Goëthe a Venezia

Approfittiamo della pubblicazione del disegno della statua di Goëthe per dare in questa nostra raccolta uno scritto del grande poeta alemanno. Scegliemmo un brano in prosa, perchè come prosatore egli è meno noto che come poeta, e anche perchè certo tornerà caro ai lettori italiani il conoscere come scrisse un grande straniero d’una città italiana quasi un secolo fa. Questo brano è l’ultimo delle impressioni di viaggio su Venezia che il Goëthe visitava nel 1786 e parla della prima recita delle Barufe Ciozzotte di cui dice un gran bene.

Statua di Goëthe inaugurata a Monaco il 29 agosto 1869

Ora posso dir finalmente ancor io d’aver veduta una commedia! Oggi (10 ottobre) nel teatro San Luca sono state poste in iscena Le Baruffe Ciozzote. – Gli interlocutori non sono che marinai chiozzotti, le loro donne, le sorelle, le figliuole. L’abituale schiamazzare, vuoi a fin di bene, vuoi a fin di male, di gente siffatta; le lor brighe, gli impeti, la bonarietà, la schiettezza, i frizzi, l’umore le naturali maniere, tutto è ottimamente imitato.

Il dramma è del Goldoni; e per aver visitato appena ieri quei luoghi – sicchè mi suonavano ancora agli orecchi quelle voci e mi vedea dinanzi il tratto di quegli uomini di mare – mi arrecò grande piacere; benchè alla prima non comprendessi alcuni speciali rapporti, ho potuto però nel complesso seguirlo benissimo.

Il disegno del dramma è il seguente: certe donne di Chiozza siedono sulla rada dinanzi alle loro case, e come di solito, lavorano a maglia, cuciscono; passa un giovinotto che volge a una d’esse il saluto, più amichevolmente che all’altre; tosto tien dietro lo sfringuellare, nè serba ritegno, ma cresce fino allo sbottoneggiarsi ed all’onte; una villania chiama l’altra, – una impetuosa comare vuota il sacco della verità, e, rotto il freno, si passa agli sgarbi, alle ingiurie, agli urli; nulla manca alle offese scoperte, tanto che son forzate a intromettersi le persone del fôro.

Nel secondo atto siamo in giudizio: il coadiutore facente le veci dell’ assente cancelliere criminale, che, essendo nobile non poteva esser messo sulle scene, fa citare le donne, ma ad una ad una: il che acquista peso dall’essere egli stesso invaghito della prima donna, e, felice di poterle parlare a quattr’occhi, invece di interrogarla, le spiattella una dichiarazione amorosa. Ma un’altra, innamorata a sua volta del coadiutore, gelosa com’è, si precipita nella stanza: stizzita la segue l’amante della prima, – e dietro gli altri; ed ora un reiterato caricarsi di rimproveri, e il diavolo a quattro s’è scatenato nel fôro, come dianzi sulla piazza del porto.

Nell’atto terzo la burla cresce, e il tutto finisce con uno scioglimento pronto e conveniente. – Ma il pensiero più felice è incarnato in un carattere pennelleggiato così: un vecchio barcaiuolo, le cui membra, massime la lingua, son fatte ottuse dalla dura vita menata fin dall’infanzia, compare in iscena, qual contrapposto di quel popolo mobile ciarliero, schiamazzatore. Prima che gli venga fatto di cacciar fuori un concetto, deve tentar mille sforzi increspando le labbra e aiutandosi delle braccia e delle mani. Ma poichè anche ciò non gli riesce che in tronche proposizioni, egli s’è abituato ad una tal quale laconica gravità, – di maniera che ogni sua parola suona in forma di proverbio o di sentenza, – e ciò serve mirabilmente a contrappesare il rimanente dell’azione, appassionata e selvaggia.

Un giubilo poi come quello a cui s’abbandona questo popolo nello scorgere ritratto sè ed i suoi così al vivo, io non l’ho mai veduto. È fu un ridere, un tripudiare dal principio alla fine. Devo però confessare che gli attori sostennero a perfezione la loro parte. Pigliarono a contraffare in diversi modi, secondo che lo richiedeva il carattere, le voci che s’odono per consueto fra il popolo, nella guisa più piacevole che dar si possa. Somma lode poi merita l’autore che seppe trarre dal nulla il più gradevole badalucco del mondo; ma ci vuole anche un popolo che passi la vita sì allegramente come questo. A ogni modo il dramma fu scritto da mano maestra

Della compagnia Sacchi per la quale lavorava il Gozzi, ora dispersa, vidi la Smeraldina, personcina pienotta e piccina, ricca di vita, di garbo, di buon umore. Vidi seco il Brighella, un uomo asciutto di carni, ben adatto delle membra, ottimo specialmente nella mimica. Queste maschere che a noi, per cui sono prive di vita e di significato, paiono mummie ed appena le conosciamo, qui, come prodotti del paese, fanno un’ eccellente comparsa. Le età, i caratteri, le condizioni più segnalate, si sono incarnati in questi abiti maravigliosi, e siccome la maggior parte dell’anno si corre attorno mascherati, così nulla più naturale del veder comparire quelle nere faccie anche sulle scene.

Ieri (11 ottobre) a San Luca han rappresentato un nuovo dramma: L’Anglicismo in Italia. Dacchè in Italia vivono di molti Inglesi, è ben naturale che si porga avvertenza ai loro costumi; ed io mi pensava di poter quivi apprendere in che modo gli Italiani considerino questi ricchi ed accetti ospiti: ma non ne fu nulla. Alcune scene giocose, ben condotte come sempre; ma il resto era concepito con soverchia gravità e sostenutezza: oltracció nemmen l’ombra del sentire inglese, ma i consueti e comuni detti morali degli Italiani, anche questi applicati soltanto a volgarissime cose.

Diffatto non piacque e fu a un pelo che non fosse fischiato. Gli attori non si sentivano nel proprio elemento: non eran più sulla piazza di Chiozza. Essendo questo l’ultimo dramma che mi sia dato di vedere in Venezia, mi sembra che, in forza di siffatta goffaggine, debba vie più aumentare il mio entusiasmo per la precedente rappresentazione nazionale.

Data un’ultima ripassata al mio Diario, ed inseritevi alcune noterelle che andai scrivendo nel taccuino, convien chiuder gli atti e mandarli agli amici che pronunzino la sentenza. Già sin d’ora trovo in questi fogli alcuna cosa che potrei chiarire con maggior diligenza, amplificarla, perfezionarla; ma si serbi così, come monumento della prima impressione, la quale riman pur sempre preziosa e importante, benchè talora fallace. – Deh! potess’io parteciparvi solo un alito di questa facile esistenza. A dir vero agli Italiani riesce ben fosca la imagine di ciò ch’è oltramontano, ed a me pure adesso sembra più tenebroso il di là dell’ Alpi; pur vedo tuttavia amichevoli aspetti accennarmi di fra quelle nebbie. Soltanto il clima mi potrebbe allettare a preferire questo a quel paese, chè nascita ed abitudine sono potenti catene.
Io non vorrei vivere nemmen qui, come in nessun altro luogo dove non avessi di che occuparmi; ma ora la novità mi procura infinite faccende. – L’architettura sorge a guisa d’antico fantasima fuor del sepolcro e m’invita a studiar le discipline, come fosser le regole d’un linguaggio estinto, non per usarne o per goderla vivente, ma per onorare in silenziosa contemplazione l’imagine veneranda della vita delle età passate, spenta per sempre.
Giaccè il Palladio si riporta in tutto, a Vitruvio, mi procacciai l’edizione del Galliani; senonchè questo in-foglio pesa nel mio bagaglio, quanto il suo studio nel mio cervello.
Il Palladio, per via delle sue parole, delle sue opere della sua maniera di pensare e d’agire, mi ha più avvicinato a Vitruvio, e me lo interpretò meglio di quello che lo possa fare la traduzione italiana. La lettura di Vitruvio non è facil cosa, il libro è già per sè stesso oscuro ed esige uno studio critico. Ciò non ostante lo vado leggicchiando alla sfuggita, e ne rimane in me qualche degna impressione; o, a dir meglio, lo leggo come fosse un breviario, più per divozione che per istruirmi. Di già i giorni si sono accorciati, e si può concedere maggior tempo che per lo addietro al leggere ed allo scrivere.

Anche da ultimo, a rendermi affatto infelice, sovvenne la traduzione delle Satire d’ Orazio fatta dal Wieland. Ne avevo lette appena due ch’io aveva già perduta la testa.

O come, la Dio mercè, torna a piacermi tutto ciò ch’ebbi in pregio fin dalla giovanezza! Quanto mi sento felice ora, che oso riavvicinarmi agli antichi scrittori! Poichè oggimai posso confessare la mia malattia e la mia follia. Già da parecchi anni, io non osava di pur guardare un autore latino; nulla che mi rammentasse l’Italia. Se ciò accadeva per caso, pativo un crudelissimo spasimo. Herder spesso si fece beffa del mio imparare il latino dallo Spinosa, essendosi avvisto che appunto questo era l’unico libro latino ch’io leggessi; egli ignorava però quanto io dovessi guardarmi dagli antichi, e come pur con angoscia, cercassi rifugio in quelle astruse generalità.

Se non avessi abbracciato il partito ch’or mando ad effetto, io sarei affatto perduto; a tal segno era cresciuta nell’animo mio la smania di veder questa terra cogli occhi miei propri. Le cognizioni storiche non mi bastavano, gli oggetti mi soltanto ad un palmo di distanza ma separati da un muro impenetrabile. Infatti anche adesso le sensazioni ch’io provo non sono quali sarebbero se vedessi queste cose per la prima volta, ma piuttosto come se le rivedessi. Io mi trovo in Venezia da poco tempo e mi son già abbastanza assuefatto a questa vita, e so di portar meco un concetto il quale, benchè imperfetto, è però chiarissimo e vero.

14 ottobre 1786, 8 ore di notte. – Gli ultimi istanti del mio soggiorno in questa città; poichè a momenti parto per Ferrara, sul battello postale.
La lascio portandone meco la ricca, singolare ed unica imagine.

Wolfango Goethe.

Chi desiderasse leggere tutto questo importante scritto di Goethe, lo potrà trovare nel I. vol. del Giornale Popolare di Viaggi (Treves 1871, L. 12 l’anno).


Wolfango Goëthe è nato a Francoforte sul Meno il 28 agosto 1749. Si fece conoscere nel 1774 col romanzo Werther, che ottenne un successo prodigioso. Egli è autore di molti lavori drammatici bellissimi, e, per tacere del Faust che non v’ ha ormai chi non conosca ricorderemo l’Egmont, il Goetz di Berlichingen e il Tasso. Goëthe scrisse anche altre cose, fra cui alcuni poemi, di cui si ha una traduzione di Andrea Maffei.

Goëthe morì nel 1832 in età d’ottant’anni, e le sue ceneri riposano a Weimar tra quelle di Schiller e quelle del principe Carlo Augusto suo protettore.