LA CASSA MISTERIOSA

(dai ricordi d’una vecchierella)

— Raccontaci la tua vita, nonna.
— Sii buona, nonnina. Narraci le tue avventure. È questo il ritornello delle mie nipoti, e per quanto mi studii di assicurarle che la mia vita fu la più modesta e meno avventurosa del mondo, le gentili curiose non cessano dall’assediarmi colle loro dimande.
— Raccontaci qualche fatterello, — dicevami Erminia, giorni sono, — qualche tuo ricordo d’infanzia, qualche tuo amoretto di gioventù, qualcosa infine che possa giovare a noi di esperienza.
E mi pregava con tanta grazia, che non potei dire di no. Promisi dunque di raccontare, così alla spicciolata, senz’ordine di date, nè di luoghi, proprio come mi correvano alla mente, i fatti della mia vita che potessero interessarla un pochino, e dei quali io serbassi memoria. Ma quanto a servir loro d’esempio d’esperienza…. Ah! davvero ho riso dentro me stessa di tale idea. L’esperienza altrui ci giova in teoria, ma in pratica, peuh! nemmeno per ombra. Nessuno, e tanto meno i giovani, operano secondo l’esperienza fatta dagli altri; ognuno crede di poter bastare a sè, e forse non a torto. Come nessuna fisonomia è in tutto e per tutto simile a un’altra, così io credo che nessun caso della nostra vita sia identico a un dato caso toccato ad altri, benchè i due possano presentare nel complesso una grande somiglianza.
Tutto è subordinato ai nostri sentimenti, alla natura nostra particolare, e ciò che tornò utile ad uno può riuscire dannoso a un altro. Le mie nipotine, per esempio, pretendono di voler dar retta alla mia esperienza, e mi chiedono ad ogni momento consigli su questa o quella cosa, forse perchè non ignorano che io sono molto restia a darne; ma non dubito che, quando l’opportunità di giovarsene si presentasse, esse esclamerebbero:
— Eh! che sa mai la nonna? Ora i tempi sono mutati! Perciò, — ripeto, — non è la pretesa di servir loro da maestra che mi spinge talvolta a parlare; ma piuttosto il desiderio d’accontentarle, ed anche perchè nol direi? — quello di procurar un piacere a me. Noialtri vecchi, si sa, parliamo volentieri del nostro passato, nella stessa maniera che i giovani del loro avvenire, e ci sentiamo immensamente soddisfatti nell’amor proprio, quando ci pare che il nostro cicaleccio sia ascoltato con interesse.
Un altro fenomeno abbastanza curioso è questo che, più c’ inoltriamo nella vita, e più vivi ci si presentano alla mente i fatti della nostra giovinezza, persino della nostra infanzia, mentre ricordiamo appena e, non di rado, dimentichiamo del tutto fatti recentissimi. Conobbi, molti anni or sono, una signora d’origine tedesca, la quale mi parlava spesso d’un pregiudizio del suo paese. Colà si dice che, quando i vecchi sono prossimi a morire, rammentino con prodigiosa esattezza ciò che loro accadde nella prima gioventù. Benchè io non creda ai pregiudizi, cotesto mi parve poetico e grazioso, come lo sono quasi tutti i pregiudizi dei popoli settentrionali, e più d’una volta mi torna alla mente. D’altra parte siffatto fenomeno è un dono prezioso della Provvidenza che fa riflettere nella vecchiaia un raggio dorato della gioventù, e puossi paragonare alle belle giornate che precedono l’inverno, comunemente chiamate l’estate di San Martino. È l’estate di San Martino dell’anime nostre!
Per me una delle gioie più gradite è appunto quella di distendermi nel mio vecchio e comodo seggiolone; e, mentre le mani compiono il monotono lavoro della calza, lasciare che la mente viaggi, viaggi, e si perda in mille fantasticherie, e ricordi mille casi della vita, e risusciti tante persone care e scomparse. In quei momenti, io me le vedo sfilare dinanzi, torno a udire la loro voce e favello ancora con esse.

In una cassa vecchia e tarlata, che in casa vien chiamata scherzando la cassa misteriosa, serbo con religiosa venerazione un pacchetto di lettere, alcuni ritratti in miniatura, ed altri mille ricordi. Tratto tratto rileggo le lettere, contemplo le miniature, passo in rassegna i ricordi; ed ogni volta parmi che da quelle anticaglie sorgano voci tenere e amorevoli, parole commoventi. Là sono rinchiuse le lettere, nella loro serietà piena d’affetto, che Marco mi scrisse prima del nostro matrimonio; le prime letterine scritte dai miei figli in occasione del mio onomastico, o di quello del loro babbo; i premi che trionfanti ci portavano a casa alla fine dell’anno scolastico: giocattoli rotti; ricami scoloriti e sciupati, primi tentativi delle mie figliole, un piccolo mondo infine, che moverebbe al riso chi lo vedesse, e che parla invece dolcemente al mio cuore.

Il vecchio e tarlato cassone è pur esso un ricordo, uno anzi dei più preziosi. Là dentro, a uno a uno, frutto di prudenti riflessioni, di lungo e paziente lavoro, ho passato, per una decina d’anni, i capi di biancheria che formarono il corredo della mia primogenita, della mamma delle mie care nipotine.
Adesso il corredo non è più l’affare di stato ch’era una volta. Le macchine da cucire e il numero infinito di negozii di biancheria confezionata fanno si che, con non molte centinaia di lire, si può avere, in brevissimo tempo, un corredo rispondete ai gusti e alla borsa d’ognuno. Quanto alla durata poi…. Eh! Chi ci pensa alla durata, colle mille capricciose mutazioni della moda d’oggidì? Ma a’ miei tempi, la faccenda era ben diversa. Io mi ricordo sempre l’emozione soavissima, direi strana, che provai quando, in fondo al cassone, a base del corredo, deposi la prima camicia lavorata da me. Tutti i voti, che un cuore di madre può formare per la felicità di una figlia accompagnarono quel primo oggetto che la mia bambina, allora di otto anni, avrebbe indossato molti anni dopo. A quella camicia altre ne succedettero, e dietro a esse, tutta la serie variata de’capi di biancheria, che formano l’orgoglio d’una buona massaia.
Quando il cassone fu pieno, la leggiadra bambina era diventata una bella giovane, e uno sposo degno di lei non tardò a presentarsi. Venne accettato, si amavano, e presto furono conchiuse le nozze. Allora mi rallegrai in cuor mio d’essere stata previdente, e la vigilia degli sponsali, aprendo con giusto orgoglio agli occhi di mia figlia la cassa famosa:
— Ecco, — le dissi, — tu porti teco il frutto di dieci anni di lavoro. Possa tu indossare ciascuno di questi oggetti collo stesso sentimento di giubilo con che io li riposi qua dentro.
Mia figlia non seppe dir altro che:
— Mamma! Mamma mia!
E mi buttò le braccia al collo singhiozzando. Io allora non piansi, non lo potei; un nodo mi serrava la gola; gli occhi rimanevano asciutti, le labbra secche. Ma la sera del dì seguente, quando mia figlia e mio genero mi abbracciarono, prima di partire; quando il rumore dell’ultima carrozza d’invitati si spense, oh! allora corsi al vecchio cassone, l’apersi, lo vidi vuoto, pensai che la bambina, la giovinetta, la sposa, mia figlia infine, s’era staccata da me; mi parve che la casa fosse diventata triste e vuota come quel cassone, e diedi in uno scoppio di pianto.
Una mano mi passò lenta lenta sui capelli; mi rialzai e, appoggiandomi alla spalla di Marco, confusi le mie lagrime colle sue, mentr’egli mormorava con accento di supremo sconforto: “Se n’è proprio andata!,,

Natalina

Da: La ricreazione raccolta illustrata di racconti e novelle per la famiglia.
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