Lu Brigadiere ‘nfernuso

Amilcare Lauria

Quando Don Matteo risiedeva per ragione di servizio a Santacroce, sopra Marano, era proprio una disperazione; perchè non sempre gli riusciva di ottenere uno o più giorni di permesso, per passare qualche notte a Napoli. E il brigadiere doganale avrebbe avuto bisogno di scendere in città almeno una volta per settimana.
Egli era un uomo di mezz’età, corto, tarchiato, scoppiante, la cui divisa verde, a mostre gialle, pareva dovesse soffocarlo da un momento all’altro, tanto gli stringeva le carni. Dal collo tozzo s’elevava la testa troppo grossa, su cui il berretto pareva pesare assai, perchè non rimaneva mai al medesimo posto: o lo si vedeva abbandonato all’indietro, o tirato a destra, o a sinistra. Per le guardie daziarie, che dipendevano da lui, le posizioni di quel berretto rivelavano l’animo del loro superiore.
Tra luce ed ombra non era piacevole d’incontrare il brigadiere. Pareva un diavolo: certi ciuffi di crini brizzolati scappavano intorno al berretto: le ciglia folte come due mostacci, nereggiavano su due occhi lucenti, che ricordavano quelli del gatto d’una strega, tanto sporgevan fuori dalle orbite, ed animati, mandavano scintille rosse. I baffi ispidi, duri, tagliati a cosa di cane, covrivano la bocca larga, dalle labbra carnose: la tinta della faccia era sempre accesa, rossa come un pomodoro, su cui era sparso qualche bitorzolo appuntato.
– Un giorno o l’altro lo troveremo crepato di salute!… – mormoravano i compagni ed i subordinati.
Difffatti, Don Matteo, la cui vita esuberava tanto nelle vene, che avrebbe dovuto far moto peggio d’una locomotiva, era condannato alla vita sedentaria di chiappar contrabbandi o… mosche, il più delle volte.
Che guajo! sempre in quella bianca catapecchia, a fumare nella pipaccia decrepita. Sole, pioggia, umido, freddo, tutti i malanni erano per lui; ma alla fine s’era avvezzo a rodere il freno e tacere.
Che vita!… E come rimpiangeva, invece, quella che menava molti mesi prima. – Allora egli era conosciuto in tutti i siti di baldracche a buon mercato. A Napoli, Don Matteo era tra i più famosi frequentatori di Porta Capuana, dell’Imbrecciata, dell’Imbrecciatella; ma più specialmente dei lupanari di Piazza Franzese, ove lo si denominava Lu brigadiere ‘nfernuso, perchè era un arrabbiato; e quando le sgualdrine non volevano fare il loro dovere, menava le mani che era un castigo di Dio!…
Don Matteo, poi aveva un debole per le Pononere del Fondo: quelle che la sera escono come lupe dai tugurii della Piazzetta del Mandracchio, e vanno a stanziare alle cantonate, presso al teatro, ove chiamano la gente con lubrico concitamento.
Sopra Marano il Brigadiere sognava sempre le sapienti seduzioni di quelle dive del pattume. Gli è che Don Matteo non si poteva risolvere a trescare con le stupide villanzone, che i suoi compagni scovavano nei villaggi circostanti.
A lui bisognavano le donne che sapevano l’arte loro, e che gli tiravano simpatia; non quelle balorde come pezzi di marmo!…
Si capisce, quindi perchè al poveraccio la bile gonfiasse il fegato!…
Quella sera, andando giù per Capodimonte, Don Matteo sbuffava come un toro.
Era un mese che egli non discendeva in città.
Gli sembravano mille anni di trovarsi a Napoli; e, tutto sudato, affrettava il passo.
Giunto su Ponte della Sanità, volle vedere che ora fosse; mancava poco alle dieci. L’aveva fatta grossa a non mettersi nella diligenza di Marano; ma l’idea d’essere sballottato per due ore continue, ed arrivare ammaccato peggio d’una balla di stoccofisso, non gli andava.
All’angolo del Musco egli s’arrestò per ispazzolarsi alla meglio nella Bottiglieria di Lipari, e lì, per rinfrescarsi, bevve mezzo litro di vino nero come l’inchiostro, che gli mise un po’ di giocondità addosso; così ripigliò la discesa, canticchiando a Figliola.
Era la prima serata di caldo soffocante del mese di Luglio. Nelle vie che menano a Porto era rimasta l’afa opprimente del meriggio; un tanfo di lordure disseccate mozzava il respiro. Sotto al portico che dal Fondo mena a Piazza Franzese era un brulicame nero, a cui non giungeva la luce scialba d’un fanale a gasse.
Don Matteo guardava compiaciuto all’intorno, respirando per soddisfazione. Era arrivato alla fine; e ad una donnaccia, che lo aveva salutato, egli rispondeva gettandole le più abbiette e cordiali espressioni di tenerezza. Ad un’altra, che voleva afferrarlo per la daga, egli, con uno spintone, le rammentava tutta una genealogia da postribolo.
All’angolo della Piazzetta si disegnava nell’ombra la linea accidentata d’una donnona adiposa. Il Brigadiere le si accostò. La baldracca fumava un mozzicone di sigaro, sputacchiando per istizza.
– Non è cosa: stasera m’ho da cobinare roba più fina.
– E va a buttar sangue altrove!… Gli rispose quella.
Don Matteo, dopo averle scaraventato contro un mondo di parolacce, passò oltre.
All’angolo del Budello Nero, che sbuca sul Molo piccolo, egli scorse tra la semioscurità la figura d’una femmina lunga, con la veste bucherellata, che discendeva appena fin sotto al ginocchio. S’avvicinò.
La faccia della donna, terreamente bruna, era arrossita nelle guance dal carminio, e due occhi lucenti come carbonchio lo affissavano avidi per riconoscerlo e sedurlo.
– Uh… Il Brigadiere!…
– Ah! Sei proprio viva, Tanella; mi fa piacere di ritrovarti! – rispose Don Matteo allegramente.
– E voi?… Non vi siete più lasciato vedere! – esclamò ella, con un sorriso che le storse la bocca.
– Quella disperazione del servizio non mi fa scendere da Marano quando vorrei!
– Me lo avete portato un litro di quei siti?…
– Eh, sì… Non ci sarebbe mancato altro: fare un viaggio a piedi col fiascone!… Ora entreremo nella cantina de lo zi Tonno, che ne vende del buono.
Di lì a poco il Brigadiere e la prostituta erano seduti nella taverna; ove bevevano come spugne e mangiavano a due palmenti.
Tanella divorava con voracità di bestia famelica; e quando sentiva il bisogno di pigliar fiato, guardava il Brigadiere, sospirando di gratitudine.
In fondo, al chiarore fumoso della lucerna puteolente di petrolio, si scorgeva la negra apertura nel pavimento da cui si scendeva in cantina. A destra era la tavolaccia, carica di vivande plebee, tinte dal peperone rosso. A sinistra, ad un tavolino, cioncavano due marinai inglesi. Ed in quella lugubre semioscurità si sentiva il forte odore del vino misto al fetore del baccalà…
– Avevi questa specie di fame?… Disse ridendo Don Matteo, quando si potette riposare.
– Era una settimana che non provavo un boccone cucinato!…
– E che si fa da questi siti?
– Si sente la miseria che urla e passeggia negli stomachi!… Brigadiè, beato voi!…
– Che ti possa pigliare un canchero!… La vedi la vita che faccio?… Avrei voluto nascer donna per fare il tuo mestiere: e l’arte di Michelasso!…
– Non lo dite!… – Noi moriamo di fame peggio dei cani tignosi!
– Ohè!… Io sono venuto per istare allegro; se vuoi lamentarti vaso in ceca d’altre; anzi andiamocene.
Ed il Brigadiere, levatosi da sedere, con la donna uscì dalla bettolaccia.
Dopo dieci minuti entrambi erano in una delle stamberghe del vicolo Cannucciari.
Sul cassettone sciancato e bisunto ardeva la lampada dinanzi all’imagine di una santa; ed illuminava il letto alto dalle lenzuola sudice, gualcite. Una quarta parte della camera era nascosta da una cortina verde in brandelli.
Don Matteo conosceva quella tana immonda, e un po’ brillo, si slegava la giberna col cinturino, guardando la donnaccia pieno di desiderio bestiale.
Ad un tratto nella camera s’intese un leggiero piagnucolio di bimbo.
– Ohè!… Ch’è ciò?
– Maledetto chi t’ha portato nel ventre!… Maledetto il momento che non mi sentii core di gettarti nel pertugio dell’Annunziata! Proprio adesso ti dovevi destare! Ah, è la sorte mia questa!… – esclamava Tanella, rammaricandosi fra le bestemmie.
– Ma ti fai uscir lo spirito; e dimmi chi piange? Gridò l’altro arrabbiato.
– Niente Brigadiere, è niente; non montate in furia, ora l’acquieto: è la creatura mia.
– Una creatura!? Esclamò Don Matteo infastidito.
– Sì, sì, la tenevo a Soccavo, presso certi villani, che me la maltrattavano, e in che modo! – rispondeva la donna dietro alla cortina. – Dormi, dormi, gioia di mamma tua!…
Dunque, Brigadiè, imaginate che io me lo toglieva di bocca il pane per portarlo a quei contadini; e quelli approfittavano di aver saputo l’arte che faccio, per togliermi la pelle dalle ossa; come se io fossi stata una principessa di Chiaja!… E sta povera creatura, quando mi rivedeva, paeva mi chiedesse pietà con gli occhi!… Quei cani me la facevano consumare come una candela di sego!… Brigadiè, noi siamo la brutta gente, eh?… Oh! Ve ne ha di peggio assai. – Adesso mi ho ripreso il bambino per divezzarlo. – Ora vengo; abbiate pazienza… Per amor di Dio!…
E la donna cominciò a cantarellare dietro la cortina:

Duorme, durme ca vene paputo.
. . . . . . . . . . . . .

Poi s’interrompeva:
– Brigadiè, scusate; non v’impazientite perchè vengo subito.
Difatti, pochi minuti dopo ricomparve. Ma, nel girare lo sguardo intorno, ella allibì.
La camera era vuota.
– Ah! Sorte!… Sorte infame, anche lui!…
Poi guardò sul letto e rimase stupefatta.
Ella vide sparsa sulle lenzuola una manata di soldi.

Amilcare Lauria

Da: Cronaca rossa di letteratura, scienza ed arte


Amilcare Lauria. Scrittore italiano (Napoli 1854 – 1932); i suoi romanzi e racconti, quasi tutti in sintonia con il realismo, si ispirano soprattutto alla vita napoletana.