La farfalla blu e lo zotico della caverna

REV. J. W. HARDMAN, LL.D.

CAPITOLO I

“C’era una volta” – sai che è il modo giusto per iniziare una storia, c’era una fata molto dolce e buona, e siccome le fate non hanno biglietti da visita, era solita farsi riconoscere dalle altre fate tenendo sempre con sé una farfalla blu molto grande e bella. Di solito si appollaiava sulla cima della sua lunga bacchetta d’avorio, o volava in piccoli cerchi intorno ad essa. Si sarebbe pensato che fosse incatenata ad essa, ma no, amava così bene la sua cara padrona che non ha mai voluto volare via da lei; e quando andava a fare una visita mattutina, la farfalla arrivava svolazzando davanti a lei, e tutti dicevano, Ecco la farfalla azzurra, e la sua piccola buona padroncina deve essere a portata di mano.

Ma anche per le fate non sempre le cose vanno come desiderano! e un giorno la Fata si spaventò per aver perso la sua farfalla e si precipitò sulla riva del fiume verso il quale era volata e subito la trovò a terra mezza morta, essendo stata colpita da un sasso, e subito un altro ciottolo scagliato da una mano forte arrivò, quasi a colpire la forma scintillante della Fata stessa. Si guardò intorno, e vide dall’altra parte del ruscello un grande e grezzo ragazzo. Non aveva cappello, e i suoi capelli erano grossolani, aggrovigliati e ruvidi; il suo viso era scuro per la sporcizia e le scottature solari, e ancora più scuro per un cipiglio selvaggio. I suoi vestiti erano solo alcune pelli di bestie selvatiche a brandelli, e le sue braccia e i suoi piedi erano nudi.

“Chi è questo selvaggio?” chiese la Fata, mentre un bracciante passava in quel momento nelle vicinanze.

“Ma”, disse lui, fissando con gli occhi aperti la bella creatura nei suoi scintillanti abiti color arcobaleno, “è Bobbin, lo zingaro zotico; è scappato da una matrigna crudele, e vive come una bestia nella caverna vicino alla cascata laggiù, e non si avvicina quasi mai alla gente, perché i ragazzi del villaggio lo inseguono e gli gridano dietro, finché non diventa quasi pazzo, e lancia pietre a ogni cosa viva che gli si avvicina, ed è molto crudele, così che lancia sempre agli uccelli e alle farfalle. “

“All’inizio la buona fata era piena di rabbia per il suo caro animaletto blu così spaventato e ferito, ma poi non era solo buona ma anche giusta, e cominciò a pensare che questo miserabile ragazzo selvaggio non era da biasimare tanto quanto quelle persone che lo avevano lasciato crescere incivile e malvagio, così disse: “Nessuno parla mai gentilmente allo zotico e cerca di insegnargli cose migliori?”

“Ma no”, disse l’uomo, “non va mai da nessuno tranne che dalla padrona Daw, alla fattoria Meadow, dove a volte ottiene un po’ di latte, perché spesso è quasi morto di fame in inverno”.

Così la Fata si mise a pensare, e accarezzò le ali della sua farfalla blu fino a che non acquistò nuova forza, e svolazzò allegramente alla luce del sole, e per tutto il tempo pensò a come avrebbe potuto trasformare il rozzo e selvaggio zotico in qualcosa di più alto e migliore – perché vedete, lei era una di quelle fate che amano rendere il mondo più luminoso e migliore. Io stesso ne ho incontrate alcune, che possono riempire gli angoli bui con la luce del sole, e che possono trasformare gli angoli duri in morbidi cuscini, e raffreddare le fronti calde, e spazzare via terribili mal di testa, e possono dare medicine per i mal di cuore. Ora sentite cosa ha fatto.

Fu una mattina o due dopo, che “la povera donna che viveva nella scarpa, e aveva così tanti bambini che non sapeva cosa fare”, fu sorpresa di vedere una piccola signora che arrivava sul viale del giardino, così si mise il suo grembiule pulito, sculacciò i bambini piccoli per tenerli buoni, e spolverò una sedia per la sconosciuta. La strana signora aveva una bizzarra richiesta: voleva comprare un bambino; doveva essere una bambina, non troppo piccola e non troppo grande. Molto volentieri la madre stanca e ansiosa, che non aveva abbastanza zuppa, né abbastanza letti, le consegnò una creaturina bianca che stava appena iniziando a gattonare, e molto volentieri ricevette una borsa piena d’oro rosso e d’argento bianco dalla strana signora, che era, anche se sotto mentite spoglie, la fata della farfalla blu.

E cosa poteva volere dal bambino? Vediamo. Il sole era tramontato quella notte, e il zotico era ritornato nella sua caverna. Era piuttosto di buon umore quella notte; aveva preso diversi pesci, e aveva scambiato il più grande con la signora Margery Daw per un boccale di latte, e ora stava per fare una grande cena. Con un pezzo di acciaio e una selce accese un mucchio di foglie secche e bastoncini scoppiettanti, e cominciò ad abbrustolire i suoi pesciolini nelle braci rosse. La grotta sembrava quasi confortevole alla luce gialla del fuoco; era abbastanza asciutta, e l’entrata era costruita con pietre e zolle, in modo che potesse entrare pochissima aria fredda. Le fessure della grotta erano state tutte rese utili.

Qui teneva una vecchia pentola di ferro che aveva raccolto e che poteva ancora essere usata; lì ripose la sua canna da pesca e l’attrezzatura, che, mi vergogno a dirlo, aveva rubato a un signore che faceva un pisolino sulla riva del fiume. In un angolo c’era un letto molto comodo, fatto di foglie di felce secche e pezzi di lana, raccolti dalle siepi, e piccole piume morbide degli uccelli. Il zotico aveva appena finito una coperta, che aveva costruito con pelli di coniglio legate insieme con spaghi, e proprio quella stessa notte stava per usarla per la prima volta quando la cena fosse finita.

Era un dolce e morbido tubare, Bobbin prese una pietra per scagliarla in quell’angolo, quando un sussurro lo raggiunse all’orecchio: “Va’ a vedere cos’è”. Penso che fosse la buona fata che era lì vicina, anche se lui era troppo stupido per notarla. Così andò a guardare, ed ecco, lì, nel suo letto, come un uccellino in un nido, giaceva un bambino così dolce e vivo, con guance rosee e grandi occhi seri. Ma al zotico volo dentro una furia terribile.

“Qualcuno mi ha fatto uno scherzo”, pensò, “e ha lasciato qui questo orribile piccolo disgraziato. Lo butterò nel fiume”. Ma quando cercò di raccoglierlo, gli sfuggì di mano, perché non sapeva come tenere i bambini. Allora afferrò una grande pietra frastagliata, ma la voce della Fata, piuttosto forte e arrabbiata, gliela fece cadere, come se fosse rovente, perché con la sua bacchetta gli diede una specie di scossa elettrica attraverso i gomiti. Proprio allora il caro piccolo bambino cominciò a tubare e a ridere piano, e tese le sue grassocce e paffute braccia, così che lui sentì, cosa che non aveva mai sentito prima, che qualcuno poteva piacergli, e fu disgustato dalla sua brutalità riguardo al fiume e alla pietra. Così accarezzò dolcemente la piccola creatura, la coprì con la coperta di pelle di coniglio e tornò al suo pesce cotto.

Di lì a poco il bambino cominciò a piangere, e poi a ululare, e poi a ruggire. “Cosa devo fare con quella cosa?” si lamentò tristemente Bobbin.

“Alzati subito, stupido idiota”, disse la Fata, un po’ severamente. “Dai al tuo piccolo affamato un po’ del tuo latte”.

Così dovette cercare il suo cucchiaio, fatto con un pezzo di legno cavo, e nutrire il bambino con la sua scodella di latte, che gli dispiaceva molto, ed era così maldestro con il grosso cucchiaio che quasi la metà del latte finì nell’orecchio e negli occhi dello sfortunato bambino.

Poi, per suo sollievo, la cosa si addormentò, ma nel mezzo della notte ricominciò a piangere, e lui non sapeva cosa fare, finché la Fata (come fosse arrivata lì al momento giusto non so dirvelo) ma credo che la farfalla blu volasse sempre intorno alla grotta, e credo che funzionasse un telefono fatato fatto di filo sottile) gli consigliò di prendere il bambino in braccio e camminare su e giù con lui, cosa che lui fece con un’espressione molto mesto.

La mattina presto andò alla fattoria Meadow; la signora Margery Daw era al lavoro per pulire le sue pentole di ottone per il latte.

“Perché sei così giù di morale, ragazzo strano?” disse lei.

“O Signora è successa una cosa terribile – c’è una cosa orribile nel mio letto!”

“È una pulce?” chiese la signora.

“È molto più grande e peggiore, e come sia arrivato lì non lo so”.

Così raccontò in modo burbero la sua straordinaria scoperta, ma la buona donna si limitò a ridere. (Chissà se era in segreto con la fata).

“Bene”, disse lei, quando poté parlare dal ridere,

Forse la persona che ha lasciato il bambino lo andrà a prendere di nuovo, ma nel frattempo devi essere gentile con la povera creatura”.

“Prendetelo voi”, supplicò lui.

“Oh no, ho troppi vitellini da nutrire; ma ti darò il latte per il tuo vitellino, è facile da allevare come il mio”.

“Ma cosa devo fare prima?” disse lui.

Ma certo, lavalo e vestilo; qui c’è un pezzo di flanella morbida, e un vestitino rosa, e un po’ di sapone, e bada a non infilargli degli spilli, né lasciare che il sapone entri negli occhi”.

Così tornò indietro, molto perplesso – “Lavalo!” come poteva farlo? Ma fuori dal cortile della fattoria trovò un vecchio calderone, usato per bollire le rape per i maiali, così con questo per cappello, e una grande brocca di latte in mano, tentò di tornare indietro.

Il bambino era sveglio, e le sue manine morbide che si stringevano intorno alle sue grandi dita dure gli toccavano il cuore ruvido. Sembrava un sentimento così strano e nuovo che potesse piacere a qualcuno, perché la sua crudele abitudine di lanciare pietre faceva scappare da lui tutti i cani e i gatti per sei miglia intorno.

E ora, con molti viaggi da e per il fiume con la vecchia pentola di ferro, riempì il bollitore di acqua gelida, poi prese un pezzo di corteccia, formò una specie di cappio e si preparò a far scendere il bambino nell’acqua. La farfalla blu era terribilmente spaventata, e la Fata dovette gridare bruscamente: “Stupido, lo ucciderai, deve essere calda”. Così versò via l’acqua fredda, accese un fuoco e fece bollire una quantità d’acqua. Era determinato ad avere ragione questa volta, e ammucchiò tanti bastoncini secchi fino a quando l’acqua fu frizzante e ribollente.

“Ora farò il bagno alla piccola seccatura”, gridò, e la povera farfalla blu era così disorientata dal vapore caldo che non riuscì a volare, quando fortunatamente la Fata guardò.

“Metti la mano dentro”, comandò prontamente, e lo stupido giovane zotico cominciò a urlare dal dolore. Lei gli insegnò bene “a non far bollire un bambino”, e gli inscatolò le orecchie con un procedimento elettrico brevettato collegato alla sua bacchetta. (boxed his hears – punizione)

Ma devo affrettarmi con il mio racconto. Guardate nella caverna un anno più avanti, e potrete vedere il bambino che correva in giro, e si è scoperto che era una bambina, e Bobbin la chiamata Doo-doo, perché aveva un modo così grazioso di dire “Doo, piselli doo”. E che cambiamento avvenne nel zotico, aveva imparato la gioia di essere amato; aveva scoperto la felicità di rendere felice qualcun altro.

E che fatica si prese ora per rendere felice quella piccola cosa che sgambettava! Catturò tordi e merli, intrecciò gabbie di vimini per farli cantare e fece un piccolo stagno rivestito di argilla e pieno di spinarelli. E in primavera fece delle catene di margherite per decorarlo, e palline di primule da lanciare; e chiese un cucciolo a Dame Margery per giocare con lei quando lui era fuori a pescare e a catturare conigli; e poi lei ebbe il suo gatto “a guscio di tartaruga” preferito.
Ah, dovreste ascoltare la storia di questo gattino. Un giorno lo zotico lo trovò che vagava, molto magro e miserabile, e lo prese con gioia selvaggia, e gli legò una grossa pietra, e stava per scagliarlo il più lontano possibile nel fiume, quando la Fata chiamò in modo molto arrabbiato: “Riportalo nella grotta come giocattolo per la piccola bambina, e vedi che sia molto più grasso prima di questa settimana!”

E poi quanto gli piacque fare bella e pulita la piccola Doo-doo per portarla a vedere Dame Margery! E un giorno Doo-doo si voltò verso di lui e disse: “Perché sei così sporco? Mi lavi le mani, perché non ti lavi le tue? Così chiese del sapone, e rubò dei vestiti allo spaventapasseri del contadino, e si lavò la faccia fino a farla brillare, e provò a pettinarsi con la pelle di un riccio, ma questo fu a stento un successo.

E poi per insegnare a parlare a Doo-doo e al suo storno domestico, imparò a parlare un po’ come le altre persone. E la piccola era una bambina dagli occhi così brillanti e dal viso roseo, con lunghi capelli biondi che ondeggiavano nella brezza, e i piedi nudi, che poteva scalare la roccia più ripida, e non era peggio per guadare nelle scintillanti pozze di sabbia del torrente. Era così allegra e felice, e insegnò al povero rozzo zotico a cogliere qualcosa della sua dolcezza e della sua innocente allegria. E Bobbin fu così buono e gentile con lei che la farfalla blu poté tornare al sua attività regolare; e la buona Fata gioì del successo del suo esperimento.

Mi piacerebbe raccontarvi di più di quella ragazzina allegra e ridente, e di come ha addestrato il suo grande schiavo rozzo, e gli ha dato ordini, e lo ha rimproverato quando non era così gentile e buono come lei pensava dovesse essere. Ma sentirete come questa strana collaborazione si è conclusa, e il coraggio di Bobbin sotto la direzione di “Doo-doo” ha fatto la sua fortuna!

CAPITOLO II

A due o tre miglia di distanza c’era la Grande Casa, dove viveva un ricco possidente, con suo figlio, un giovanotto vivace, che passava il suo tempo a cavalcare e a cacciare. Un giorno, quando era fuori con i suoi cacciatori e servitori, si separò da loro in cerca di una lepre perduta, e si imbatté in Bobbin che raccoglieva dei bastoni e Doo-doo che cercava di catturare la farfalla blu, che era appena passata a guardarli.

“Da che parte è andata la lepre?” gridò il signorotto, mentre cavalcava a tutta velocità. Ma Bobbin in qualche modo aveva avuto più pietà del solito, e ricordò come si era sentito quando una dozzina di uomini e ragazzi del il villaggio lo aveva inseguito con colpi e grida fino a farlo cadere, così, devo confessare, in modo molto cupo, rispose: “Non te lo posso dire”.
Il giovane scudiero, con il suo corno montato in oro in mano stava per chiamare i suoi compagni, non era mai stato abituato a non vedersi rifiutare nulla, e ora volava in una collera. «Insolente cagnaccio», disse, «ti insegnerò a parlare con un gentiluomo», e gli colpì violentemente la fronte con il frustino mentre si allontanava.
Bobbin altrettanto arrabbiato afferrò un sasso, quando una vocina dall’altra parte della siepe disse: “Eri proprio così che apparivi quando lanciasti il ​​sasso al cane che ti abbaiava, e quando gli spezzasti una gamba” e si vergognava al pensiero del suo temperamento selvaggio, così simile a quello del giovanotto, lasciò cadere la pietra, prese per mano il piccolo Doo-doo e tornò alla caverna, dove lei bagnò la grande piaga rossa sulla sua fronte, ci tenne sopra uno straccio fresco e bagnato, mentre giaceva all’ombra, e la piccola fanciulla mentre lo inumidiva gli faceva la predica sul suo carattere selvaggio e cattivo, che gli diceva che lo avrebbe portato sicuramente ad essere impiccato, e con un bastone bruciato disegnò allegramente sul fianco della roccia una figura appesa a una forca!

Qualche settimana dopo il giovane signorotto scese sulla riva del fiume. Stava provando un nuovo cavallo, che suo padre stava per comprare per il suo unico figlio, che, in quanto tale, ed essendo l’erede, era assecondato in ogni modo – ma chiunque avrebbe detto che era un bel tipo, con la sua alta fronte bianca e i riccioli ondulati e gli occhi luminosi; e vestito, anche, con la giacca da equitazione ricamata e un pennacchio bianco nel cappello.
Doo-doo era seduta sulla riva a raggruppare le primule mentre scendeva sul ponte. Bobbin era fuori dalla visuale, dall’altra parte del parco, sopra lo stagno nero e scuro, chiamato il Calderone del Demone, impegnato a pescare le trote. Il ponte era un vecchio ponte di legno traballante, e quando il cavallo ci mise sopra gli zoccoli cominciò ad arretrare e ad indietreggiare.
Aveva paura del suono vuoto che i suoi piedi facevano su di esso. Il giovane signorotto lo costrinse a salire, ma il cavallo resistette. Il suo padrone perse la calma e lo incitò con la frusta e lo sperone, quando improvvisamente sbandò di lato e con un balzo selvaggio si tuffò nel fiume! Penso che il giovane deve essere stato colpito alla testa da uno degli zoccoli del cavallo, mentre si disimpegnava dalla sella, perché il suo corpo galleggiava lungo la rapida corrente, impigliato con le redini, mentre il cavallo nuotava verso la riva. Doo-doo aveva visto tutto, e corse a tutta velocità da Bobbin. “Il giovane signorotto sta annegando”, esclamò, senza fiato. Un pensiero malvagio salì nella mente di Bobbin – “Lasciatelo affogare!” Ma Doo-doo gridò: “Oh, salvalo, da bravo Bobbin; e non pensare al taglio della frusta”.
Così lo zotico gettò a terra la sua canna, e con la velocità con cui andavano le sue goffe membra si precipitò verso l’ansa del torrente. Appena oltre c’era il buco nero e profondo dove l’acqua vorticava.
Il cavallo si era liberato dal giovane e il suo corpo, ancora privo di sensi, si sollevò per un momento sulla superficie. Bobbin si avvicinò all’estremità di un albero sporgente che con una mano afferrò; con l’altra cercò di afferrare l’oggetto galleggiante, che doveva essere portato vicino a dove si era aggrappato dal corso del vortice. Ora galleggiava presso il cappello, con la sua piuma bagnata e strascicata; e ora per l’ultima volta la forma del giovane scudiero salì in superficie.

Con uno sforzo disperato Bobbin lo afferrò. Il ramo sottile si piegò e si spezzò, ma non cedette. In pochi istanti il giovane annegato era disteso sulla riva! Non c’è bisogno di dirvi come la fata sussurrò a Doo-doo di trovare una fiaschetta d’argento nella tasca della sua giacca; come, sotto l’influenza del cordiale, si rianimò; di come Bobbin lo portò e lo trascinò fino alla grotta; come cambiò il suo umido splendore con alcuni abiti ruvidi ma asciutti di Bobbin, mentre Bobbin andò a dare la buona notizia della sua sicurezza alla Grande Casa, dove l’arrivo del destriero senza padrone aveva diffuso l’allarme.
Ma la mia storia deve finire. Il vecchio signore decise di fare amicizia con il giovane che aveva salvato la vita del suo amato figlio, e lo fece diventare uno dei suoi guardiacaccia. La buona signora Margery si prese cura della piccola Doo-doo – la mandò alla scuola per dame della vecchia Madre Hubbard, “dove imparò a cucire e a rammendare”, e realizzò un meraviglioso saggio di ricamo.

Dopo questo divenne la lattaia della signora Daw per cinque anni, e poi, strano a dirsi, incontrando un tipo grande e alto con una giacca di velluto con splendidi bottoni, e un dolce sorriso, scoprì che era il suo vecchio amico Bobbin.
Si dice che poco tempo dopo i due fecero una coppia, perché a quei tempi non c’erano “Bryant e May” a fare incontri per altre persone; e furono sposati dal “prete tutto rasato e tosato”, mentre una bella farfalla blu volava dentro e fuori dalla porta della chiesa; e ho sentito che la signora Daw e la buona fata stavano entrambe sbirciando attraverso i piccoli vetri di diamante della finestra della sagrestia, e sembravano entrambe molto sorridenti e felici.

Tratto da Google Libri: TELL ME A TALE
The Blue Butterfly and the Oaf od the Cave
di THE REV. J. W. HARDMAN, LL.D. 1885