I BORSAIUOLI A VENEZIA


Mi trovava un dì nella detta gran piazza. Un poeta improvvisatore dotato di qualche spirito, e che avea numerosi uditori, fece sì che mi fermai pochi minuti ad ascoltarlo. Ben presto la scattola del tabacco sparì dalla mia saccoccia. Andai a casa assai disgustato, non tanto pel valore della scatola, ma sì per la perdita del ritratto di mia madre in essa racchiuso, a me carissimo. Nel mattino seguente raccontai dispiacente l’accadutomi al mio padrone di casa. Non disperatene del ricupero, egli mi disse. Ricorrete tosto dal messer grande, ch’è il capo della sbirraglia. Egli ne farà delle attive ricerche.
Francamente mi recai vicino alle prigioni, dove il messer grande ha il suo principale officio. Trovai una persona polita e cortesissima, che ascoltò con tutta attenzione la mia istanza pel ricupero della scatola derubata. Questa è cosa da nulla, il messer grande sogghignando mi rispose. Da quì a due giorni favorisca di tornare da me, ed avrà la sua scatola.
Partii, ma mi credetti celiato. Pure tornai puntualmente dal messer grande il giorno stabilito. Egli appena mi vide, corsemi incontro e ridendo mi disse: prenda una presa di tabacco. Mi accorsi tosto che la scatola, che aveva fra le mani, era la mia, e mi posi del pari a ridere, ma specialmente, credo, per la mia grande sorpresa. Ecco la sua tabacchiera, il messere mi aggiunse. Ogni qual volta le accadessero simili inconvenienti, venga da me, e sarà a tutto rimediato.
Non cessava perciò mai fra me stesso di ammirare la vigilanza del veneto governo. Correva già voce universale che questo governo sapeva tutto, era informato di tutto ed in questo fatterello io ne aveva una prova molto convincente.
Da li a qualche anno avendomi acquistata la confidenza e la buona opinione di autorevolissimo patrizio, gli raccontai l’accaduto, esternandogli il mio incessante stupore. E questa sorpresa tanto più sembravami giusta, per aver più volte saputo, che altre persone in occasioni di simili derubamenti rinvennero i rapiti effetti ricorrendo al pari di me.
Rise l’avveduto patrizio. Sappiate, mi disse riservatamente, che la nostra repubblica tollera i piccoli ladri di destrezza, cioè quella classe detta de’borsaiuoli. Però tutti costoro sono obbligati di tosto depositare presso al messer grande la cosa derubata. Se dentro quindici giorni si reclama dal danneggiato, fedelmente gli viene restituita.
Passati i quindici giorni, e che non siane stata fatta domanda, resta allora di proprietà del ladro. Non crediate però che questi mariuoli trascurino di obbedire alla prescrizione. A loro troppo interessa l’assoggettarvisi, perchè altrimenti non facendolo e convinti del furto, subirebbono le severe pene inflitte dalla legge ai ladri. Oltredichè i borsaiuoli si esplorano con tutto interesse reciprocamente, e denunziano quello ch’è mancante all’ordine, e ciò per diminuire col castigo di colui il numero soverchio di questi bricconi a loro stessi troppo dannoso e contrario alle loro utilità.
Questa tolleranza pel nostro governo è antichissima, egli soggiunse. Se poi me ne chiedete il vero motivo politico, pare che esso consista nel voler conservare nel popolaccio un’attività sagace ed ingegnosa. Saprete che pure il furto era lecito per lo stesso motivo fra gli antichi Spartani.
Ma però tra noi questa tolleranza è secreta, ed è limitata ai piccoli furti di destrezza. Se qualche borsaiuolo viene colto al momento del suo delitto, tosto si castiga a norma di legge; ed ei ne deve incolpare la sola sua imperizia e poca cautela.
La repubblica talvolta si servì utilmente di costoro in qualche circostanza premurosissima. E se io volessi; per esempio, l’orologio o la scatola di qualcheduno, o meglio il suo taccuino, potrei facilmente fra brevi giorni possederli.
Il nobile seguitò: sappiatene a prova che già alcuni anni un ragguardevole torinese venne a pranzare da me. Era egli uomo di molto spirito, ed aveva girato pressochè tutta l’Europa. Discorrendo meco de’suoi viaggi, dissemi con soddisfazione, che mai i borsaiuoli lo aveano derubato.
Ho sempre l’avvertenza, soggiungeva, se mi trovo a piedi in gran folla di popolo, di tenere le mani sovrapposte al borsellino dell’orologio. Fui a Parigi, a Madrid, a Napoli, nella qual ultima città si può dire che abbiavi la quintaessenza di simili mariuoli, ed andai sempre esente dai cattivi effetti della loro sorprendente e quasi magica destrezza.
Si assicuri, gli risposi, che anco a Venezia vi sono delle persone abilissime in questo mestiere, quanto in qualunque altro paese.
Non le temo, disse il torinese. Sarei pronto a fare scommessa che io partirò da Venezia senza avere per costoro menomamente sofferto.
Mi puntigliò questa presunzione; ed essendo sul fine della tavola, in cui si vuotarono parecchie bottiglie, mi riscaldai alquanto. Ed io, gli risposi, scommetto pagarle dodici zecchini, se dentro un quindici giorni non le sarà rubato l’orivolo.
Accetto e prometto di pagarne a lei dodici, se me lo rubano, seguì il forestiere del pari un pochino riscaldato: tanto sono sicuro della mia vigilanza.
Veggendomi a tale forte impegno, mandai a chiamare il giorno dietro il messer grande, e gli dissi della fatta scommessa. Vostra Eccellenza nulla tema, mi rispose il messere; ella sarà servita.
Dopo soli quattro giorni ecco comparire da me il forestiere molto turbato. Ella ha vinto, gridommi. Questa mattina, mio malgrado, mi fu rapito l’orologio. Era andato per vedere una funzione sacra nel tempio di san Marco.
Quando mi si avvicina un cortesissimo prete, che senza mia voglia si pose a mostrarmi i mosaici della chiesa, ed a spiegarmene il significato. Signore, gli dissi, la ringrazio di tutto cuore, ma non occorre che si disturbi. Oibò! rispose il gentilissimo prete, non creda in me animo venale.
Quando veggo forestieri, amo senza interesse far loro note le cose belle di nostra patria. E qui vegga, dissemi, il martirio dei santi Pietro e Paolo; è un mosaico molto stimato. Quell’idra significa… Ma ecco assalirmi ad un tratto nel collo un insoffribile prurito, per cui fui costretto a forza eseguire l’atto indecente di grattarmi. La calca del popolo vieppiù cresceva; ed io ed il cortese prete andavamo ondeggiando qua e là.
Ma il mio prurito era ostinatissimo; non poteva resistere, e mi vergognava sopra tutto che quel pulitissimo abate spesso mi vedesse a cacciare le dita fra la camicia e il collo. Alla fine uscii da quella incomodissima affannosa folla; e nel mentre ringraziar voleva l’abate de’ suoi pazienti premurosi officii, più nol vidi; da me tolto di certo dall’addensato popolo che entrava e sortiva in folla dalle porte.
Uscito nella piazza, pongo tosto la mano al taschino e la mostra più non c’è. Causa quel maledetto prurito ed anco per quel prete importuno!.. Avea però costui una certa faccia, che quasi mi farebbe sospettare…
Ah no!.. non può essere…
Mi posi a sorridere e nulla risposi. Il mattino dietro ecco il messer grande, che mi reca il rapito orivolo.
L’Eccellenza Vostra è servita, egli mi disse. Bravo! esclamai; e come vi siete riuscito?..
Mandai tosto a chiamare, il messer mi rispose, un mariolo di abilità non comune e pienissimo di spirito. Gli esposi il desiderio e la scommessa di V. E. Colui s’incaricò tosto di trafugare la mostra dicendomi, che alla sua fantasia ed ingegno non mancano mezzi in casi simili di difficile impresa; e che anzi ciò a lui sembrava una inezia. Infatti l’altro ieri un ragazzaccio, già della classe di tale genia, esplorava da lontano i passi del forestiere. Vistolo avviarsi alla chiesa, avvertì colui tosto il suddetto mariuolo, che già preventivamente gli abiti neri di abate indossava.
Questo fu l’officioso ciceroncino. Costui destramente ed a tempo soffiò nel collo del forestiere con una piccolissima cannuccia alcuni schifosi insetti a bella posta ivi racchiusi. Ben presto successe nel torinese quell’ incomodo prurito, a cui non poteva egli resistere, e che facendogli alzare spesso la mani, abbandonar lo costrinse la guardia del suo taschino. L’espertissimo mariuolo s’impadronì della mostra e sparve come un lampo.
Diedi al messere alcuni zecchini da regalarsi a quel ladro; e poi consegnai l’orologio al forestiere, che rimase moltissimo sorpreso. Volli però tenergli occulto l’usato artifizio.
Infiniti sono gli aneddoti che dimostrano la grande furberia dei veneti mariuoli.
Ne sia di secondo esempio il seguente.

Un buon uomo di contado, ma in polito aspetto, ascoltava incantato sulla riva degli schiavoni le ciarle di un saltimbanco. Quando un omaccio male vestito, che stava a lui vicino, si pose gridare all’ improvviso: mi hanno tolto la borsa! mi hanno rubato i quattrini…
Qui la gente si affolla; e l’omaccione data pria una bieca occhiata al campagnolo, tutto ad un tratto lo afferra pel petto e grida: ah sì! tu sei il ladro che mi ha tolta la borsa.
L’uomo onesto rimase come pietrificato. Ma pure sclamò: io sono un galantuomo, sono conosciuto. . Che galantuomo! che conosciuto! sei un birbante, gridava fortemente l’altro.
Qui il campagnolo cominciò a vuotarsi le saccoccie a prova di sua lealtà ed innocenza. Ma ben fu grande la sua sorpresa quando insieme al tratto fazzoletto da naso vede sortire e cadere una piccola borsa verde.
Ecco la mia borsa, gridò l’accusatore. Essa contiene tre ducati, due lire e dieci soldi.
Uno degli astanti strappa la borsa all’attonito ed arrossato campagnolo, l’apre ed il denaro va a puntino.
Ah perfido! ah scellerato! gridano cinque o sei figuracce. Dai al ladro! dai al ladro! E qui spinte violente e percosse a quel pover uomo, che inutilmente si giustificava.
Maltrattato ed oppresso era come un paleo gettato qua e là. Quando alcuni robusti contadini, che lo conoscevano e di persona e per quel buono ed onorato uomo ch’ era, veggendo tanto oltraggio ed il suo pericolo, si fanno largo, menando forti pugna da tutte le parti e giungono a guidarlo altrove. Quel campagnolo amaramente piangeva per tale affronto incompatibile col suo onestissimo carattere.
Ma da lì a poco si avvide che in quel parapiglia gli si era trafugata la sua borsa, che conteneva parecchie dozzine di zecchini. Egli aveva ricevuto poche ore prima in un caffè visibilmente parte di questo denaro.
È cosa chiara qual sia stata l’arte fina dei borsaiuoli per riuscire nella loro perversa intenzione.
Nelle giornate di feste sacre si portano costoro dove sanno esservi grande concorrenza di popolo. Dopo di aver cercato di bene rubacchiare con l’arte delle invisibili loro mani, sanno fare anche di peggio.
Bene spesso uno o due o più di questi bricconi fingono accattar baruffa.
Snudano le coltella e mostrano di ferirsi. Altri furbi nello stesso tempo pongonsi a correre disperatamente, eccitando a bella posta confusione e spavento, urtando impetuosi qua e là, e rovesciando a terra fanciulli, donne, ed uomini.
Ognuno per conseguenza s’intimidisce e spaventa; chi corre qua, chi corre là. Le madri perdono i figli, le mogli il marito; chi cerca scappare, chi vuole retrocedere e chi percuote quello che addosso se gli spinge, e sorgono nuove fiere questioni. Guai se ciò succede vicino ad un canale! Allora, chi vi è rovesciato dentro, e chi vi si getta appositamente per fuggire un pericolo maggiore.
Ed intanto chi perde il mantello, chi la borsa, chi gli orecchini, chi gli smanigli, chi gli scialli. Ed è allora che i mariuoli con tali artifiziosi parapiglia fanno ricche prede.
Nella piazza e piazzetta di san Marco, nelle sere estive specialmente, quando il popolo sta numeroso ed affollato intorno ai ciurmatori, ai pulcinella, succedono non di rado simili disordini; i quali talvolta riescono a non pochi pericolosissimi.
Una sera che la piazza era affollatissima, cominciò in uno de’ suoi angoli una di queste finte baruffe. È impossibile descrivere lo scompiglio e la furia precipitosa del popolo spaventato, che si pose a correre senza saperne il perchè.
Vicino alle procuratie ed innanzi ai caffè vi sono esposte seggiole in gran numero. In queste urtarono i fuggiaschi, e moltissimi sgraziatamente caduti e sopraggiunti da altri rimasero calpestati e rotti in qualche membro.
Mai se ne seppe il vero primo motivo. Ma certissima cosa però fu che i borsaiuoli ne colsero grandissimo utile.

Dai Misteri di Venezia di Edmondo Lundy.


Ecco la scala delle pene che la Repubblica di Venezia stabiliva pei furti:

Chi rubava fino a 20 soldi era frustato;
dai 20 ai cento frustato e bollato;
dalle 5 alle dieci lire orbato di un occhio;
dalle 10 alle venti orbato di un occhio e tagliatagli la mano;
dalle 20 alle trenta orbato di ambedue gli occhi;
dalle 30 alle quaranta orbato di ambedue gli occhi e recisagli una mano, e se recidivo impiccato;
dalle 40 in poi impiccato.

Ciò pei furti semplici: peggio poi pei qualificati.

Se taluno veniva côlto notte tempo in casa altrui all’oggetto di rubare veniva frustato e bollato, e se recidivo privato di un occhio.
Se veniva côlto mentre tentava con rottura introdursi nella casa altrui lo si orbava di un occhio.
Se il furto commettevasi a danno di un forestiero venuto a Venezia bastavano 20 lire per essere appiccato.

Nè dicasi che queste leggi comprese nella cosi detta Promissione del malefizio portano la data del 1232, e quindi sono effetto della barbarie dei tempi. Esse durarono fino alla caduta della Republica, e se vi fu qualche mutamento, fu per renderle ancora peggiori. Così per una legge del Consiglio maggiore, portante la data del 25 novembre 1544, il ladro abitudinario (ed era abitudinario quando avesse rubato altre due volte e subita la pena) veniva orbato di ambedue gli occhi per quanto tenue si fosse l’importo del reato; e se eccedeva le lire cinque lo si mandava sulla forca. Perchè i giudici poi avessero la certezza della sua recidività questa legge medesima stabiliva un casellario assai sbrigativo la prima volta, oltre alla pena, gli si tagliava come contrassegno l’appendice carnosa delle orecchie (papille degli orecchi, dice la legge), e la seconda la punta del naso.

Del pari, una legge del doge Pietro Gradenigo, che figura fra le appendici della Promissione del malefizio, ordinò che nel caso di più furti per applicare la pena si dovessero sommare gli importi, di modo che il borsaiuolo, che un giorno aveva rubato dieci lire ed un altro giorno 30, lo si impiccava come reo del furto di lire 40.

Queste leggi non potrebbono trovare censura a base del principio della intimidazione: eppure esse offendono l’ umano sentimento dipendente dall’ordine morale, che tra il reato e la pena esser vi debba una proporzione, e l’ ordine giuridico, lo ripeto, non deve mai essere in opposizione all’ ordine morale.

In via storica poi importa notare come la severità della Promissione del malefizio contro i ladri non impediva punto che i furti aumentassero; dimodochè la legge del 25 novembre 1544 comincia dicendo: è accresciuto talmente in questa città il numero dei ladri, si robatori di borse, come di diverse altre sorta di ladroneggi, che ormai è cosa difficilissima di guardarsi in questi giorni; per cui passava a quelle più severe misure che accennai più sopra.

I seguaci dell’ intimidazione fanno come coloro che per fortificarsi abusano del vino, e sentendo accrescere la debolezza passano al rhum, al gin, all’ assenzio, fino a che sieno presi dal delirium tremens.

Articolo tratto da: Rivista penale di dottrina, legislazione e giurisprudenza, Volume 4

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