La Cornara

Luigia Codemo

Ho conosciuto nelle mia infanzia una patrizia decaduta; e tale nel suo aspetto era l’impronta della antica grandezza, mista alla presente miseria, che mai l’ho dimenticata.
Discendea nientemeno che dai Corneli, se è vero che i Corner derivino in linea dritta dalla gens Cornelia; di questo mi fo garante, ma dei Corner era certo. Questa dama abitava nel mio paese un casamento grande, povero, in completa armonia colla abitatrice.
Fra gli stretti parenti suoi, di cui posso parlare io, teneva una cameriera venuta dalla campagna a servire in città, in una famiglia signorile, la qual cameriera vedova, aveva tirato su, a forza di stenti un figliolo prete. Ignoro se detta cameriera fosse, nuora della nobil donna, e il giovine chierico quindi fosse suo nipote.
Andavamo a trovarla appunto colla cameriera, ed ella da gran dama ci riceveva come se si trovasse ancora in uno dei palazzi Corner, ai tempi dell’ antico, avito splendore.
Grande, floscia, bianca, squadrata nella intelaiatura; spalle a linee sciolte e cascanti, come pesante il passo ma regale. Al profilo pareva Luigi XVI, con quel naso curvo, un po’ a rostro d’aquila, maestoso nella sua gobba. Occhio vitreo, freddo e colla quiete ostinata dei maniaci. Capelli rialzati alle tempie, grigi, a sfumature argentee, da parere incipriati. Leggendo in Claudiano la descrizione di Roma affamata, al tempo dell’invasione degli Unni, trovai tocchi i quali mi ricordarono la testa di quella grande, povera dama veneziana.
Il vestire, anche quello un misto di povertà e di ricchezza, di eleganza e di abbandono. Dirò un particolare. Il fazzoletto da naso, tutto sdrucito, a buchi, a rammende, dove ce ne potevano stare; ma in piè portava scarpe di raso bianco, ricamate a lustrini e oro a disegno.
Queste scarpe le portava a tutto pasto, usciva anche di casa, e a nessuno pareva strano. Erano avvezzi, e i monelli non le correvano appresso. Coloro, poi che la trattavano, le dicevano eccellenza, titolo che la nobilissima accettava come dovuto.
Tutto quello che racconto è tanto remoto, che mi par di aver visto la gran dama in sogno, e non potrei, senza inventarmi, aggiungere a questo profilo, quasi perso… È dal 1832 o 33. che rimonta questa memoria, e da allora sono passate di gran cose, private e pubbliche, sicchè nessuno se ne ricorda pi, da trarre maggiori notizie.
Solo, in infanzia, mi restò a mente il racconto della sua morte, proprio da impressionare. La gran dama era nella camera con la sola donna, che poi ce lo riferiva. In un gran letto, con coperte di stoffa gialla damascata tutte a strappi, a brandelli, a buchi d’onde uscia l’ovatta; da nuove certamente magnifiche: Dio sa da chi la pronipote della Regina di Cipro le aveva ereditate.
In quelle coltri splendide e miserabili com’essa, giaceva la padrona, distesa nella sua corporatura colossale, seria e leggera fin all’ ultimo istante della vita. Le perle matte ancora al collo, non so quali orecchini alle orecchie, già cascanti, lucevano come fiammelle fatue, al crepitare di un lume a olio, sul povero scaffale, con tanto di fungaia, mandando ombre stravaganti sulla maschera e su tutta quella figurona, coricata. Il naso proiettato in isbattimento sul muro mi pareva una montagna, ed ella la statua d’una principessa sul proprio mausoleo.
In camera nessuno, fuori che il medico e la donna. Un povero medico, gratis o press’a poco. Qualche sorcetto camminava lungo le pareti, svelto a guisa di un sandolino, da nessuno disturbato.
Per assicurarsi ch’era morta le diè un pizzicotto il medico: le povere carni floscie della patrizia conservarono le impronte livide di quelle dita irreverenti. Ella tre quarti di là, uno appena di qua, dalla pupilla spenta, mandava qualche lampo, a modo raggio di luna in un vetro rotto, ma da cui ancora si capiva, che sapeva chi era, e al dottoraccio, che le pizzicava quelle povere carni intimava: son Cornara!
Non lagnarti, amico lettore, se ti presentiamo una scena tetra. Tu vuoi verità e verità ti offriamo. Benchè si porti la testa alta, e si ostenti superiorità sul pubblico, pretendendo non obbedire al suo gusto ma dominarlo, pure sotto tanta superbia si cela, nel più modesto autorello, una certa bramosia di compiacerlo e servirlo del cibo che, pel momento, predilige. Dio non voglia che a tale intento non si lasci mai toccare la propria coscienza d’un capello!
A questo studio della Dama succede uno intitolato lo spazzino, anche quello d’una verità da far tremare, secondo si esprimeva qualche cento anni fa Vasari, pittore e scrittore; poichè se verismo è parola nuova, la cosa è vecchia,e fu soltanto un modo di farla apparire giovine, lo straffare con esagerazioni sconce e spropositi.
Detto questo vogliamo avvertirti che se il nostro spazzino non avrà, come la Dama, le scarpe di raso bianche ricamate d’oro, sarà di quella molto più allegro.

Venezia

Luigia Codemo

Tratto da: L’Illustrazione popolare, Volume 26

Grazie a Google Libri