LAGUNA DI VENEZIA

Articolo pubblicato nel 1835

Nella parte settentrionale d’Italia, sul finire della valle che sta fra i colli Euganei e l’Adriatico, e appunto verso al mare, fra la foce della Piave a Oriente e quella dell’Adige a Ponente, s’impaludano alcune acque attraverso le quali varj torrenti si devolvono al mare: queste formano la laguna veneziana che in antico chiamavasi Estuario Altino.
Questa valle lunga circa trenta miglia e larga quasi sei, costituisce la veneta laguna: in essa, a varie distanze, sorgono molti banchi di terra: l’arte fe’ di queste prominenze altrettante isole feraci, popolose, commerciali, ed ove ne erano in maggior copia vicine, riunendole con ponti, si alzò Venezia, la quale consta di 60 isole, di 149 canali, di 306 ponti, di 27,918 case, di 2,108 vie o cali ed ora è abitata da 100 mila, ed una volta da 190,000 persone; città maravigliosa che siede a diritto regiña delle acque.

Dighe naturali della laguna.

La laguna dalla parte che confina col golfo non è tutto scoperta; allora il flutto burrascoso andrebbe a flagellare le isolette dell’estuario, le quali non avendo la consistenza di quelle che sporgono in mezzo a pelaghi immensi, verrebbero di leggieri distrutte; ne sarebbe durato a lungo questo seno, nè i veneti primi avrebbero quivi fondate tanta città e paesi.
Corre da levante a ponente fra la laguna e il mare una linea di isole nella lunghezza di forse diciotto miglia e larghe solo qualche centinajo di tese, le quali sono quasi dalla natura disposte siccome diga contro il mare. I luoghi poi che questi protratti banchi di terra lasciano fra l’uno e l’altro aperti, forniscono a’ Veneziani sei porti all’Adriatico.
Queste isole che strette e lunghe, quasi antemurali a Venezia, stanno abbandonate alla furia degli elementi, non vanno però spoglie di abitanti. L’umano ardire, che pone la sua sede sui vulcani ed alza le case sulle lave ancora calde, che si ferma sul suolo vacillante per continui scuotimenti, qui pure stette su poca terra e osò opporre l’opera propria alle ire della natura.
Lungo quelle sponde si vedono fabbricate molte case strette e semplici che guardano da un lato il mare e dall’ altro la laguna, spesso interrotte da brevi spazj che le distaccano; sicchè correndo quella spiaggia vedesi una lunga lista di paese trasparente, in fine alla quale trovasi la ridente città di Chioggia: tutta la spiaggia è popolosa circa di 31,019 abitanti.
Mente industriosa, forte braccio e ardito cuore porgono modo a trovare sussistenza agli abitatori di tai litorali. Di là si partono molti di que’ destri che conducono fra i canali di Venezia le gondole sguizzanti e preste, di là coloro che con toppi o barche di mezzana mole, tengono la comunicazione fra i paesi diversi dell’estuario e la terra ferma, e radendo le sponde s’avventurano al mare, e ajutandosi delle vele e de’ remi s’inoltrano a condurre le mercanzie fino a Trieste. Quivi trasceglieva la repubblica molti de’ marinai che su bastimenti mettevano per gli immensi mari e approdavano a lontani lidi; di qui estraeva parecchi de’ suoi prodi sull’acque ed in terra.
Le donne restano nelle case co’ figli e intendono ad alcuni lavori di mano, e vedemmo molte a Pelestrina assise in una stradella che divide due case, occupate a fare merletti. Gli abitatori di questi lidi, sono forti e rubizzi, con teste di gran carattere, pronti di lingua e di mano qui è dove il gran Tiziano studió la natura e prese i modelli di quelle figure che hanno tanta verità e colorito, sebbene talora poca nobiltà: qui dove Goldoni per comporre le Gare Ciozzotte, trovò que’ caratteri originali, chiassosi, rissosi: ma qui è dove fors’ anche s’inspirò a creare quello dolce della Buona Muggier.
La poca terra che resta oltre alle case e la via che dilungandosi dinanzi ad esse le mette in communicazione, viene da que’ destri abitatori coltivata a ortaglie, a vigneti e a varj cereali. Su quelle spiagge si solevano gittare le spazzature della laguna, che è una terra nera, tenace, salsa, e quegl’isolani la spartirono sul lido, chiusero i bassi fondi, eguagliarono quelle lande, e le fecondarono colla diuturna fatica, le strinsero a rispondere a tante cure.
La città mandava ad essi il lezzo e le proprie sozzure, nulla badando se queste potessero corrompere loro l’aria dello scarso suolo che ebbero in retaggio, ed essi mettendo a profitto anche quanto potea riescire loro fatale, lo coltivarono sì che divenne fertile ed ubertoso.
Nè questa sola è la fatica che essi durano, ma siccome l’impeto de’ venti marini abbatterebbe tutte le piante che ivi allignano, o l’aria pregna di vapori infesti ai vegetabili e l’acqua salsa trasportata dalle buffere, sarebbero micidiali alle erbe ed agli arbusti, e struggerebbero le loro speranze; pongono studio nel tenere bassi assai forse meno d’un uomo, i frutteti e le vigne.
Nè ciò solo, ma ad ogni breve tratto, a ogni filare di pianta o di viti, negli orti ad ogni poche ajuole, alzano siepi densissime connesse di canne di forse cinque piedi di altezza, disposte tutte a un modo che infrangono il malefico spiro del mare, e difendono la vegetazione.
E invero è gradito vedere dai luoghi erti, questo continuo labirinto di canneti, e intendendone l’ufficio, si sente commozione che l’umana industria sappia con ogni sottile ingegno procacciare salvezza alle produzioni della natura contro la natura stessa, ove più matrigna che benefica s’attenta di struggere que’ prodotti che ella porge feconda, a sussidio de’ viventi.

I Murazzi o Dighe artificiali.

Però queste scogliere di sabbia in alcuni luoghi sono sì sottili che non varrebbero contro il flutto, alcune sì basse che sono al livello dell’ Adriatico; quindi il mare talora le franse o superatele, riverso l’onde nella laguna per vie inusitate; quindi minacció, o minandole insidioso col girare degli anni, o combattendole colla ferità delle tempeste, di tutte distruggere tai naturali difese al veneto estuario.
Quindi i Veneziani pensarono a ripararvi con dighe le quali in antico erano un misto di ciottoli e terra in mezzo a una palafitta, ma nel secolo passato pensarono di farne di grandiose e durevoli, e col disegno e consiglio dell’esimio matematico Zendrini architetto della repubblica elevarono i Murazzi; de’ quali tanto parlarono i viaggiatori; non sarà inutile riferire come siano costrutti.
Si fecero fondamenta di ciottoli ben compressi e ordinati, che o poggiavano sull’ arena, se consistente, o sur una stipata palafitta. Sopra questi ciottoli si elevarono immense mura o bastioni dello spessore di metri 13 e 13 e c. 50 e al più 14; e dell’altezza di metri 4 e c. 50 sopra la marea o pelo alto del mare, interamente connessi di grandi ed alte lastre di marmo cementate di terra pozzolana.
Questi Murazzi dal lato che guardano la laguna, si levano dall’ acque in linea verticale, come il bastione di una fortezza; dal lato del mare invece si dividono a piani che presentano faccie quali verticali e quali orizzontali. Il primo piano che è al dissotto del livello del mare e pesca quali, sempre nell’acqua, è scompartito a due tre gradinate eguali; seguono indi due grandi piani o direbbesi due immensi scaglioni larghi molti piedi, le cui lince orizzontali hanno qualche declivio al mare.
Finalmente l’ultimo è più eminente, stretto come ciglione o cresta, torreggia e vi fa intorno corona quasi continuati merli di una fortezza; però non è sì stretto che vi possano camminare senza pericolo due uomini appajati e forma con certi massi prominenti come un addentellato che sporge in fuori.
In altri litorali ove la natura del luogo sussidiava in parte, non si levò che un gran muro o bastione un po’, in declivio verso il mare, tutto di marmo cementato a pozzolana: queste dighe tengono una linea complessiva di metri 12,650, intorno a 7 miglia e importarono tredici milioni, novecento settantasei mila e cento ottanta lire austriache.
Questi sono i Murazzi colossali della laguna veneta che alcuni non credendo che i moderni valessero ad opere tanto ardimentose, spacciarono per lavori romani; ma lo stesso monumento reca improntata la storia della propria costruzione in circa quaranta iscrizioni, che visitai e lessi, poste ogni anno che se ne costruiva una parte. Il primo murazzo è segnato con queste semplici parole A DI 24 AP. A. 1744; l’ultima iscrizione è del 1782 ai Murazzi di Pelestrina. Quindi opera si immane levava la repubblica veneta nella seconda parte del secolo passato, quando già declinava la sua grandezza; tanto erano vasti i pensieri di quel senato, che potè siedere intero ed eguale più lungamente di quello di Roma.
Restavano ancora alcune parti con fragile difesa, sicchè nel 1825 vennero superate dalle tempeste che portarono lo spavento fin ne’ canali di Venezia. Allora il governo austriaco ordinò di riattare alcuni Murazzi che avean sofferto e di fare altre dighe di una costruzione meno dispendiosa, ma che opponessero valida resistenza al mare, e di condurre innanzi una interna a Malamocco, incominciata dal Governo francese; se ne fecero metri 4,857 e si spesero 1,856,800 lire austriache.
In questo modo è recinto il veneto estuario, è rassicurato dal furore delle tempeste.

Navigazione interna della laguna.

Di questi disordinati fiumi, tortuosi, di letto ineguale, che attraversano l’estuario, l’industria umana ne fe’ tanti canali, i quali sostenendo non pure le barche ma i bastimenti, mettono Venezia in communicazione col mare, colla terra ferma e colle isole della laguna.
Siccome poi questi grandi canali non soccorrono a tutti i bisogni delle diverse comunicazioni, se ne fecero altri di sussidio interamente scavati nel fondo della palude, i quali portano barche di convenevole mole, e di tai canali specialmente se ne condussero lungo tutti i litorali e fra le isole; a questi’ pur talora altri minori se ne aggiunsero di comunicazioni intermedie colà denominati Cavane.
Sì i grandi che i piccioli canali, onde non restino impacciati dalla belletta che vi depongono le acque nell’alternar della marca, si tengono del continuo netti e d’ eguale profondità, con improba arte e fatica, dove con larghe zappe adoperate a mano d’uomo, dove con immensi spazzafanghi, mossi da macchine, recate sur apposite barche.
La terra che si leva viene deposta sui litorali e vale o ad afforzare le dighe naturali o in sussidio ai lavori artificiali; talora la si accumula in un sol luogo, e terra aggiungendosi a terra si forma una nuova isola, quale è quella ora formata presso santa Marta, e in cui è il campo d’armi.
Ma come mai condurre una barca, una gondola sopra tanta congerie di acque che collo stesso livello tutto ricoprono e i banchi di terra, e i rialzi di fogna, e i fondi più bassi, e tenersi sulla linea di canali sotto scavati e non dar in secco? Il viaggiatore che per la prima volta solca l’Adriatico lago, lo vede disseminato di grandi e moltiplici pali; meraviglia di ciò, nè sa che ove questi non fossero, invano destrezza di gondoliere giungerebbe a condurlo alla città meravigliosa che si vede d’innanzi.
Diversi di numero e di nomi sono tutti di necessità questi piantoni. A lato dei canali o vie acquee, lungo le loro sponde subacquee o tempi come li denominano a Venezia, sono piantati continuamente a conveniente distanza, ove un isolato tronco d’albero che dicesi meta, ove una palina che è una meta a cui sono intorno piantati altri tre pali per afforzarla e di minore altezza della prima; ove una bricola ossia tre pali piantati in triangolo a qualche distanza fra loro e legati assieme con legni orizzontali, o filagne, che girano intorno al triangolo, e sono inchiodati su tutti e tre i lati, poco sotto la sommità. Questi tutti sono disposti di fila succedendo gli uni agli altri; siccome richiede il bisogno, e sono destinati unicamente per additare il giro delle vie subacquee ai naviganti.
Vi hanno inoltre: la carega o il faro, che è un sistema di venti o trenta pali fitti a qualche distanza fra loro colle teste in uno stesso orizzonte e in modo che formino un quadrato; ogni fila poi di essi, è legata o inchiodata a filagne orizzontali poco sotto alle loro sommità: il gruppo che è l’unione di venti o trenta pali l’uno toccante ed inchiodato all’ altro entro uno spazio circolare, tutti co’ capi in uno stesso orizzonte.
Le careghe o fari e i gruppi si fissano essi pure lungo i tempi de’ canali dell’ estuario, e specialmente di quelli che mettono in comunicazione la capitale col mare, e segnano o alcuni banchi resistenti che conviene evitare a’ remiganti, o valgono, come si dice a Venezia, a gegognare i legni di maggior grandezza; ciò si fa fermando a questi resistenti gruppi di pali, lunghe corde del bastimento che vuolsi muovere, le quali avvolte con manubri al molinello dello stesso bastimento, e accorciandosi fanno sì che esso progredisca, sebbene lentamente.
In tal modo da una carega, da un gruppo all’ altro, rinnovandosi ogni volta lo stesso artificio in mancanza del poter usare le vele, si traggono a Venezia le maggiori navi da guerra o da carico, quando non si tirano a rimurchio, diminuendone però sempre prima il peso, perchè l’acqua bassa possa sorreggerle.
Quindi è facile vedere come levati alla laguna tutti questi segnali, ne è intercetta ogni navigazione, ed in istato di nemica offesa, ove tutti siano tolti, riesca quasi impossibile che navi straniere possano avvicinarsi alla regina dell’Adria.
Così tutte queste acquee vie, come le vene al corpo umano, comunicano fra Venezia il mare e la terra ferma, e solo mercè l’opera di barche o gondole, può succedere questa scambievole approssimazione di luoghi.

Rivoluzioni commerciali dell’estuario.

Dopo che i Veneziani incominciarono a ridursi ad abitare Rivo Alto, e di quindi estesero le piccole capanne, e queste si a poco a poco moltiplicarono ed aggrandirono, che se ne formò tanta magnifica città, e vi portarono la sede del governo e si fecero potenti in terra ed in mare per otto secoli successivi; il commercio della laguna sempre prosperò e crebbe.
Di quivi uscivano le navi che spingeansi a solcare tutti i mari, di quivi quegli antichi mercatanti che inoltravano ad esercitare i commerci fino nelle terre più lontane, di quivi un Marco Polo che primo osò traversare deserti e regni sconosciuti, e narrare a’ suoi concittadini nuovi costumi e nuove genti.
Il commercio d’Oriente si faceva tutto per mano de’ Veneziani, le stoffe, i cereali, gli aromi dell’ Asia, soleando il mare Indiano e il mar Rosso si fermavano all’istmo, e venivano depositate in Egitto e di colà i Veneziani pel Mediterraneo e pel golfo le portavano colle proprie navi nell’estuario, d’onde le spargevano per tutta Europa. Quindi una sola città, un popolo, facea quel commercio che or dividono Spagna, Italia, Francia, Inghilterra e Olanda; quindi tante ricchezze adunate in Venezia, talchè mentre lo stato levava templi stupendi che rivaleggiano quelli di Roma, e un palazzo ai loro dogi che era ad un tempo una reggia e un’ Accademia di belle arti, i privatì si fabbricavano sulla palafitta di preziosi legni indiani, splendidi palagi di marmo che vincono que’ fabbricati da principi e da signori dello stato a Roma ed a Firenze.
Tra tanta frequenza di commercio, Venezia non ebbe mai porto franco, eppure la necessità ivi traeva a far magazzeno di tutte le mercanzie.
Ma Vasco Gama osò addoppiare il capo delle tempeste, s’apri una nuova strada di communicazione fra l’Oriente e l’Europa e tramontò la fortuna di Venezia. I Veneziani pretendevano d’impedire questo commercio, e siccome fossero i mari in loro proprietà, ordinarono al Soldano d’Egitto di cacciare i Portoghesi dalle sue terre; proposero di aprire una comunicazione fra il Mediterraneo e il mar Rosso sull’istmo di Suez, e nel 1521 offrirono fino al re di Portogallo, di comperare tutte le droghe che arrivavano ne’ suoi porti dalle Indie: questi rifiutò ed essi per vendetta levarono i diritti di dogana alle merci che venivano direttamente dall’Egitto a Venezia, e caricavano quelle che erano portate dai Portoghesi per la nuova strada.
Ecco un principio di portofranco; ma poco valse: le sorti erano mutate. Cosimo I nel 1543 faceva porto-franco Livorno e diede l’ultimo crollo al commercio di Venezia. I Veneziani di mandarono lo stesso privilegio, ma il Senato nol volle concedere, diminuì alcune gabelle, nel 1662 concesse un porto franco, ma non durò che venti anni, e ritornò all’ istituzione antica; gli uomini sovente sono più immobili delle piante; ma il commercio che corre come la ruota della fortuna, scemò affatto a Venezia e segnò il principio della sua ruina.
Caduta nel 1798 la repubblica, Venezia perdette anche le poche franchigie commerciali che aveva; e solo nel 1808 vi fu dato un porto-franco nell’isola di San Giorgio, ma la città era squallida, il commercio riclamava un sussidio, e nel 1830 fu da S. M. l’Imperatore Francesco I concesso il porto-franco all’intera città ed a molte isole dell’ estuario. Si riscossero gli animi de’ Veneziani a quella concessione, e si elevarono a nuove speranze. Dopo il passaggio del Capo, dopochè il commercio è diviso fra tante nazioni, Venezia non potrà mai riprendere l’antica grandezza commerciale; però si può ristorare dai sostenuti disastri, e porsi al livello degli altri porti-franchi d’Europa.

DEFENDENTE SACCHI.



Articolo di Defendente Sacchi tratto da: Cosmorama pittorico
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