Gustavo Dorè

Paul Gustave Louis Christophe Doré

Mentre s’inaugurava a Roma una gara internazionale dell’arte, la Francia perdeva in Gustavo Doré uno dei suoi artisti più originali e più popolari.

Nato a Strasburgo nel 1832, aveva appena 51 anni; (23 gennaio 1883), ma la breve esistenza gli è stata sufficiente per essere disegnatore, pittore, scultore, incisore; per illustrare la Divina Commedia di Dante e il Paradiso Perduto di Milton, l’ispirata Atala di Chateaubriand e i licenziosi Contes di Lafontaine, l’immaginoso Don Chisciotte di Cervantes e i dolci poemi del Tennyson, la Sacra Bibbia e le pantagrueliche opere di Rabelais, i Contes drolatiques di Balzac e l’Orlando furioso dell’Ariosto, commentando così, con la matita, opere classiche di ogni letteratura, manifestazioni le più diverse dell’ingegno umano. Cinquantun anni di vita gli sono bastati per fare quanto sarebbe valso a dare riputazione non ad un solo ma a cinque o sei artisti.

Nel 1818, a sedici anni, Gustavo Doré s’ era già fatto un nome con i suoi travaux d’Hercule, serie di caricature pubblicate nel Journal pour rire del Philippon. E d’allora in poi i disegni sgorgavano, per così dire, sotto la matita di lui, ora allegri, ora mostruosi, ora strani, ora sentimentali, ora orribili. A ventidue anni era già celebre: la nota che dominava allora sopra alle altre nel suo talento era una serena gaiezza, una tendenza all’esagerazione burlesca che però non oltrepassava mai i limiti dello spirito e della finezza. Nelle illustrazioni alle Opere di Rabelais ed ai Contes drolatiques del Balzac, le pancie abbondanti de’ frati distesi sull’erba, i loro giuochi, la loro corse sfrenate, le loro fisonomie obese e sorridenti di gaudio davanti a una tavola ricolma d’ogni ben di Dio, metterebbero di buon umore un ipocondriaco.

Le illustrazioni del Tennyson e di alcune poesie del Coleridge, – quelle della leggenda del vecchio marinaro condannato, come l’Ebreo Errante, al moto perpetuo, sono una delle sue opere più degne di lode, – gli diedero più tardi, in Inghilterra, tanta popolarità quanta in Francia. E del pari divenne popolarissimo in Italia, grazie alla fantasia meravigliosa con cui illustrò i nostri grandi poeti, Dante e Ariosto. A Londra da qualche anno, esiste una esposizione permanente delle sue opere, alla quale egli mandava di tanto in tanto delle tele immense dipinte in pochi mesi, con una straordinaria facilità, senza trascurare le numerose commissioni di disegni ch’egli riceveva dall’Hachette di Parigi e da varii editori inglesi. Una di queste immense tele larga 25 metri, rappresentante La caduta del paganesimo, è giudicata il suo capolavoro: ma egli era tanto grandioso nelle composizioni che molti dei piccoli suoi disegni contenuti in una pagina in N°.’, nei quali condensare tanti personaggi, tanto moto e tanta vita, erano spesso in realtà più grandi de’suoi quadri di 25 metri.

La reputazione acquistata come scultore gli aveva procurata la commissione della statua di Alessandro Dumas padre, ch’egli aveva ormai terminata e sembrava a tutti opera di molto valore. Fra poco la statua doveva essere inaugurata: restava soltanto da fissare il giorno dell’inaugurazione, quando il Doré fu preso dall’angina difterica che in tre giorni lo ha ucciso. Egli aveva immaginato il Dumas seduto e colla fisonomia sorridente, e per la base aveva modellato due bassorilievi originalissimi: da una parte un gruppo di uomini e donne, in atto di leggere i più noti romanzi dell’autore del Montecristo – che tutti possono avere fra le mani senza arrossire – ed un uomo del volgo, in illetterato, che ascolta estatico le narrazioni del romanziere: dall’altra parte un moschettiere seduto con la spada in mano, quasi vigile custode della gloria di chi ha procurata tanta celebrità al suo nome ed alla sua uniforme.

Egli si occupava altresì dell’illustrazione delle tragedie di Shakespeare affidatagli da un editore di Londra, benchè l’Inghilterra si vanti d’avere una edizione delle opere del gran tragico illustrata da Sir Jolin Gilbert.

Non c’è persona di mediocre cultura che non abbia visto qualche libro illustrato da Gustavo Doré e non abbia ammirata l’inesauribile fantasia di quell’instancabile produttore che ha creati a migliaia palazzi incantati, castelli feudali, scure foreste piene d’orrori, abissi profondi, bolge infernali popolate da anime dannate, mostri e chimere.

Lo studio di Gustavo Doré era uno specchio felele della fantasia dell’artista che vi passava la vita. Era un’antica cavallerizza illuminata da finestroni grandi come quelli d’una cattedrale. Contro una delle pareti era situata una tela immensa e davanti alla tela un impalcato mobile in cima al quale il Doré, ginnasta emerito, si arrampicava per mezzo di due trapezi. Qua e là altri quadri incominciati sui cavalletti: in fondo bozzetti di statue o di decorazioni perchè il Doré si dedicava per passatempo anche alla architettura decorativa. Un assito divideva una parte della cavallerizza dall’altra che serviva di studio di scultura.
V’erano i modelli in gesso di parecchie sue statue e gruppi, di orologi, di candelabri, e del famoso vaso decorato a bassorilievi rappresentanti l’Epopea di Bacco che fu tanto ammirato all’Esposizione del 1867. Allo stesso locale erano uniti due grandi sale, in una delle quali il Doré incideva; nell’altra dipingeva all’acquarello quando glie ne saltava il capriccio e dove egli invitava ogni settimana i suoi amici intimi fra i quali vanno ricordati Dumas, l’About, il Gauthier, il Saint Saens, il Taine, il Wagner, l’abate Liszt. Ma benchè fosse amico del Wagner, il suo idolo musicale era il nostro Rossini ed ammirava tutti i nostri grandi maestri italiani.

Parlava pochissimo ed i suoi amici gli davano il soprannome di Gustavo il Taciturno. Era di statura media e nell’apparenza non aveva nulla di quelle tali singolarità dalle quali il volgo suole riconoscere gli artisti, forse perchè agli artisti volgari piace di rendersi singolari con tali apparenze.

Era instancabile nel fumare come nel lavorare: i sigari erano forse la sola sua spesa di lusso. Giacchè in generale era tacciato di avarizia: ma quando gli capitava l’occasione di essere grande anche nello spendere non badava alle migliaia di lire: per dirne una, quando fu fatto cavaliere della Legion d’onore offrì ai suoi amici un pranzo ed una festa che durò due giorni e tre notti nel suo studio di Via Bayard, del quale aveva coperte le pareti con scenari da lui dipinti.

Alcino e Rinaldo
Nel canto VII del poema Orlando Furioso

Tratto da: L’illustrazione italiana rivista settimanale degli avvenimenti e personaggi.
E da: L’Illustrazione popolare, Volume 20
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