L’OMBRELLO DEL SIGNOR THOMPSON

Novella di Charles Dickens

— Dovreste studiar la marcia di Chopin, Augusta. Al signor Thompson piace molto la musica, ed è egli stesso un buon dilettante.
Oh! quant’ero noiata di udir parlare del signor Thompson! La mia buona zia aveva le migliori intenzioni del mondo, ma essa non pensava che mi faceva prendere in uggia tutti questi mariti in prospettiva, pei quali essa desiderava ch’io facessi l’amabile.
Ero orfanella con un reddito di quaranta lire sterline per tutta dote. L’avere di mia zia doveva passare ai collaterali; epperò nulla di più naturale e nulla di più benevolo del suo desiderio di vedermi accasata; ma io era d’un parere opposto.
Sia alterezza o capriccio da parte mia, il solo pensiero che un visitatore giovane o d’età matura venisse da mia zia unicamente per me, me lo rendeva insopportabile. Per questo motivo, forse, io non piaceva a nessuno. Mi trovavano bellina però; posso ben dirlo oggidì che è trascorso tanto tempo! Ma molte figliuole meno belline di me e con minor dote si maritavano, ed io rimanevo sempre Augusta Raymond, sola e senza adoratori. E di codesto io non mi dava pensiero, oibo! il menomo pensiero.
Ciò che mi faceva rabbia era che la mia buona ed amata zia non desse vista di credere a questa mia indifferenza, e avesse sempre in fresco un preteso aspirante da raccomandarmi, come quello che doveva rendermi la più felice delle donne.
Per contentarla, in quel giorno mi misi al pianoforte e mi diedi a studiare la marcia di Chopin all’intenzione del caro signor Thompson. Era questi un suo cugino, atteso fin dalla vigilia, e che non pensava, il poveretto, con quali intenzioni la zia lo avesse invitato a passare una settimana da lei. Io non aveva veduto il signor Thompson fino dalla mia infanzia. Allora egli era affatto giovane, grande, bruno, dalla fronte pensosa, e già sul cammino della fortuna.
Il signor Thompson è ricco oggidì a quanto pare, ricco almeno per una giovine povera come io mi sono…. Ma di certo egli non è più un giovanotto, dicea a me stessa facendo correre le dita sulla tastiera….. No, no, costui non mi andrà a genio più degli altri.
Noi dimoravamo in campagna in un cottage grazioso, nel mezzo ad incantevole giardino. Mi piaceva specialmente la camera dove mi trovavo quella mattina; era quella ove si stava di solito. Una tavola collocata nel centro era coperta di libri, di cui alcuni erano per me vecchi amici, ed altri nuove conoscenze. Panieri di fiori, cestelle da lavoro, sedie comodissime, che sembravano invitarvi a leggere od a fantasticare, davano garbo a questa camera, dalle finestre della quale, quand’erano aperte, potevo intravedere gli alberi del giardino ed aspirare il profumo di mughetto che una dolce brezza mi asportava.
Dove siete ora pacifico ritiro, giardino imbalsamato? La spietata banda nera vi ha tramutati in piazza pubblica. Voi non rinverdirete che nelle mie ricordanze.
— Il signor Thompson, mia cara Augusta, mormorò la voce di mia zia, mentre io chiudeva il pianoforte.
Mi rivolsi, e me lo vidi dinanzi, grande, bruno, contegnoso, pochissimo alterato in dieci anni, per nulla invecchiato. Non l’aspettavamo che pel pranzo e giungeva per l’asciolvere, non so più per quale malinteso.
Aprendo la griglia del giardino, egli erasi imbattuto in mia zia, ed ambi si erano fermati sotto le finestre per ascoltare la marcia di Chopin.
Non so come spiegarlo, ma questo signor Thompson che io abborriva dianzi, senza saper perchè, mi piacque al primo incontro. Non potrei dire che ogni giovanetta l’avrebbe trovato di suo genio; ma non era nè brutto nè vecchio, come me l’ero figurato stando al pianoforte. Era dritto e snello di corpo, aveva i capegli nerissimi, ed il suo sorriso piacente, non esprimeva già la soddisfazione di sè stesso, ma una schiettezza benevola. Insomma, lo ripeto, tutto in lui mi piacque, tutto, fuorchè il suo ombrello….. sì, il suo ombrello: uno di quelli ombrelli d’antico stampo, vasto quanto solido, e tanto più imbarazzante.
Se almeno il cielo fosse stato nubiloso; ma, oibò, faceva il più bel tempo del mondo. Se lo avesse lasciato alla porta prima di entrare nella sala; ma no, lo teneva in mano quando mi salutò, e durante la settimana di soggiorno presso mia zia, il signor Thompson ed il suo ombrello furono due amici inseparabili. Più tardi, quando mi fui un poco famigliarizzata col signor Thompson, lo martellai su questo punto.
— Si, mi disse con lieto umore, confesso che è il mio trastullo. Adolescente, la mia più grande ambizione è stata di possedere un ombrello. Fu il primo regalo che io mi facessi, e capisco che Sua Maestà il re dei Francesi, dacchè una rivoluzione l’ebbe messo sul trono, deponesse sovente lo scettro per passeggiare nella sua capitale con un ombrello sotto il braccio.
Va pe’ suoi piedi, che sebbene io ridessi di quest’unico atto di stranezza, io mi guardassi dal farvi allusione il primo giorno che passammo insieme, il signor Thompson ed io. Sarebbe stato risponder male al complimento da lui fattomi nell’entrare, intorno alla mia abilità sul pianoforte, fino a dirmi che suonavo divinamente. Divinamente, sì, il signor Thompson lo ripeteva dopo averlo detto una prima volta, e ciò mi impettì tanto più ch’io ben vedeva che era il suo schietto pensiero. — Altro originale: Il signor Thompson vantavasi di parlar sempre libero, a rischio di sembrare un po’ brusco.
Mia zia ne era incantata, e me ne sarei davvero invanita, se non mi fossi accorto di leggeri che il signor Thompson mi trattava come una figliuolina. Ohimè! da figliuolina continuò poscia a trattarmi, senza che osassi fargli sentire che egli ingannavasi su la mia età, come io mi era ingannata su la sua.
Il signor Thompson non restò con noi una settimana, ma sibbene un mese. Oh! qual mese beato! Tutto un mese di giorni fulgenti, tutto un mese di serate abbellite dalla musica e da amene conversazioni! Sarò io per dimenticarlo? Se fu penoso il risveglio mi sia concesso di rammentare che il sogno è stato assai dolce.
Questo fausto mese stava per spirare. Il signor Thompson doveva lasciarci il mattino appresso; ci trovavamo insieme in giardino. Io allora sapeva pur troppo bene quali fossero i miei sentimenti a suo riguardo, ma per quanto egli si mostrasse gentile, io dubitava della reciprocanza; o quando mi disse: «Augusta, ho qualcosa da dirvi,» oh! come il cuore mi palpitò! Egli chiamavami talora Augusta spiccio, avendomi conosciuta fanciullina, ma giammai aveva pronunciato questo nome con tanta dolcezza.
Ohime! Io non mi aspettava guari la confidenza che il signor Thompson si degnava di farmi. Il signor Thompson aveva incontrato la mia cugina Jessie dalla signora Gray, e le aveva fatto una proposta di matrimonio che essa accettò.
Dacchè fu pronunziato il nome di Jessie, conobbi la mia sorte. A mia insaputa, suppongo, la mia cugina Jessie si era sempre trovata tra me e la felicità. Essa avevami soppiantato nell’affetto del nostro più prossimo parente, quello di uno zio paterno, ed ora soppiantavami nel cuore del solo uomo che io avessi mai amato!
Io non poteva tener broncio con Jessie, ma era questa per me un’esacerbazione di pena.

L’usignuolo cantava su i nostri capi, scintillavano le stelle su di un cielo azzurro, il giardino era imbalsamato di soavi profumi e il signor Thompson, incalorato dal suo soggetto, stemperavasi nell’elogio di Jessi. Era cosi bella, graziosa, buona, simpatica, piena di ingenuità ammaliante! E a che pro’ dirmi tutto questo? La salute di mia zia declinava da qualche tempo. Il signor Thompson sapeva che io era conscia della sciagura che poteva colpirmi da un momento all’altro, ed egli desiderava assicurarmi un asilo presso di lui.
Proruppi in lagrime.
— Cara ragazza! — sclamò con affetto —se non dovessi partire non vi avrei afflitta in tal modo. Siate ragionevole! Avete, lo so, il cuore affezionato e generoso. Vostra zia può vivere ancora molti anni, ma se avvenisse altrimenti, Jessie ed io….
— Ve ne prego! interruppi.
Era troppo per me. Più il signor Thompson faceva il mio elogio, più mi esprimeva affezione, e più mi sentiva sventurata. Alla fine, avendolo io richiesto, mi lasciò sola. Riescii a calmarmi e rientrai in casa.
— Suonate un po’ la marcia di Chopin, cara Augusta, mi disse la zia.
Cara zietta! Era appunto per allettare, per affascinare il signor Thompson, che l’ultimo giorno come il primo mi chiedeva questa marcia; poiché il signor Thompson, ogni volta che l’aveva suonata per lui, non aveva mai mancato di farmi dei complimenti su la mia perfetta esecuzione.
Suonai dunque. Ma fu per me come il funebre rintocco di tutte le mie speranze. La penombra della camera non permetteva a mia zia ed al signor Thompson di vedere le lagrime che mi sgocciolavano sul viso. Il signor Thompson venne a sedersi presso il piano-forte, quand’ ebbi finito. La fante portava in questo punto la lampada ed una lettera per la zia. Mentre la leggeva, il signor Thompson mi disse a mezza voce, alludendo alla sua offerta del mattino:
— Rifletterete, non è vero?
— Di grazia! — dissi con tono supplice.
— Ma voi non sapete quanto mi siete cara, insistette. D’altronde voi potreste essere cosi utile alla mia sventatella di Jessie; è ancora sì bimba! E poi, ho pel capo un progetto.
Era colmar la misura. Indovinai ciò che voleva dire. Me l’aveva abbastanza lasciato intravedere durante la nostra conversazione in giardino.
Aveva un fratello a cui mi destinava. Sarebbe stato ciò che poteva capitar di meglio a Giovanni – aveva detto. . . . . .
Io più non resisteva. M’alzai, ed accostandomi a mia zia;
— Che nuove, cara zia? — domandai.
— Nuove davvero, diss’ella tutta attonita. Jessie sposa mio cugino il signor Norris, che ha tanti anni da poter essere suo padre! Vorrei sapere che cosa vuol fare di quella civettuola.
La zia non aveva Jessie sul suo libro, ed è perciò che Thompson non si era confidato con lei, come aveva fatto con me.
Ci fu un momento di silenzio.
Il signor Thompson s’accostò alla zia. Non osai guardarlo.
— Di qual Jessie parlate? chiese egli. Non è già la cugina di miss Raymond?
— Proprio dessa; la conoscete?
— La vidi da mistriss Gray.
Parlava composto, e suppongo non desse retta a questa nuova.
Lo compiansi dal fondo del cuore.
— Forse non è vero, zia, dissi.
— Non è vero! ma se lo scrive essa stessa. Ecco qui la lettera. Leggete, Augusta.
Allora guardai il signor Thompson. Si fece pallido come un morto, ma calmo ancora, senza che alcun tremito delle sue labbra tradisse l’interna tempesta. La zia ci lasciò per poco, affine di dare alcuni ordini.
— Augusta, posso leggerla? mi chiese il signor Thompson, collo sguardo, designando la lettera che io teneva in mano. Non poteva rifiutarglielo. La scorse pacato, poi, prendendo l’ombrello in un canto della sala, disse freddamente:
— Vado a fare una passeggiata. Ed usci. Noi non lo rivedemmo che l’indomani mattina al momento della sua partenza.
La zia fu indispettita nel vedere che il signor Thompson non mi aveva fatto nessuna proposta di nozze, e in quanto a me, fui punta dalla freddezza con cui ci lasciò. Il mio merito sembrava andato in ribasso coll’infedeltà della mia cugina, come se questo merito non fosse che il riverbero dell’essere adorato.
Jessie non tardò a diventare la signora Norris. Essa si sposò da mia zia, per riguardo al signor Norris, che era suo parente, e che abborriva mistriss Gray, quell’ insoffribile imbrogliona, come la chiamava, credo, non senza ragione.
Durante la sua corta dimora da mia zia, Jessie fu di umor lieto e parve felicissima. Essa mi martellò spietatamente sul capitolo del signor Thompson. — Era sicura, diceva, che mi aveva fatta la corte, — e parlandomi mi guardava con aria significante. Ma non tradii nè il mio secreto, nè quello del signor Thompson, e, sebbene provocata crudelmente, quando lo metteva in ridicolo presso il signor Norris, specialmente sul punto del suo ombrello, io serbai il più assoluto silenzio.
— Sono certa che andrà a nozze col suo ombrello sotto il braccio, mi diss’ella alla vigilia delle sue. Che ne dite?
Non risposi a Jessie. Passai in giardino, e mi chiesi come mai colei avesse saputo piacere a Thompson. Avrei potuto chiedermi del pari come costui aveva saputo piacere a me.
Il matrimonio di Jessie fu un colpo per mia zia, la quale aveva sempre creduto che mi mariterei per la prima. Non fu meno mortificata dell’indifferenza del signor Thompson, e forse indovinò il motivo del cambiamento che erasi in me operato. Avevo dimagrato e perduto il colore….. e suonavo costantemente la marcia di Chopin.
— Cara Augusta, mi disse una sera, non trovate voi questa musica assai lugubre?
— Mi piace, zia , risposi; ma in pari tempo ho fatto il proposito di non più suonar questa marcia.
— Al signor Thompson piaceva molto, diss’ella sospirando…. Stupisco non vi abbia chiesta in matrimonio, aggiunse poi tutto ad un tratto.
Ammutolii.
— Vorrei non averlo invitato a venir qui, soggiunse. Non posso far a meno di credere….
— Oh! di grazia, zia! interruppi.
Essa non insistette; ma facendomi sedere a lei d’allato mi fe’tante carezze, che finì a strapparmi il secreto.
— Povera Augusta! diss’ella quando le ebbi tutto confidato. Forse che saprà ancora apprezzarvi.
— No, mai, cara zia: ma ve ne prego, non vi prenda di me disturbo; io saprò uscir d’affanno fra non molto. Parlava con tuono calmo e risoluto; la zia mi approvò.
— Foste sempre la migliore delle mie figlie, mi disse con affetto, e vi so grado d’aver posto fiducia in me. Non avevo intenzione di assentarmi dalla casa quest’estate, ma ora sono decisa a condurvi in riva al mare. Avete bisogno di cambiar aria, figliuola cara!
Mi baciò, e rammento la dolcezza che fu per me sentirmi in quella sera vicina alla mia buona zia, in cospetto di un bel cielo stellato. L’usignuolo cantava nel giardino, come in quella sera memoranda in cui sentii a spezzarmisi il cuore.
— Sì, avete bisogno di un cambiamento, ripetè la zia.
Ohime! il cambiamento venne coll’indomani. Mia zia, facendosi aspettare per l’asciolvere, salii nella sua camera, e la trovai pacificamente addormentata. Ma questo sonno era troppo calmo, troppo profondo! Quegli occhi, che la vigilia appena si erano fissi su di me con tanta tenerezza, non dovevano più riaprirsi; la voce, che non formava accenti che per lodare e benedire, doveva restar muta per sempre.

Non era certo colpa di Jessie, se il di lei marito era il più prossimo erede di mia zia, la quale d’altronde non aveva lasciato gran che; ma stentai molto a darmene pace. Povera ziuccia! essa aveva sempre l’intenzione di fare un testamento in mio favore, ma la morte l’aveva sorpresa prima che avesse messo il progetto in esecuzione.
Il signor Norris si condusse, fu detto, assai generosamente a mio riguardo. Ecco quali furono le sue generosità. Mi lasciò il pianoforte, alcuni oggetti meno rilevanti, e tutto il vestiario di mia zia.
Serbò per sè i gioielli, che erano bellissimi, e tutti i mobili, i quali, a suo dire, non potevano servirmi a nulla. Inoltre mi permise di rimanere al cottage fino al 25 marzo, e non era poi gran favore, poichè la pigione fosse pagata, ed egli non potesse dimorare in due case ad un tempo.
Dio mi perdoni, ma credo di essermi abbandonata ad una disperazione riprovevole, durante i tristi giorni che seguirono questi avvenimenti. Avevo alcuni amici, i quali fecero, o piuttosto dissero tutto quanto poterono per consolarmi; ma ce ne fu uno che non venne mai a trovarmi, che mai non mi diede il menomo segno di vita, che mi lasciò lottar sola, nella mia sventura, senza stendermi una mano soccorritrice.
Avrebbe potuto scrivermi una parola, compatire al mio dolore, ma non fece nulla. Eppure era nelle mie vicinanze, lo si vedeva spesso da mistriss Norris; Jessie me lo diceva essa stessa. È ben vero che aveva degli affari insieme al signor Norris.
Vi si recava spesso, e ben presto fece ancor più. Una mattina il signor Norris fece una caduta da cavallo, e fu portato cadavere a casa sua. Jessie divenne vedova, e vedova poco provveduta, poichè dicevano che il signor Norris non era cosi ricco come si aveva creduto; lasciava anzi dei debiti. Io non fui a trovar la vedova che una volta, e la trovai asciutta, dura, diffidente sotto il colpo della sua afflizione. Pure ci sarei ritornata, se il signor Thompson non fosse stato l’esecutore testamentario del signor Norris. Una tale circostanza lo riconduceva troppo spesso dalla di lui vedova, perchè io non temessi di essere d’impaccio tra essa e lui. E poi, sarò schietta, non mi piaceva di vederlo in quel posto.
La signora Gray veniva spesso a trovarmi, e non posso dire che le sue visite fossero per me una gradita distrazione. Essa mi soffocava di consigli, e mi spacciava molte nuove che avrei preferito di non sapere. Che importava a me se gli affari della successione lo trattenevano cosi spesso e cosi tardi presso Jessie? Erano liberi entrambi; se trovava opportuno di perdonarle e di sposarla, e se essa dal canto suo trovava conveniente di passare a nuove nozze, che potea ciò importarmi?
Eppure io non era così indifferente, come mi sforzava di parere, poiché quando la signora Gray mi ebbe lasciato un dopo pranzo di febbraio, io mi sentii la creatura più infelice e più deserta del mondo. Il signor Gray aveva di bel nuovo toccato spietatamente questa corda sensibile, per me sì crudele. Il signor Thompson pareva innamoratissimo della Norris:
«E pensate un po’ mia cara, aveva aggiunto la signora Gray, egli credeva che foste partita; parve tutto sorpreso quando gli ebbi detto che vi ho vista domenica. — Come, non è dessa a Londra? richiese. — No, replicai; che cosa andrebbe a fare a Londra? Non rispose a una tal domanda, ma da quanto disse vidi che voi eravate alla vigilia di maritarvi.
— Glielo auguro, risposi; alla sua età è duró il vedersi cosi isolata!
Non dubito che egli non sia dello stesso parere; egli compiange le orfanelle del pari che le vedovelle, ed è per certo affinchè mistriss Norris non s’accorga troppo del suo isolamento, che va a trovarla sì di frequente.»
Si può indovinare con quali sentimenti io ascoltassi tutte questo ciarle.
lo era seduta dinanzi il camino, abbandonandomi a’ miei tristi pensieri. Avea nevicato in quel giorno; il cielo grigio, il giardino coperto di un bianco tappeto e il silenzio che regnava di fuori nella campagna avevano qualche cosa di cupo che aggravava la mia tristezza. Pure non ero affatto sola.
Al principio dell’inverno avevo raccolto un povero cane errante, mezzo morto di fame, e sebbene non fosse di razza pura, io mi ci ero affezionata. Aveva rinunziato alle sue abitudini vagabonde, e dormiva in quel momento a’ miei piedi sul tappeto del focolare: povero Tell! Egli non si curava delıl’ avvenire: eppure, quanto tempo mi sarebbe concesso di tenerlo? E se io lo abbandonava, chi consentirebbe a pigliarselo? Non aveva per lui nè gioventù nè bellezza, non aveva che la sua affezione, e chi se ne curava? Le lagrime mi vennero agli occhi. Non erano che lagrime di pietà pel povero animale? Mi pare che pensassi anche ad altra cosa!
. . . . . Non so quanto tempo fosse trascorso dalla partenza della signora Gray, quando Tell si mise tutto ad un tratto ad abbaiare. S’intese il campanello dalla griglia del giardino, e vidi un’ombra nera a passare dinanzi alla mia finestra; poi Nancy, la mia servetta, aperse l’uscio della sala dicendo:
— Il signor Thompoon, signorina.
M’alzai. Entrò tenendo come al solito il suo ombrello. Tell gli andò incontro, scodinzolando in segno di buona accoglienza.
Io non poteva formar voce, tant’ero agitata, persuasissima che il signor Thompson veniva ad annunziarmi i suoi sponsali colla vedova Norris, e a chiedermi di andar a stare con essi. Forse, siccome la mia cugina gli aveva detto per certo che io partita, venendo a sapere la verità aveva provato una certa vergogna della sua indifferenza, e veniva a portarmi una scusa. Non me ne fece alcuna; ma chiedendomi come stavo, prese una sedia mi guardò fisso, e senza attender risposta, espresse il grande timore ch’io fossi indisposta.
— No, risposi affettando freddezza, non sono per nulla indisposta; spero che voi pure stiate bene, signor Thomson.
Mi rispose affermativamente, e si mise a guardare il fuoco. Restammo un momento silenziosi. Parlai la prima, e la mia osservazione non fu guari graziosa.
— Ho sentito dire che siete tanto occupato, ch’io non m’aspettava di vedervi.
Poi mi pentii tosto d’aver detto queste parole. Poteva immaginarsi ch’io gli serbassi rancore per la sua lunga assenza, e per certo non lo serbavo; ma accettando di buona grazia il rimprovero, mi rispose che era stato infatti occupatissimo, ma che tutto era a quest’ora finito. — Mistriss Norris, aggiunse, era partita l’istessa mattina.
I battiti del mio cuore raddoppiarono, ma stetti zitta.
— Essa è partita poco soddisfatta, proseguì. S’aspettava un po’ meglio delle cento lire sterline di reddito che le ha lasciato il Norris, con qualche gioiello. Il suo matrimonio sarà stata una magra speculazione…. e codeste speculazioni non si possono ripetere sovente; ad in ogni modo, se ne facesse una seconda, come la prima, capirete che non sarò io quello che la compiangerà di molto.
Io capiva senz’altro; ma un tal linguaggio ironico e duro mi affliggeva.
— Credo un tantino, soggiunse, che l’amabil vedova si aspettasse di veder terminare altrimenti i nostri conti d’eredità. Fu anche insinuato dai vicini, ch’io fossi disposto a colmare il deficit. Questo rumore è giunto fino a voi?
Io non poteva negarlo: un vivo rossore mi salì al viso. Baibettai non so quali parole.
— Ah! me l’aspettavo, riprese visibilmente indispettito. La gente è buona davvero! E voi ci avete creduto? Avevo sperato che mi conosceste meglio.
Il di lui sguardo esprimeva un poco di malumore; ma io non pensai a giustificarmi. Finalmente mi chiese aria piuttosto cerimoniosa il permesso di parlarmi dell’affare che lo conduceva.
Dunque era ancora un affare! Arrossi della mia pazzia, di cui non ero ancora guarita, e lo pregai di spiegarsi.

Il signor Thompson parlò di mia zia, dell’affezione di questa degna donna per me, del mio isolamento, e dopo molti giri estranei alla sua solita franchezza, giungendo allo scopo della sua visita, espresse finalmente il desiderio di provvedere alla mia sorte.
— Ma, aggiunse con esitanza, l’asilo che vi offersi altre volte non vi può più essere offerto che prevenendo una interpretazione maligna e offrendovi nel tempo stesso il nome di mistriss Thompson.
Sposata per carita!.. Tale mi parve questa proposizione.
— Signor Thompson, esclamai con dispetto, non mi sono meritata codesta…. Qui, Tell!
Il mio buon Tell venne ad appoggiare la testa sulle mie ginocchia, e mi guardò attento, come se cercasse di leggere ne’ miei occhi.
— Era un povero cane abbandonato, dissi mostrandolo al signor Thompson, moriva di fame e gli diedi asilo; non volle più lasciarmi e si affezionò a me. Ma signor Thompson, io non sono caduta sì basso che debba mettermi al livello di questa povera bestia. Posso provvedere alla mia sorte.
Il signor Thompson si rovesciò indietro sulla sedia, sentendomi a interpretare in tal modo la sua proposizione.
— Per verità, disse, posso capire che voi siate indifferente, ma io non mi aspettava questa interpretazione del mio passo.
— E come vorreste che io l’interpretassi esclamai. Voi m’offrite la vostra pietà, ed io sdegno la pietà. Ah! signor Thompson, s’io non fossi la povera figlia negletta che sono, mi parlereste voi in tal modo? Pensate voi ch’io non sappia come le giovani ricche sono ricercate e ottenute? Se voi aveste un’ombra di affezione per me, osereste voi tenermi un simile linguaggio?
— Augusta, dissemi, credevo d’essere meglio conosciuto da voi. Alla mia età, col mio carattere schietto, si deve andar dritto allo scopo. Ho fatto un passo da collegiale quando cominciai a chiedere il cuore di Jessie, prima di chiederle la mano. Ora non voglio farne un altro. Ditemi se voi acconsentite a sposarmi si o no.
Non so qual demone m’agitasse in quel punto. Dissi un no riciso. Oh! come avrei voluto ritrattare quel no; ma era pronunciato, e Thompson si alzò con aria conturbata. Mi salutò con sussieguo ed uscì.
L’uscio si chiuse su di lui; sentii il cancello a scricchiolar sui suoi cardini.
— È fatta, non tornerà più, diss’io. È altiero quanto me. — E mi posi a singhiozzare, celandomi il viso sul cuscino del sofà.
Tutto ad un tratto il muso freddo del povero Tell venne a lambirmi la mano che io lasciava pendermi al fianco, tra le pieghe della mia veste.
In capo ad alcuni minuti io sollevai il capo. Il signor Thompson mi stava ritto dinanzi, pallido, ed agitato.
— Ho scordato l’ombrello — disse con un’aria impacciata.
Era vero. Per la prima volta in vita sua aveva dimenticato quell’antipatico ombrello, al quale solo, a mio credere, io doveva questo ritorno insperato.
Si, certo, era lì in un angolo; ma invece d’andarlo a pigliare, il signor scrittore Thompson venne a sedere presso di me sul sofà. Mi prese la mano e se la porto alle labbra.
— Ah! mi disse, voi piangevate! Vi sapea male di esservi lasciata sfuggire quel no che mi facea partire triste ed infelice?
— Triste ed infelice fino a farvi dimenticare il vostro ombrello, risposi; il vostro ombrello pel quale siete tornato…..
— Forse — diss’egli con quel sorriso che era particolare; — ma infin dei conti sono tornato. Perchè non confesserò che mi sono fermato dinanzi alla finestra? Vi ho veduta a nascondere il viso su questo cuscino, e Tell che vi guardava con tutta la compassione di cui un cane è capace….. Sì, io sono tornato indietro per prendere l’ombrello….. ma vi giuro, Augusta, che l’avevo dimenticato a posta.
Forse non mi diceva proprio la verità; ma guardandolo in faccia non lo credetti allora, e sebbene vent’anni siano trascorsi dal nostro matrimonio, non lo credo neppur oggi.

Grazie a L’illustrazione popolare 1869 – 1870
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Charles John Huffam Dickens (Landport, Portsmouth, 7 febbraio 1812 – Gads Hill Place, 9 giugno 1870) è stato uno scrittore inglese. Ha creato alcuni dei personaggi di fantasia più conosciuti al mondo ed è considerato da molti il ​​più grande romanziere dell’era vittoriana. (Wiki)