LA PRIMA COLONIA ITALIANA

La baia di Assab

L’abbiamo, alla fine, la nostra prima colonia? Sono dieci anni che fu comprata e pagata ai Danakili-Ankali, e per disputare se fosse buon acquisto prima, poi per difendersi nelle cancellerie dall’accusa di avidi predoni s’è spesa assai più carta di quanta sarebbe necessaria a coprirla tutta. E’ grande, giusto quanto il principato di Monaco, 15 chilometri quadrati, mettendo insieme il continente, nel breve tratto che intercede fra la rada di Lumah e la punta Vedetta, l’isoletta di Omm-el-Bachar, e quella di Hass-el-Raml. Eppure coloro, e furon molti, che la credevano proprio spregevole acquisto devono essersi ricreduti, dopo che hanno veduto qualche grande potenza mostrarci i denti per sua cagione. Cotesti figliuoli dei predoni raccolti da Romolo sul Palatino non si appagano di tener gli occhi fissi su Tunisi, di intrigar nell’Albania, pigliano anche Assab!

Non credo tuttavia che il gran conquisto fosse determinato da considerazioni dei vantaggi che se ne sperano. Alla Consulta hanno voluto finirla con una vecchia questione, riparare un vergognoso abbandono, dare una soddisfazione al sultanotto italiano Giuseppe il canuto, che l’aveva comperata ed alla casa Rubattino che aveva messo fuori, in apparenza, i denari. Chi sa non li determinasse a mettersi in via d’acquistar colonie la speranza di deportarvi, con ufficio, s’intende, di governatori, certe sommità o vanità politiche, con le quali non è possibile intendersi per costituire due veri e forti partiti parlamentari?

Fatto sta che Assah è nostra, ed i lettori dell’ILLUSTRAZIONE la possono visitare a loro agio. Troveranno guide espertissime; e prima quel tal sultano, il prof. Sapeto, che ha scritto sulla colonia un libro quale molte grandi aspettano indarno, poi una folla d’altri sino a Giambattista Beccari, che prepara uno studio comparativo sui porti dell’Eritreo. Frattanto mi metto dietro a così eletta schiera per dirne quanto basti ad avere un’idea della terra oramai nostra.

Quivi fu già Saba, il grande emporio dell’antica Etiopia, celebrato in Artemidoro e in Tolomeo. Poco oltre alla punta di Lumah se additano tuttodì le rovine, come la laguna di Sciaikh-Duran, colle sue sterminate foreste di avicennie, ci ricorda il bosco di Eumeo. Quivi adunque, ventidue secoli or sono, ferveva vita di commerci, ed affluivano le navi dall’Europa e dall’Asia, accorrevano da Aksum e da Meroe le carovane. Nella stessa guisa decadde, in secoli molto più vicini, Mokha, le cui ruine fanno riscontro ad Assab sull’opposto litorale. L’africano è quivi tutta opera dei fuochi sotterranei, che hanno scemato i dominii del mare, e vi sollevarono colline squarciate e discoscese in ogni senso, fuorchè presso a Lumah, dove la reggia del nostro Sultano, – una capanna di tavole, con una veranda di stuoie, – si estolle modesta sopra detriti madreporici. Sapeto ci porge un quadro paurosamente poetico della landa desolata, scossi dai terremoti e dominata dai vulcani, intingendo il pennello sulla tavolozza infiammata di Gherardo delle Notti.

Il golfo è chiuso tutto nel semicerchio della costa danakila fra Ras Sentur e Lumah, ed ingombro di ben trentanove isole di poco elevate sul mare, bozzacchi e bernoccoli madreporici coperti di rena di quella vasta scogliera che dispiega le sue branche di polipo nella baia, lasciando passaggi intricati, mutevoli, ed assai difficili. Pur ve n’ha uno il quale adduce sicuramente, di giorno come di notte, in tutte le stagioni dell’anno, dentro la rada d’Assab. Ha questa una profondità di 12 a 15 metri, con fondo di melma mista a sabbia e conchiglie, ed eccellenti ancoraggi ad ogni maniera di navi. Per poco che l’arte venisse in ajuto alla natura, col mezzo di acconcie opere idrauliche, le quali rendano le operazioni di carico e scarico dei bastimenti agevoli sempre come sono da settembre ad aprile, e senza profondere, lo si è detto a torto, tesori, Assab può diventare uno dei migliori porti dell’Eritreo.

Tutta costa, – diceva il 30 aprile 1871 C. Negri, – non è né turca né egizia, ma spetterebbe agli indigeni. I quali non sono così numerosi e fieri da rendere necessarie fortezze e bastite, a meno non vadano confusi, come in certe critiche, con schiere di parassiti contro i quali bastano munizioni di buon sapone.

Il paese è abitato da tribù erranti o stanziali di Danakili e di Aduliti, i quali signoreggiarono in tempi lontani l’Etiopia. Dipendono quasi tutti dal grande Anfari di Dambakoma, il quale può levare da una popolazione non superiore alle dugencinquantamila anime, un cinquemila combattenti. Ma vivono su così vasto paese, divisi d’interessi, minacciati dai vicini, desiderosi della protezione e dei vantaggi materiali che procurerà loro la colonia, da non pensare all’attacco. Si drappeggiano dentro ad un lenzuolo di bambagia, e vivono di latte, pane di saggina e polenta bagnata in burro cotto o manteca liquida; abitano in capannette di pertiche e stuoje. Sono astuti nelle trappolerie loro, chiacchieroni, mendicanti esosi o ladri, corrivi alle subite furie; e sebbene si chiamino “uomini privilegiati, di natura superiore”, somigliano piuttosto, a giudizio del Sapeto, ai nostri prototipi. Colla bontà, col buon senso, con lievi riguardi, s’hanno mansueti; e al resto provvederà un piccolo forte con pochi uomini risoluti, almeno sintantochè Assab non gareggi con gli altri emporii islamitici o cristiani di quei mari, che è pur possibile.
Contro l’Inghilterra, se le venisse il ghiribizzo di minacciarlo, non lo potremmo difendere a mano armata giammai; contro l’Egitto e la Porta sarebbe anzi debito delle potenze europee, nonchè d’Italia, preparare una via di redenzione per gli etiopici che scontano o sconteranno le discordie loro col giogo musulmano. Ad ogni modo, se vi fu epoca nella quale c’era a temere una nuova guerra della secchia rapita, può oramai tenersi per chiusa. “La colonia d’Assab, – per dirla colle parole del fondatore, – mira unicamente ad agevolare, allargare e difendere i commerci italiani nei mari orientali, con la santa attività dell’industria, della libera concorrenza e la luce della civiltà; arti queste, che vogliono pace ed amicizia con tutti i governi e i popoli della terra”.

A coloro, e furon molti, che censurarono la scelta di Assab, e si spaventavano dei raggi infocati del suo sole, dell’afa soffocante del suo clima, della nudità del suolo, chiusero la bocca i fatti compiuti. Da più mesi Sapeto trovasi nel suo piccolo principato, e sono con lui operai e marinai italiani, che, vi si trovano come gli Inglesi in Aden o giù di lì, se anche mancano a que’primi coloni troppe cose necessarie oltre agli agi che si trovano in pozzo rovente mutato in propugnacolo della potenza britannica. Invece giova fermarsi sulla importanza commerciale del luogo, sui traffici che vi possono affluire, sugli scambi che vi saranno presto avviati, profittando iniziativa dei Milanesi, del valore dei precursori delle flotte dei Liguri, dell’operosa e fortunata scientifici, di ciascuno dei quali ben può dirsi:

Che porta il lume dietro e a sè non giova,
Ma dietro a sè fa le creature dotte,

e per soprassello, più che dotte, ricche.
Giace Assab presso alle fauci temute del mare Eritreo e quindi a quell’Arabia che fu chiamata
Felice, mentre vi possono metter capo le vie dell’alta Etiopia e di buon tratto del litorale, e raccogliervisi i ricchi prodotti della pesca. “Può aspirare, diceva O. Beccari, a diventare il centro commerciale del Mar Rosso, e fare una seria concorrenza ad Aden.” Tutti verranno a scambiare i loro prodotti in Assab, fuor degli impacci che l’assiepano sulle due rive di quel mare, negli altri emporii, e di qua della Porta delle Angustie, che bisogna superare per recarsi in Aden. I mercatanti del Tigre e dell’ Amhara lascieranno pel nuovo emporio la vecchia Massaua, indarno contesa agli egiziani; i Galla e gli Sciuani preferiranno cotesta via alle altre così poco sicure, sebbene più brevi, che li adducono a Zeila ed a Berbera. Solo che potesse raccogliersi in Assab una parte del commercio dei tre porti sunnominati, sarebbero già compensate le spese e superate le modeste speranze colle quali si intende cominciare la nuova colonia.

Senonchè, ha scritto Issel, “il futuro stabilimento di Assab deve aspirare, mercè la sua felice posizione, ad essere qualche cosa più che un semplice scalo marittimo. Potrebbe trarre a sẻ, almeno in parte, il commercio del prezioso caffè del Yemen; prossimo a quell’istesso e vergine campo di produzione che è la terra dei Galla, è lecito sperare che ne diventi l’emporio ed il porto; mentre dall’altra parte non è improbabile che colà trovino un esito vantaggioso alcune delle nostre derrate. Finalmente nulla osta che possa competere con Massaua, qual porto d’imbarco per le merci delle provincie occidentali e meridionali d’Abissinia, specialmente dello Seioa e del l’Amhara.”

Che l’Abissinia sia luogo adatto per l’esportazione dei prodotti lo hanno dimostrato Matteucci, Antinori, Naretti, Piaggia, e ne fecero l’esperienza i nostri intraprendenti industriali. In haec porro loca, scriveva già Ariano, e i costumi del traffico non mutarono gran fatto in tanti secoli, deportantur venalia, vestes barbarae atque rudes; stolae Arsinoeticae, lintea, discrossia seu mantilia utrimque fimbriata; omnis generis vasa vi trea atque murrhina. E per continuare in lingua nostra vi trovano spaccio seterie crude; panni rossi, scarlatti e allistati; percalli, mussoline, cotonine stampate; tralici bambagini con frange, tele greggie e bianche di cotone e bambagia; riso, pepe, garofani, cannella, tabacco a manipoli; conterie di Venezia, armi, metalli d’ogni specie e minutaglie, essenze, e tante altre produzioni nostre, in cambio delle quali si hanno a buon mercato altre, che noi siamo abituati a togliere da Londra, da Parigi, da Amburgo, sopraccaricate di gabelle, di manipolazioni, di guadagni di intermediarii da non finire.

Vie brevi non si intendono, specie in Africa, quelle che si disegnano con linea più corta sopra le mappe. Certo, chi badi solo a queste, pochè carovane dovrebbero scendere ad Assab dall’ interno, poche barche mettervi capo coi prodotti della pesca, pochi velieri tragittarvisi recando quelli dell’Arabia. Ma nel fatto è tutt’altro, e basta a mostrarlo il solo esempio di Alen, a tacere di cento altri sparsi nel mondo. Quello ch’è più necessario in Africa a sviluppare i commerci fra la costa e l’interno è la sicurezza della via, la quale è già per sè quasi sempre lunga e malagevole, è la franchigia del luogo al quale si mette capo, sono tutte quelle agevolezze che può procurare un emporio europeo, retto con molto senno, e con prudenti andacie accresciuto.

Mettendo il piede in Assab, ed innalzandovi la bandiera, l’Italia non medita alcuna conquista. D’altronde la grande Inghilterra sa bene che osso sia quell’Abissinia, anche per denti più robusti, e come torni difficile, in generale, la digestione delle colonie africane. Avevamo bisogno d’una stazione navale, d’una rada, d’un luogo di ricovero, e poichè l’avevamo e bastava stendere la mano, sarebbe stata folle paura non ghermirlo. Se basterà allo scopo non lo possiamo presagire adesso; certo francherà la spesa dell’acquisto, dell’occupazione e dello stabilimento di una piccola colonia, se non quella dell’inchiostro che si è versato per difenderla e per vituperarla. Poi se ne troveranno altre. Il difficile sta nel principiare; adesso che siamo in via, continueremo anche noi; ed avremo le nostre colonie come le hanno le grandi nazioni marittime, almeno tanto che basti a presidio dei nostri commerci, a difesa delle nostre squadre, a tutela dei nostri interessi.

Mi assicurano che quando si par’ò di Assəb a Vittorio Emanuele, egli se ne mostrò subito convinto, anzi eccitò il Menabrea a far subito, senza darsi pensiero d’alcuna opposizione. E se avessero seguito certi consigli quei ministri non avrebbero lasciato ritornare anche da altri lidi le navi italiane senza frutto. Così il figliuolo di quel gran Re, quando non aveva l’animo preoccupato dalle cure dello Stato, e soleva intervenire alle solenni tornate annuali della società geografica, diceva sempre, che la scienza è bella e buona, ma ci vogliono dei risultati pratici. E per sua parte non mancò di promuoverli in tutti i modi consentiti in uno Stato libero alla Corona.

Si dirà che vogliamo imitare gli Inglesi, ed è tempo perduto metterci così sulle orme loro. Può darsi; ma badiamo che l’Inghilterra prima ha foggiata la politica sua a quella antica di Roma. Gittato da banda il romanticismo cavalleresco, si è gittata al fonte vivo della realtà, e vi ha attinto il vigore di quei progressi, che parranno ai futuri, ed in parte già sembrano a noi altri, leggende. Imitiamo pure gli Inglesi, poichè si tratta al postutto di riprendere le tradizioni antiche degli Italiani, i quali furono grandi e fortunati colonizzatori prima che gli Inglesi fossero al mondo, e quando l’isola loro, ultima Thule, era tutta avvolta nell’oscurità delle sue nebbie.


Assab; Veduta dell’ancoraggio di Buja a nord il 5 maggio 1879.
(Presa dal vero da G. M. Giulietti.)

Emilio Cerrutti, e fu tra i più accaniti oppositori di Assab, temeva che una volta occupato questo poderetto noi altri non si sarebbe pensato ad altro. Gli mostreremo bene come non apponeva al vero, e come non conosceva il temperamento italiano, ragionando a quel modo. Ripeto: il difficile sta nello incominciare. Adesso che l’Italia ha una colonia microscopica le sarà meno conteso l’acquisto d’altre maggiori.

Che nessuno n’abbia sturbati i sonni: c’è tanto posto ancora nel mondo da accogliere senza contrasto non solo tutte le teorie del manifest destinity inventate e foggiate a comodo dai potenti, ma anche le ambizioni modeste di chi non può allargarsi perora, a spese di certi vicini, e pur vuole il suo piccolo posto al sole.

A. Brunialti

Attilio Brunialti è stato un costituzionalista, geografo e politico italiano.

Da: L’illustrazione italiana rivista settimanale degli avvenimenti e personaggi …
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Il canale di Suez venne inaugurato solo il 17 novembre 1869.
Il 15 novembre 1869 fu stipulato il compromesso per l’acquisto della Baia con i fratelli arabi Hassan e Ibrahim ben Ahmad, autoproclamatisi sultani di Raheita. (Wiki).