagatu
Suseti e pigliatilu anima mia! –
Ad un tratto intese le festose voci d’una intera brigata, e vide e riconobbe il suo Pietro; agitò dall’alto la sua candida pezzuola e mise un grido; pochi minuti dopo ella cadeva svenuta per la gioia nelle braccia del suo innamorato.
Un mese dopo, verso le ore nove del mattino erano tutti in chiesa, e Beppe e Pietro insieme ad altri contadini, armati di schioppo e dei coltelli dal lucido manico, procedevano baldi come ad una conquista.
I promessi sposi si appressarono riverenti innanzi all’altarino, e si promisero eterna fede, e si scambiarono l’anello che suggellava in eterno il nodo dell’amore.
Compiuta la cerimonia, una pioggia di confetti inondo la chiesetta e gli sposi.
Lo storpio Sonnuccio li guardava sorridente.
Giunti alla Cara, Beppe fu il primo ad esplodere il suo fucile in aria, gridando, con gli occhi pieni di lagrime dalla contentezza: « Vivano gli sposi! » A quel primo colpo ne successe un altro, poi un altro, e poi cento.
Nastri color di rosa pendevano dai conici cappelli; fazzoletti bianchi, rossi, verdi sventolavano dalle bocche delle carabine.
Rosinella piangeva dalla tenerezza, e Maria camminava macchinalmente, tutta intesa alla contemplazione di quelle due anime beate.
Beppe faceva sgambetti come un capriolo.
Quando furono presso il Cozzo, in vista del podere di Beppe, Pietro, volto a Rosinella, disse:
Ti ricordi quando su queste ginestre restò sospesa la rosa che volevi regalarmi?
– Mi ricordo, ma poi te ne diedi un’altra; balbettò Rosinella con un sorriso tutto celeste.
Un’eletta di amici aspettava la comitiva nel Tenimento dove era imbandita una lauta e squisita mensa.
Le contadinotte suonando il tummarino e ballando la tarantella, alla vista della felice brigata, escirono dalla casetta e si fecero innanzi con allegrezza, mentre i contadini davano fiato alle ciaramelle.
E i balli incominciarono; il primo giro fu degli sposi, l’ultimo dei due vecchi; Maria pareva impazzata, Beppe peggio!
Si andò finalmente a cena. È uso de’nostri coloni in occasione di nozze, d’imbandire un agnello cucinato al forno, immolando così una vittima, e di mangiare i maccheroni cui essi danno il nome di lagane, fatti da loro medesimi con farina e uova, e accompagnati da enormi fiaschi di vino.
Si mangiò, si bevve, s’inneggiò agli sposi; quindi, quelli che potevano ancora reggersi in piedi, tornarono ai canti e ai balli. Gli sposi non furono più visti.
Io li ho tuttavia, come dissi in principio, riveduti, e posso darne notizia; la famiglia è ora cresciuta, e la vecchia Maria è beata di aver ritrovato che il bambinello ha tutte le fattezze del nonno.
E Beppe dal canto suo non finisce di dire che de’ romanzi egli non solo ne ha letti, ma anche fatti; onde gli diedi per iscarico di coscienza a leggere questa storia delle sue gesta.
Non voglio nulla per nulla, ei mi rispose, ed accettando le mie macchie d’inchiostro, ritirò dalla sua tasca un fascio di fogli venerabili che una volta aveano dovuto servire a dar l’idea d’un libro; e me li porse.
Il frontespizio era disegnato in geroglifici di Beppe, e dopo molto studio vi potei decifrare quanto segue: Questa è la storia gloriosa di Guerin Meschino, non mai più udita!
Inarcai le ciglia e, con un inchino profondo, mi portai sul cuore il sacro volume. Ora Beppe ha letto anco il mio romanzo, e mi confida in segreto che esso sarebbe perfetto quanto il Guerino, se non avesse il diletto di finire così presto; io resto invece in grande timore che il lettore non m’abbia neppure seguito fin qui per accogliere le mie scuse, se, con giovanile abbondanza, avessi per queste scene calabresi, spese imprudentemente troppe vane parole.
RAFFAELE MARTIRE.
Racconto tratto da: La rivista Europea – 1870
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