UN CANE DELLE FIANDRE

Di Ouida

I.

Nello e Patrasche rimasero soli, legati da una amicizia più che fraterna.
Nello era un piccolo ardennese, Patrasche un grande fiammingo. La loro età, non tenendo conto degli anni, era eguale, quantunque uno fosse giovane ancora e l’altro già vecchio. Tutti e due orfani, tutti e due dovevano la vita alla stessa persona, e fu questo il primo vincolo che li legò insieme, che fortificatosi sempre più li uni di amore intenso.
Abitavano una capannuccia situata all’estremità di un villaggio fiammingo ad una lega da Anversa, in mezzo ad una estesa pianura di pascoli e campi a grano. Sulla riva del gran canale che la traversa, il venticello agita lunghe file di pioppi e di olmi.
Il villaggio è composto di una ventina di case, colle imposte delle finestre colorate di tinte chiassose verdi o celesti, coi tetti quali rossastri, quali bianchi e neri, coi muri sempre lavati tanto da essere lucenti al sole. Nel mezzo del villaggio, sopra un piccolo pendio verdeggiante di musco, s’ alza un mulino, punto di convegno per tutto il piano circostante.
Da circa mezzo secolo, quando macinava il frumento pei soldati di Napoleone I, era stato tutto dipinto di un bel rosso scarlatto, ma le intemperie della stagione ne incupirono poscia la tinta.
Il vecchio mulino gira bizzarramente a tratti e a sbalzi, come se gli anni ne avessero intirizzite le giunture; serve però ancora a tutto il vicinato che crederebbe di commettere un delitto se ad altra mola portasse il grano, od ascoltasse la messa altrove che nella vecchia chiesetta dal conico campanile che si erge dirimpetto al mulino, fabbricata in pietra greggia, e la cui sola campana suona al mattino, al mezzodì e alla sera con quella cupa e melanconica tristezza che caratterizza la melodia di tutte le campane dei Paesi Bassi, come i rintocchi d’un melanconico orologio.

Nello e Patrasche avevano fin dal loro nascere, o quasi, abitata la piccola capanna con l’aguglia della cattedrale di Anversa per punto di vista a nord-est, e dietro la grande e verdeggiante pianura che si estende come un mare immoto.

Era quella la capanna di un uomo vecchissimo e poverissimo, Giovanni Daas, a’ suoi tempi soldato; egli si ricordava delle guerre, che avevano calpestato il paese come i buoi calpestano il solco; e non aveva guadagnato in servizio che una ferita che lo rendeva infermo. Aveva i suoi ottant’anni quando gli morì l’unica sua figliuola in vicinanza di Stavelot nelle Ardenne, lasciandogli un ragazzino.

Si pigliò, senza dolersene, questo fardello a lui ben presto caro è prezioso.

Nel loro abituro costrutto di fango, ma pulito come una conchiglia di mare, circondato da un giardinetto, il nonno ed il nipote vivevano contenti…. sebbene poveri. Più di una volta ebbero a trovarsi senza cibo, mai non ne ebbero di troppo: avere di che mangiare secondo la loro fame, sarebbe stato il paradiso per loro, ma il paradiso non si ottiene tanto facilmente; il vecchio era buono e dolce col fanciullo, e questo, bello, sincero e tenero. Una crosta di pane, poche erbe, altro non chiedevano alla terra ed al cielo purché Patrasche rimanesse loro. Che sarebbero essi senza Patrasche? Patrasche era l’a e la zeta, un sostegno, un tesoro, una consolazione, la vita, l’anima; Patrasche morto o smarrito, non rimaneva più altro che morire; perchè Giovanni Daas era vecchio ed infermo, Nello non era che un bimbo e Patrasche era il loro cane, – un cane di Fiandra di pel giallo, – colle membra robuste, la testa grossa, le orecchie da lupo sempre diritte, e le zampe ad arco e larghe per uno sviluppo muscolare, prodotto nella sua razza dal duro lavoro di molte generazioni.

Dal film ‘Wings’ diretto da William A. Wellman

Gli ascendenti di Patrasche erano stati di secolo in secolo schiavi di schiavi, bestie da soma, rotti all’arnese, condannati per tutta la vita a trascinare la carretta, per morire sul lastrico soccombendo in un ultimo sforzo. Ognuno li aveva visti trafelati sotto il giogo sugli stradali senza ombra delle Fiandre e del Brabante. Patrasche non aveva ereditato altro ed era stato nutrito di botte e di improperii.
Perchè no? La Fiandra è un paese cristiano, e Patrasche non era che un cane. Prima ancora del suo sviluppo, il collare ed il peso della carretta gli avevano fatto delle dolorose scorticature.
Avea il tredicesimo mese quando fu venduto a basso prezzo, per la sua poca età, ad un chincagliere girovago, che andava dal nord al sud, dall’azzurro mare alle verdi montagne.

Il chincagliere era un ubbriacone, un bruto, un brabantino grossolano, che caricava quanta più poteva maiolica, rame, latta, lasciando che Patrasche se la cavasse da sè, mentre egli nella sua crassa poltroneria gli tenea dietro colla pipa in bocca. Per buona o cattiva sorte, Patrasche era forte, apparteneva ad una razza ferrea, da gran tempo avvezza al duro mestiere, di modo che non morì sotto il peso, le ferite, la fame, la sete e le maledizioni che sono l’unico salario che i Fiamminghi accordano alle più laboriose e pazienti loro vittime quadrupedi.

Dopo due anni di tal supplizio, Patrasche percorreva come il solito una delle strade lunghe, dritte e polverose che menano alla patria di Rubens. La carretta era assai carica e il suo padrone non faceva attenzione a lui che per scoccargli di tratto in tratto una frustata sulle sue povere coste. Il Brabantino beveva birra ad ogni bettola che trovava, ma non permetteva a Patrasche di far sosta per dissetarsi al canale.
Accecato dal sole e dalla polvere, pesto, sanguinolento, piegando sotto l’inesorabile fardello che pesava sulle sue reni, senza mangiare da ventiquattro ore, e, che è peggio, senza bere da dodici, Patrasche per la prima volta cominciò a vacillare, fece un po’ di schiuma alla bocca e cadde sullo stradale sotto un sole ardente. Il suo padrone gli somministrò i soli rimedii che avesse nella sua farmacia, calci, legnate e imprecazioni, che al povero non facevano più nulla, giacchè era disteso nella polvere dello stradale, morto, almeno apparentemente.
Dopo qualche minuto vedendo che i cattivi trattamenti non valevano a rianimare quel carcame, il Brabantino gli gettò un’ultima bestemmia di addio, gli strappò la bardatura di cuoio, e con un grugnito feroce gli diede un colpo col piede che lo fece rotolare sull’erba di una fossa per servir di pasto alle formiche ed ai corvi; e se ne andò tirando da sè la carretta, poichè l’indomani era sagra a Lovanio, e il Brabantino avea fretta di accapparrarsi un buon posto.
Come uomo aveva agito saggiamente, cavando da Patrasche tutto il profitto possibile. A che gli sarebbe servito perdere un’ora e fors’anche alcuni soldi oltre all’occasione di divertirsi alla sagra, se si fosse indugiato ad assistere all’agonia di un cane da tiro?

Cosi Patrasche rimase nella fossa.
La strada quel dì era molto frequentata, centinaia di persone a piedi, a cavallo di muli, in carrozza, in carretta la percorrevano dirigendosi a Lovanio. Alcuni videro Patrasche; la più parte non lo guardavano nemmeno, tutti passavano: un cane più o meno non è niente in Brabante nè altrove.

Poco dopo un vecchietto curvo, debole e zoppo, il quale non aveva certo l’aria di festa, miseramente vestito, si trascinava fra quelli che andavano in cerca di divertimenti. S’accorse di Patrasche, si fermò sorpreso, poi s’inginocchiò sull’erba, e fissò su lui uno sguardo compassionevole. Il vecchio aveva con sè un fanciulletto biondo e roseo che scompariva fino alle spalle nei cespugli, e guardava pure con aria di graziosa gravità quella povera grossa bestia immobile. Così s’incontrarono per la prima volta il piccolo Nello ed il grosso Patrasche.

Giovanni Daas trasportò con molta fatica il povero moribondo alla sua capanna, distante un trar di sasso nei campi. N’ebbe poi tanta cura, che la crisi cagionata dal calore, dalla sete, dallo sfinimento, cesse al tempo e al riposo, e Patrasche si trovò presto sulle sue quattro grosse e fulve zampe.

Per più settimane fu loro inutile e non pertanto non ricevette che carezze e parole amorevoli. Il vecchio ed il fanciullo gli aveano fatto un letto di fieno; durante la notte lo ascoltavano con orecchio attento a respirare, ansiosi per sapere se vivesse. La prima volta ch’egli abbaiò con voce rauca e cavernosa, fu una gran gioia per essi e segno di guarigione. Nello volle persino sospendere una corona di margherite al suo collo irsuto; insomma Patrasche rimesso in piedi, tutto sorpreso di non essere stato risvegliato da maltrattamenti o cacciato a furia di botte, senti aprirsi il cuore ad un amore che gli durò poi sempre inalterabile.
Patrasche, non essendo altro che un cane, era riconoscente. Coi suoi occhi bruni ed attenti seguiva ogni movimento dei suoi amici per indovinare le loro abitudini.

Il vecchio soldato non aveva allora altro mezzo per guadagnarsi da vivere che di trascinar zoppicando un carrettino col quale recava ogni mattino fino ad Anversa il latte dei suoi fortunati vicini possessori di vacche, e che gli avevano serbato questo impiego un po’ per carità, ma più ancora perchè conveniva loro fidarsi ad un onest’uomo pel mercato, mentre essi rimanevano a cura dei campi e del bestiame.
Ma il vecchio aveva ottantatrè anni, ed Anversa era distante una buona lega. Patrasche, il giorno della sua guarigione, mentre si baloccava al sole colla sua corona di margherite appese al collo, vide recare i barattoli di latte; l’indomani, prima che Giovanni Daas tirasse fuori il suo carrettino, egli vi si piantò davanti per far capire come meglio poteva la sua voglia di lavorare; e Giovanni Daas ringraziò la sorte di avergli fatto raccogliere un cane in fin di vita in un fosso il giorno della sagra a Lovanio.

Sopraggiunto l’inverno, aumentate coll’età le infermità del vecchio, non gli sarebbe stato possibile portar il suo latte attraverso il fango e la neve senza l’energia di quel fedel servitore: ma per Patrasche, avvezzo alle dure fatiche, era quasi un giuoco il tirare la piccola e leggera carretta. Del resto il lavoro terminava presto, ed era poi libero d’agire a sua voglia, di stirarsi al sole, di correre i campi, di giocare col fanciullo o co’ suoi simili. Patrasche era felice. Essendo rimasto ucciso il suo primo padrone in una rissa da bettola alla sagra di Malines, nessuno pensò più a rapirgli tanta felicità.

Più tardi Nello, avendo raggiunto i sette anni e conoscendo bene la città ove tante volte aveva accompagnato il nonno, fu incaricato lui della vendita del latte. Il carro verde coi bariletti di rame forbiti, quel bel cane fulvo, tarchiato, coi finimenti ornati di sonagli che tintinnavano ad ogni suo passo, e il garzoncello che gli galoppava dietro ridente e bello come uno dei dodei rosei putti di Rubens, componevano un gruppo del quale più d’un artista passando volle fare uno schizzo.

Al suo ritorno al villaggio, Nello consegnava a ciascuno il suo denaro con una grazia e una serietà che sorprendevano tutti.

II.

In primavera e più ancora in estate erano tutti e tre felici. La Fiandra non è un bel paese, il frumento, il navone, gli erbaggi, i campi coltivati si succedono invariabilmente in quella uniforme pianura, la cui monotonia non vien rotta che dal bigio campanile col frastuono delle sue campane, di qualche taglialegna o di qualche spigolatore. Per chiunque abbia vissuto in montagna o in foresta, la triste monotonia di questa pianura è opprimente; però è fertile e verdeggiante, e i suoi vasti orizzonti, malgrado la loro tristezza, hanno delle attrattive tutte proprie. Vi è d’altronde abbastanza spazio e verdura per contentare gli occhi di un fanciullo e di un cane, che non desideravano altro dopo le loro fatiche che di sdraiarsi sull’erba alta ed oscura in riva al canale per osservare i battelli e respirare quell’odore di salsedine marina che si lascian dietro passando.

L’inverno era più duro, bisognava levarsi di notte col freddo, e la capanna, che era pur bella nelle altre stagioni, adorna com’era da una grande e lussureggiante vigna, che però non dava mai frutti, diventava allora un ricovero insufficiente. Il vento s’insinuava traverso le screpolate pareti, la vigna era spoglia e nera, la neve ed il ghiaccio intirizzivano e ferivano talvolta i piedini di Nello. Non per questo se ne doleva, anzi se l’altrui carità aggiungeva al suo salario un po’ di zuppa calda o una fascina, rientrava nel suo tugurio tutto allegro e contento.

Una cosa sola, tanto la state che il verno, tormentava Patrasche. – Anversa, ciascun lo sa, presenta ad ogni tratto alti campanili testimoni di altri tempi, ritti in mezzo al rumore della nostra epoca moderna; le nubi che passano ne sfiorano le sommità, e gli uccelli svolazzano loro dattorno, men tre a’ loro piedi dorme Rubens.

La gloria del grande artefice si libra ancora sopra Anversa. Da qualunque parte si giri, attraverso le strette vie e le acque stagnanti, nell’abbellimento degli oggetti più volgari, tu la scopri sempre, il suo spirito ti segue dovunque, la bellezza delle sue ispirazioni ti circonda, le pietre sulle quali cammini, ove passò la sua ombra, sembrano alzarzi per parlarti di lui a viva voce. Senza Rubens, sarebbe Anversa? – Una ripa popolata, un tumultuoso mercato frequentato da soli trafficanti; con Rubens, Anversa è per tutti una terra sacra, ove uno degli déi dell’arte vide la luce. O nazioni! avete ragione d’inorgoglirvi dei vostri grandi uomini, solo per loro i posteri vi conosceranno! La Fiandra è stata saggia in questo; essa ha glorificato il più illustre dei suoi figli, morto lo venera: rara saggezza.

Ecco qual era il tormento di Patrasche. Il piccolo Nello spariva di sovente in qualche chiesa, e se il cane tentava di seguirlo col suo carretto, un custode, con un gran mazzo di chiavi in mano vestito di nero, lo respingeva bruscamente. La sua chiesa prediletta era la grande cattedrale. Patrasche disteso fuori, sbadigliava, sospirava, abbaiava anche di tratto in tratto presso i frammenti di bronzo della porta Quentin-Metsys; aspettava che l’ora nella quale si chiudono tutte le chiese sforzasse l’ingrato a raggiungerlo. Allora Nello circondava colle sue braccia il collo di Patrasche e baciava quella sua fulva fronte mormorando sempre la stessa frase: Ah! se potessi soltanto vederli! – Veder che?

Un giorno che il custode era occupato altrove, il cane potè, per un istante, seguire il suo amico. Nello era in ginocchio rapito in estasi dinanzi al quadro dell’Assunta. Accortosi di Patrasche, si alzò e colle buone lo fece uscire. Aveva le guancie bagnate dalle lagrime e passando dinanzi le pitture coperte, disse al suo compagno: – Che rabbia di non poterle vedere, perchè non si può pagare! Quando le ha fatte, son certo che non pensava di nasconderle ai poveri.
Egli ci avrebbe permesso di ammirarle sempre. Nasconderle sotto questo tendone! nell’oscurità! Se potessi solamente vederle, morrei soddisfatto!
Ma egli non poteva vederle e Patrasche non poteva aiutarlo, perchè guadagnare il denaro che esige la chiesa per mostrarvi gli splendori della Crocefissione e della Deposizione dalla Croce sarebbe stato un cimento al di sopra dei loro mezzi, quanto quello di scalare l’altezza della guglia. Il piccolo lattivendolo aveva ricevuto dalla nascita quel favore o quella maledizione che si chiama genio; ma nessuno lo sospettava, ed egli stesso lo ignorava:
– il solo Patrasche ne sapeva qualche cosa. Patrasche che non lo lasciava mai, lo vedeva disegnare colla calce sulle pietre tutto quello che lo circondava; di notte lo sentiva mormorare timide preghiere all’anima del grande maestro, vedeva il suo sguardo farsi serio e il suo viso raggiante dinanzi le bellezze del tramonto e dell’aurora, e aveva sentito più di una volta le lagrime d’una gioia e d’una angoscia ineffabile, stranamente confuse, cadere ardenti dagli occhi di Nello sul suo muso intelligente.
– Mio unico desiderio è che tu sia un giorno padrone di questa capanna con un pezzetto di terra accanto e che la coltivi tu stesso, – diceva di svovente Giovanni Daas.

Possedere un po’ di terreno, esser chiamati nel casale baas, padrone, è l’ideale del contadino fiammingo, e il vecchio soldato che aveva percorso il mondo senza aver guadagnato nulla, nei suoi ultimi momenti pensava che vivere e morire nello stesso luogo e in umile agiatezza era la miglior sorte che potesse desiderare al suo fanciullo. Nello non rispondeva. Fermentava in lui il genio stesso che fece nascere i Rubens, i Jordaens, i Van-Eyck e tutta la loro divina tribù, ma egli non confidava che a Patrasche le sue ambizioni.
Non è mai opportuno mettere i nostri sogni alla portata di un orecchio umano, e i sogni di Nello sarebbero stati indecifrabili per il nonno che trovava la madonna scarabocchiata sopra l’insegna di una bettola interessante quanto i famosi quadri di altare, utili solo, diceva, per attirare i forestieri. Nello non parlava liberamente del suo avvenire che con Lisetta, la figlia del mugnaio del villaggio.

Lisetta, la fanciulla più ricca del dintorno, era una bellissima e rosea creaturina, paffutella, abbellita da un paio d’occhi cupi, traccia lasciata dagli Spagnuoli su molti visi fiamminghi, come l’arte spagnuola lasciò maestosi palazzi, cortili imponenti, facciate dorate, stipiti ricchi di poetiche scolture attraverso il paese.
Lisetta stava spesso con Nello e Patrasche, correvano insieme pei campi e lungo le siepi, sedevano insieme la sera in casa del mugnaio davanti ad bel fuoco. La sua gonna color celeste non aveva mai uno strappo. Alla sagra riceveva in dono tante noci dorate e Agnus Dei di zuccherini, quanti ne potevano contenere le sue taschine.
Il dì della sua prima comunione aveva messo, sopra i suoi capelli biondi come il lino, una cuffia di pizzo di Malines già portata dalla mamma e dalla nonna.
Gli uomini parlavano di lei come di un buon partito per l’avvenire, ma la piccina l’ignorava. – Nello e il suo cane erano i suoi unici e cari amici.

Un giorno però padron Layez, suo padre, bray’uomo, fu spettatore di una scena veramente graziosa. In un prato appena tagliato vide la sua fanciulla seduta col testone di Patrasche sulle sue ginocchia, l’una e l’altro incoronati di ghirlande intessute di fioralisi e di papaveri. Nello stava loro dinanzi disegnando il gruppo con un pezzo di carbone sopra una tavoletta di abete. aria: vedevo il carbonaio che dava ancora d’ombra il povero Frimousse, Il mugnaio osservò commosso il ritratto, poichè lo trovò rassomigliantissimo e amava tanto la sua unica figliuola: dopo un poco però la rimproverò di rimanersene oziosa, mentre sua madre aveva bisogno di lei, e la mandò a casa piangente. Strappò quindi di mano a Nello la tavoletta chiedendogli:
– Ne fai tu molti di questi sgorbi? Nello arrossi e balbettò:
– Disegno tutto quello che vedo.
Il mugnaio riflettè un momento, poi levò una lira di tasca.
– Tempo perso, – diss’egli; – però, siccome rassomiglia a Lisetta, farà piacere a mia moglie: tengo il disegno e lo pago.
Il rossore spari dal viso del ragazzo, alzò la testa, incrociò le mani dietro la schiena e rispose:
– Tenetevi il denaro e anche il ritratto, padron Layez, voi me ne faceste tanti dei piaceri!
Chiamò Patrasche, lo condusse via e gli disse:
– Io non potevo vendere il suo ritratto, non è vero?
Padron Layez andò a casa turbato.
– Non lasciar Lisetta andar tanto con quel fanciullo, – disse alla moglie, – potremmo averne delle noie da qui innanzi. Egli ha quindici anni, essa ne ha dodici e il bricconcello promette bene.
– E ha sopratutto buon cuore, – riprese la moglie guardando con compiacenza il ritratto che spiccava pomposo sul caminetto fra una via crucis e un orologio di legno.
– Non dico il contrario io, – soggiunse il mugnaio, vuotando d’un fiato il suo bicchiere.
– Quand’anche i tuoi presentimenti, – disse timidamente la moglie, – si avverassero, non sarebbe poi un gran male. Non avrà essa abbastanza per entrambi, e non si potrebbe esser più che contenti?
– Sei donna, e inesperta per di più, – rispose duramente il mugnaio, battendo colla pipa sul tavolo; – questo monello è peggio che un mendicante colla sua passione per la pittura. Veglia su lei, altrimenti incaricherò le suore del Sacro Cuore di custodire mia figlia.
La madre, spaventata, promise di obbedire. Senza separarli del tutto, ebbe cura di impedire troppo frequenti ritrovi fra loro. Nello, fiero e sensibile, si offese di queste precauzioni, cessò di andare al mulino come aveva fatto fin allora nei suoi momenti di ozio. Quale mancanza era la sua? Non capiva. Non supponeva altro fuorchè padron Layez si fosse adontato pel ritratto da lui fatto a Lisetta, e quando questa correva a lui e lo pigliava per le mani, egli dolcemente le diceva: – Non facciamo adirare il babbo, egli crede che io ti faccia diventare pigra, e non ha piacere di vederti meco.
– Ma il poveretto si facea triste dicendo queste parole, e la vita non gli sembrava più così gaia come in passato quando al levar del sole sotto i pioppi camminava con Patrasche per quelle strade lunghe e diritte. – Perchè, si domandava, perchè mi respingono dopo aver accettato il mio regalo?

Col nonno non parlava, poichè più volte gli aveva ripetuto: – Noi siamo poveri, bisogna pigliare quello che Dio ci manda, tanto il bene quanto il male; i poveri non possono scegliere! – Nello aveva sempre ascoltato rispettosamente e silenziosamente queste parole, malgrado la speranza vaga che rispondeva in lui.
– I poveri, pensava, scelgono anche loro qualche volta, scelgono di essere grandi e nessuno può dir loro: No!
E sperava sempre.
Una sera incontrò sulla riva la fanciulla che singhiozzando gli confidò la proibizione avuta di invitarlo a mangiare il pane pepato e ballare sull’aia in occasione della sua festa, che si doveva celebrare il dì dopo. E Nello, confortandola, le diceva:
– Vedrai, mia cara, che non sarà così in avvenire; verrà tempo in cui l’assicella di abete che donai a tuo padre varrà tant’oro quanto pesa, e allora non mi sarà più chiusa la porta. Amami, e non pensar ad altro, – riprese egli abbracciandola, – e io sarò grande!
– Ma s’io non t’amassi? – chiese la piccina, facendo, con la civetteria istintiva del suo sesso, una smorfia attraverso le lagrime.
Lo sguardo di Nello fissò l’orizzonte, ove la cattedrale d’Anversa torreggiava fra la porpora e l’oro dei tramonti fiamminghi. Sul suo viso vagava un sorriso tanto singolare, che sconcertò la Lisetta.
– Io sarò grande, – rispose, – o morirò.
– E allora se tu che non mi ami, – esclamò la capricciosetta con dispetto.
Il ragazzo scosse la testa e collo stesso sorriso sulle labbra se ne andò attraverso i campi di biade pensando dolcemente a quel giorno in cui ritornerebbe al paese natio per domandare Lisetta ai suoi genitori, i quali lo riceverebbero cortesemente mentre gli abitanti del villaggio susurrerebbero fra loro: “Ora egli è re fra gli uomini, eppure non era testè che il nostro Nelluccio poverello che viveva delle fatiche del suo cane. ,,
Allora dipingerebbe il nonno tutto vestito in pelli e in velluto come il vecchio della Sacra Famiglia che trovasi nella cappella di S. Giacomo, e alla sua dritta collocherebbe Patrasche colla catena d’oro e direbbe al popolo: “Questo cane fu per molto tempo il mio unico amico. ,, E poi avrebbe un palazzo di marmo bianco, dei giardini di delizie e li aprirebbe ai poveri e agli orfani che volessero fare di belle cose. E quando si benedirebbe il suo nome, Nello contava di rispondere: “Ringraziate Rubens piuttosto: senza di lui che avrei io fatto? ,,

III.

Oggi è il giorno della festa di Lisetta, non è vero? – domandò il vecchio Daas.
Il nipote avrebbe preferito che il nonno non avesse tanta buona memoria, tuttavia fece un cenno affermativo col capo.
– E perchè non ci sei andato? Vi andavi sempre gli anni scorsi!
– Sei troppo malato, caro nonno, perch’io possa lasciarti solo, – disse con tenerezza il fanciullo piegandosi verso di lui.
Oibò! oibò! mamma Valette sarebbe venuta a tenermi compagnia; vi è un altro motivo, Nello; ti saresti forse bisticciato colla piccina?
– Mai più, nonno, mai più! – sclamò Nello col viso infiammato. – La verità è che papà Layez non mi ha invitato. Egli ha ora qualche capriccio contro di me.
– Ma non hai tu fatto nulla di male?
– Niente ch’io sappia. Ho fatto il ritratto di Lisetta sopra una tavola di abete, eco tutto…
Il vecchio tacque. In questa innocente risposta intravvide il vero. Inchiodato com’era da tanto tempo nel suo letto di foglie secche, non aveva però dimenticato del tutto le cose di questo mondo. Avvicinò a lui la bionda testina del fanciullo:
– Tu sei povero, assai povero, Nello mio, – diss’egli con voce più tremula ancora del solito, – e questo è duro per te.
– No, io sono ricco, – mormorò Nello.
Nella sua semplicità lo credeva: egli si vedeva arricchito dei doni imperituri che sono più potenti della potenza dei re.
Si avvicinò alla porta, stette ad osservare le stelle che aumentavano in cielo e gli alti pioppi nella quiete di quella bella notte di autunno.
Tutte le finestre della casa del mugnaio erano rischiarate, e i suoni del flauto giungevano di tratto in tratto fino a lui. Le lagrime gli bagnavano le guancie. Non era che un fanciullo, eppure sorrideva dicendosi:
– Più tardi!
Quando fu notte fatta, Nello si coricò col suo cane, unico confidente di un suo secreto. In un angolo della capanna c’era come un ricetto ampiamente rischiarato ove nessuno entrava, fuorchè loro due. Ivi egli si era fatto una specie di cavalletto e sopra un gran foglio di carta turchiniccia aveva dato forma ad una delle tante fantasie che gli pullulavano nella mente.
Nessuno gli aveva mai insegnato nulla, non aveva mezzi per procurarsi dei colori e si era dovuto privare più d’una volta di pane per comperarsi que’grossolani utensili che possedeva; egli non poteva rappresentare le cose che lo colpivano se non servendosi di bianco e nero. Ed era in tal modo che Nello aveva su quella carta disegnato un vecchio seduto sopra un tronco abbattuto; egli aveva spesse volte veduto Michele, il boscajuolo, riposarsi così, e benchè ignorasse la prospettiva, l’anatomia, il contorno e l’ombra, pure aveva espresso benissimo la stanchezza dell’età inoltrata e tutta la melanconica pazienza, la fisonomia pensierosa e rassegnata dell’originale.
Tanto che figura isolata nel crepuscolo della sera era come un poema grossolano non esente da difetti, ma pieno di naturalezza all’occhio di un’artista, vero e bello a suo modo.
Il fanciullo nutriva una speranza, vana forse, ma cara. Voleva mandare quel disegno al concorso del premio annuale di 200 lire, aperto pei giovani al disotto dei diciotto anni. Tre dei principali artisti di Anversa erano stati scelti per giudicare i lavori esposti. Tutta la primavera, la state e l’autunno Nello aveva lavorato per guadagnare il tesoro che coll’indipendenza poteva procurargli la chiave dei misteri di un’arte che adorava ciecamente.
Non parlò con alcuno: il nonno non avrebbe compreso, la Lisetta era perduta per lui. Al solo Patrasche disse il vero aggiungendo: – Rubens mi darebbe il premio, se sapesse….

I lavori dovevano essere presentati pel primo dicembre e la sentenza sarebbe stata pronunziata pel dì ventiquattro dello stesso mese. All’alba di una giornata d’inverno, Nello, col cuore commosso dal timore e della speranza, collocò il suo disegno sul carretto, lo trasportò in città per lasciarlo, come era stabilito, sulla soglia di un pubblico ufficio.
“Forse non val nulla! Cosa posso sapere io? ,, pensava il fanciullo, assalito da timidezza e scoraggiamento. Appena lasciato, n’era quasi pentito; gli pareva troppa presunzione che un birichino scalzo, che conosceva appena le lettere dell’alfabeto, avesse potuto fare un’opera che pittori di merito, veri artisti, si degnassero solo di guardare.
Pure, allorchè Nello passò vicino alla cattedrale, credette che l’imponente ombra di Rubens, uscendo dalle nubi della sua magnificenza e serenità, gli gridasse: – Coraggio! Non è col timore e colla debolezza che io scrissi per tutta l’eternità il mio nome sulla città d’Anversa! – Nello ritornò a casa riconfortato; aveva fatto il meglio che aveva saputo; il resto dipendeva dalla Provvidenza.
In quella notte nei giorni seguenti nevicò tanto che i sentieri erano tutti coperti dal ghiaccio. Portare il latte attraverso quella pianura divenne una penosa necessità, penosa specialmente per Patrasche, perchè gli anni che avevano fortificato l’adolescenza di Nello avevano pure indebolite le vecchie membra del cane.
Questo però non fu mai riluttante alla sua parte di lavoro, nè mai lasciò fare a Nello quello che doveva far lui; egli non si sarebbe potuto adattare a rincantucciarsi al focolare come un invalido al momento del bisogno.
– Povero Patrasche! noi presto dormiremo entrambi tranquilli, – diceva Giovanni Daas accarezzandolo colla mano grinzosa che aveva diviso sempre il suo pane quotidiano, e il vecchio nonno si sentiva tosto una stretta al cuore pensando: – Quando non ci saremo più, chi penserà al nostro fido?

Un dopo pranzo ritornando da Anversa sulla neve che s’era indurita come il marmo, Nello trovò una bella puppattola vestita tutta di seta rosa e di oro, grande circa sei pollici, e più felice di certi alti personaggi che la fortuna abbandona, essa era intatta malgrado la caduta; era proprio un grazioso giocattolo. Dopo averne cercato invano il proprietario, egli pensò che alla Lisetta piacerebbe assai.
Era già notte quando passò dalla casa del mugnaio, ma sapeva qual era la finestra della sua cameretta; scalò una tettoita, picchiò pian pianino l’imposta dietro la quale ardeva un lumicino. La ragazzina l’aprì mezzo spaurita, ed egli messale la bambola fra le mani:
– Ecco una poppattola che ho trovato in mezzo alla neve, – disse a bassa voce, – pigliala, e che Dio ti benedica.
Prima ancora che essa lo ringraziasse, era già sceso a terra e fuggiva.
Sfortuna volle che in quella stessa notte si appiccasse il fuoco al mulino; le fabbriche principali ne furono preservate, ma molto grano venne distrutto.
Accorse tutto il villaggio, le pompe giunsero da Anversa, era una confusione. Il mugnaio non perdeva nulla perchè il suo mulino era assicurato; pure n’ebbe grande ira, e dichiarò apertamente che l’incendio non era un accidente, e respinse anche Nello che, tolto dal suo sonno, era accorso per prestare come gli altri il suo aiuto.
– Tu gironzavi qui a notte fatta, – gli disse bruscamente il mugnaio; – giurerei in fede mia che tu in questo incendio ne sai più di qualunque altro.

Nello stupefatto, lo credette uno scherzo: si meravigliò solo che in simil circostanza si potesse scherzare; ma il preteso scherzo fu ripetuto tante volte e con tanta forza, che si sparse subito la voce essersi veduto Nello introdursi la notte di soppiatto nella corte del mulino, e ch’egli conservava rancore a padron Layez per essergli proibita ogni intimità con la sua figliuola. I vicini che in ogni cosa secondavano l’opinione del ricco proprietario, e le cui famiglie desideravano pei loro figli le future ricchezze di Lisetta, furono da quel di meno espansivi con Nello – Nessuno apertamente gli rimproverava nulla, pure nelle masserie ove Nello e Patrasche andavano ogni mattina, un freddo accoglimento tenne alla solita cordialità colla quale erano trattati. Tutti quei contadini poveri e ignoranti; il più ricco s’era pronunciato contro Nello, che non aveva nessun protettore.
– Tu sei inflessibile con quel povero ragazzo, – osò dire la massaia al suo marito e padrone. – Egli è innocente, ne rispondo io; nessun affronto lo avrebbe indotto ad agir male.
Ma padrone Layes era ostinato: quando aveva detto una cosa ci teneva, bencè il suo animo gli dicesse essere ingiusto. Nello, del resto, sopportò quell’oltraggio con un certo orgoglio sdegnando qualunque giustificazione.
Se guadagno il premio diceva a Patrasche, si pentiranno d’avermi trattato così. Ad ogni modo, per un ragazzo di sedici anni, accarezzato e ben voluto fin allora, la prova era penosa, in quella stagione d’inverno specialmente, quando tutti i vicini si riunivano intorno allo stesso focolare al lume della stessa lampada.

Nello e Patrasche, esclusi dalla veglia, erano ridotti a scaldarsi come potevano sotto il povero tugurio ove la fame teneva loro spesso compagnia, perché da poco un mercante di Anversa comperava tutto il latte e lo trasportava con un mulo. Appena tre o quattro contadini erano fedeli al carretto verde. Il cane, come di consueto, si fermava davanti le porte ormai chiuse per lui, facendo col suo sguardo una domanda.
Dispiaceva ai vicini di chiudere la loro porta e i loro cuori a quei due poveretti, ma si trattava di piacere a padron Layez.

S’avvicinava il Natale. Vi erano sei piedi circa di neve sul suolo: il ghiaccio era dappertutto tanto grosso da sostenere i bovi. Era un tempo di festa pel villaggio: fin nella più umile dimora v’erano dolci, latte rappreso, danze e giochi, santi di zucchero e Cristi dorati. Gli allegri sonagli fiamminghi suonavano alle bardature dei cavalli.
Sulle strade le fanciulle gaie e contente andavano alla chiesa ravvolte in calde pelliccie e candidi fazzoletti: nelle case le pentole riboccanti fumavano, e friggevano le padelle sui fornelli. Solo la capannuccia di Giovanni Daas era fredda e triste. L’antivigilia di Natale la morte chiuse gli occhi al vecchio paralitico, incapace di muoversi, atto solo ad incoraggiare il nipote con buone parole. In realtà era morto da lungo tempo. I due superstiti, il giovanetto e il vecchio cane, formarono tutto il corteggio funebre sino al camposanto.
– Senza dubbio egli si intenerirà ora, – pensò la massaia, osservando il marito che fumava accanto al fuoco.
Se padron Layez indovinò quel pensiero, indurò anche il suo cuore, e non aprì la porta quando l’umile bara vi passò dinanzi. Allora la moglie, senza osare dir parola, mise nelle mani di Lisetta una corona di semprevivi, e a bassa voce le insegnò di andarla a deporre in segreto sulla terra smossa, senza nome, da ove era stata levata la neve.
Nello e Patrasche, ritornati alla capanna, non vi dovevano trovare nemmeno quel po’di requie e soffrire tranquilli. Giovanni Daas doveva da qualche tempo una piccola somma al padrone di quella catapecchia, che era un ciabattino solito a trovarsi, la sera di tutte le domeniche, con padron Layez a bevere la sua mezza pinta. Ora, pagati i funerali, non rimase a Nello più un soldo.
Egli si provò invano a commuovere il ciabattino: costui amava troppo il denaro, ed in mancanza di questo reclamò fino all’ultimo filo ciò che si trovava nella capanna; quindi ingiunse a Nello e a Patrasche di sloggiare il dì dopo.

Tutta la notte, il fanciullo ed il cane rimasero vicini allo spento focolare stretti l’uno all’ altro. Quando spuntò l’alba, Nello disse a Patrasche coprendolo di lagrime:
– Partiamo, non aspettiamo di essere scacciati; partiamo….
Patrasche non aveva altra volontà che quella del suo padroncino. Se ne andarono dunque uno accanto all’altro: il cane declinò la testa passando dinanzi al carrettino verde e ai finimenti di rame che brillavano gettati sopra la neve e che non erano più suoi. Avrebbe voluto coricarsi loro accosto e morirvi; ma e il padrone? Il cane lo seguì.
Pigliarono la loro solita strada. La maggior parte delle imposte erano ancora chiuse; alcuni paesani stavano però già fuori, ma nessuno s’accorse di loro. Davanti una porta il ragazzo si fermò, il nonno suo aveva reso più di un servigio da buon vicino a quella gente.
– Vorreste dare una crosta di pane a Patrasche? – diss’egli timidamente, – è vecchio e non mangiò nulla da ieri mattina.
La donna chiuse in fretta la porta dopo di aver brontolato che la segala era a caro prezzo, e Nello non richiese più altro. Giunsero ad Anversa che battevano le dieci:
– Se potessi vendere qualche cosa per comperargli il pane! – pensò Nello; ma egli non aveva che il suo sdrucito abito e gli zoccoli.
Patrasche mise il suo muso nelle mani del giovinetto, come se lo avesse pregato di non tormentarsi per lui.

Il nome del concorrente cui era stato conferito il premio, doveva essere proclamato a mezzo giorno. Nello si diresse al luogo ove lasciato il suo tesoro. Sui gradini, nell’atrio s’affollavano i giovani artisti colle loro famiglie e amici. – Nello, tremante, si spingeva fra essi col suo Patrasche. I rumorosi campanili della città suonavano a distesa, le porte di una sala si apersero, la moltitudine vi si precipitò.
Si sapeva che il lavoro prescelto sarebbe stato elevato su d’un baldacchino di legno al disopra degli altri. Una nebbia attraverso gli occhi a Nello; si turbò si senti mancare le gambe. Finalmente distinse il disegno. Non era il suo; una voce lenta e sonora pronunciò il nome di Stefano Kiesslinger, nativo di Anversa, figlio di un proprietario di magazzini di deposito della città.
– Tutto è finito, mormorò Nello, – tutto!
Nello riprese la via del villaggio, malgrado la debolezza cagionata dal lungo digiuno. La neve cadeva senza tregua, un uragano glaciale soffiava dal Nord; ci volle del tempo per passare la pianura. Patrasche si fermò repentinamente, fiutò la neve, si mise a ruzzolare, a gemere, ed addentò un sacchetto di tela. Nello nell’oscurità lo pigliò; in quel sito v’era una via crucis e in una lampada appannata ardeva vacillante e fioco un lumicino ai piedi della croce. Il garzone macchinalmente volse il sacco verso il lume e ci vide sopra il nome di padron Layez e dentro sei mila franchi in biglietti.
Tale cosa lo stupì profondamente, si pose il sacchetto entro lo sparato della camicia, accarezzò Patrasche e continuò la sua strada. Il cane lo osservava con inquietudine. Nello si diresse alla casa del mugnaio, battè alla finestra e la donna aperse piangendo.
– Ah sei tu, povero ragazzo, disse con bontà. – Vattene presto prima che il padrone ti vegga. Siamo affannati tutti stasera. Egli cerca una grossa somma che ha smarrito lungo la via ritornando a casa, e con tutta questa neve come farà a trovarla? Eccoci rovinati del tutto o quasi. Questa è la punizione del male che ti si è fatto.

Nello consegnò il sacchetto alla mugnaia e fece entrare in casa Patrasche.
– Fu proprio lui a trovare quello che cercate, – disse; – quando padron Layez lo saprà non gli rifiuterà forse ricovero e vitto nella sua vecchiaia. Impeditegli di seguirmi e vogliategli bene.
Prima che la donna avesse capito, egli s’era chinato per baciare Patrasche; poi chiudendo frettolosamente la porta spari nella crescente oscurità.
Il povero cane esauriva i suoi furenti latrati contro la porta incatenata, quando dall’altra parte entrò il mugnaio molto abbattuto.
– Abbiamo inutilmente cercato dappertutto coi fanali, – disse alla moglie con voce tremante dall’emozione; la nostra piccola non ha più dote!
La donna lo interruppe per raccontargli come il denaro era stato trovato. Ascoltandola, quell’uomo fiero si appoggiò su d’una seggiola col viso coperto da tutte e due le mani.
– Non meritava che mi venisse da lui nulla di bene, – disse confuso di vergogna.
La Lisetta prese coraggio, appoggiò la sua bionda testina sulle ginocchia di suo padre:
– Nello potrà dunque, – domandò a voce bassa, – ritornare domani come prima?
Il mugnaio la strinse al seno, il suo viso duro e arcigno era pallido.
– Sicuro, – rispose, – che venga a passare il giorno di Natale e tutto il tempo che vorrà qui con noi. Io ho trattato male e la mano del Signore mi ha dolcemente castigato. Devo delle ricompense a questo ragazzo e le avrà.
Lisetta gli saltò al collo, riconoscente e felice; poi corse da Patrasche che piantato dinanzi la porta aspettava il momento che si aprisse.
– Intanto posso far festa al cane qui! – esclamò la fanciulla nella sua spensierata allegrezza di adolescente.

Il padre approvò con un cenno affermativo del capo; era tocco nel più profondo del cuore, portò egli stesso delle vivande saporite e pasticcerie calde al povero cane. Era la notte di Natale; l’enorme tronco d’albero scoppiettava fra i quadrati di torba, le ghirlande di edera erano sospese alle travi.
La via crucis e l’orologio si mostravano mezzo nascosti sotto una massa di alloro spinoso dalle coccole rosse. Luce, calore abbastanza: nulla mancava; ma il cane non voleva nè avvicinarsi al fuoco, né mangiare, e continuava a star inchiodato alla porta, resistendo energicamente ad ogni tentazione.
– Vuole il suo padrone, – disse padron Layez. – Bravo cane! andremo a cercarlo insieme, allo spuntar del giorno.
Nessuno sapeva che Nello avesse sloggiato dalla capanna e nessuno s’immaginava che avesse voluto resistere da solo a tanta miseria.
Il camerone si riempiva di vicini accorsi a mangiare il loro pezzo di pasticcio di oca ingrassata, inaffiato da buon vino. Lisetta, sicura di rivedere il domani il suo amico, salterellava giuliva davanti ai giocattoli, alle ghiottornie, ai palloncini preparati per l’illuminazione.
Padron Layez l’ammirava intenerito pensando al bene che poteva fare; ma invano gli inviti più amorevoli erano rivolti a Patrasche. Mentre fumava la zuppa e si dispensavano i regali, egli profittò dell’entrata di un nuovo vicino per svignarsela fra le sue gambe e slanciarsi fuori nel buio correndo con tutta la velocità che gli permetteva la sua forza.

Più di un amico avrebbe fatto tardi volentieri accanto a quel bel fuoco e davanti a quella buona tavola, ma Patrasche non era di quelli. La neve non avendo cessato di cadere tutta la sera la traccia di Nello era scomparsa. Dovette cercarla per un pezzo e ripetutamente, perchè trovatala la perdeva di nuovo. L’impronta di quei piedi, per quanto leggera ed interrotta, andava dritta ad Anversa.
Era quasi mezzanotte e Patrasche la seguiva sempre attraverso le strette e tortuose vie della città, oscura quasi quanto la campagna. Appena qualche chiarore rossastro brillava qua e là dalle finestre o dalle lanterne portate da qualche compagnia di beoni che tornava a casa cantando. I muri ed i tetti si staccavano in nero sopra la neve, il vento si ingolfava nelle viuzze con gemiti lugubri e faceva girare le banderuole e agitare le insegne.
Agghiacciato fino alle ossa, sfinito dalla fame, Patrasche a forza di pazienza arrivò ai gradini della cattedrale. Dopo la messa della mezzanotte, la negligenza di uno dei custodi aveva lasciata semichiusa una delle porte. In grazia di questo accidente, i passi ch’ egli cercava avevano potuto penetrare nell’ edificio, lasciando delle orme bianche sulle pietre oscure. Questa traccia indurita dal ghiaccio, guidò Patrasche nel profondo silenzio sotto la vastità delle volte, verso il santuario davanti il quale giaceva Nello. Senza chiasso il cane avvicinò il suo muso alla faccia del fanciullo, quasi gli dicesse: – Credevi tu che io ti avessi potuto abbandonare? io, il tuo cane?
Con un debol grido Nello si sollevò e lo abbracciò.
– Moriamo dunque insieme, – diss’egli. – Nessuno ha bisogno di noi, e siamo soli al mondo noi due.

Patrasche gli si avvicinò maggiormente e appoggiò la testa sul petto del suo amico, e stettero così uniti l’uno all’altro. La burrasca continuava a soffiare dai mari del nord con un gelo micidiale per ogni cosa vivente, e sotto quelle volte di marmo faceva più freddo che altrove.
Un pipistrello passava di tratto in tratto in quell’ombra. A sbalzi una fuggevole luce si rifletteva sulle file di statue che popolano la chiesa. Essi giacevano immobili, immersi, dalla potenza narcotica del freddo, in un vago sogno agitato da ogni sorta di immagini del passato. Nessuna collera li aveva divisi mai, nessuna severità da una parte, nessuna infedeltà dall’altra aveva mai turbato la loro confidenza reciproca. Improvvisamente nel seno delle tenebre una gran luce bianca inondò la vastità della navata.
Non nevicava più, la luna si mostrava attraverso le nubi, ed i suoi raggi, che si riflettevano puri come quelli dell’ alba, illuminavano i due grandi quadri che Nello entrando in chiesa aveva scoperti: la Crocefissione e la Deposizione della Croce furono visibili come in pieno giorno.
Nello si rizzò e stese loro le braccia: lagrime di estasi appassionata brillavano sulla pallidezza del suo volto.
– Oh li ho veduti finalmente! – esclamò. – Dio mio, sono felice!
Le membra gli si piegarono sotto: cadde in ginocchio cogli occhi volti ancora verso la sovranità ch’egli adorava. Per alcuni rapidi istanti, la luce inondò quel divino spettacolo che per si lungo tempo gli era stato negato, una luce ampia e tranquilla che pareva venisse dal trono stesso di Dio…. Le braccia del fanciullo strinsero il cane che non si muoveva più.
– Noi lo rivedremo lassù, – mormorò Nello, – egli non ci separerà, sai, egli avrà pietà di noi!

IV.

Il giorno dopo, il popolo di Anversa li trovò tutt’e due morti. Il freddo della morte aveva agghiacciato quella giovinezza come quella vecchiaia. All’alba del Natale, quando i preti entrarono nella cattedrale, li videro entrambi distesi sul lastrico della chiesa. Sopra loro brillavano senza velo le sublimi creazioni di Rubens e i primi raggi del sole sfioravano la testa del Signore coronata di spine.
Poco dopo giunse un vecchio, i cui lineamenti del volto erano severi e piangeva come una donna.
– Io fui crudele con quel giovanetto, – mormorava, – vorrei ora riparare e dividere con lui tutto quello che posseggo, trattarlo come un mio figliuolo.
Inoltrava il dì; un pittore assai noto, liberale e caritatevole, giunse egli pure.
– Cerco, – egli disse, – un tale che ieri avrebbe dovuto avere il premio se lo si fosse accordato al merito, un talento giovane, ricco di belle speranze. Egli non ha rappresentato che un taglialegna seduto sopra un tronco d’albero morto, ma ciò basta per presentire quello che potrà fare. Vorrei condurlo meco e insegnargli la mia arte.
Una fanciulla dai capelli biondi e inanellati singhiozzava stringendosi alle braccia di suo padre.
– Oh, Nello mio! vieni, tutto ti aspetta: il bambino Gesù ti ha portato tanti regali, e la mamma disse che tu rimarrai accanto al nostro fuoco ad arrostire le castagne tutta la settimana. di Natale fino all’Epifania! Come sarà contento Patrasche!… Vieni, Nello, svegliati!
Quel pallido viso, volto verso la luce del grande Rubens, quell’estatico sorriso sulle labbra rispondeva a tutti:- E troppo tardi!
Le campane sonore continuavano a vibrare traverso la neve; il sole brillava sulla pianura imbianchita, e il popolo si accalcava allegro per le vie di Anversa. Ma Nello e Patrasche non imploravano l’altrui carità. Tutto quello di cui allora avrebbero avuto bisogno, Anversa lo dava loro spontaneamente.
La morte fu più caritatevole per loro di quello che fosse stata la vita. Essa tolse l’uno nella lealtà del suo amore, l’altro nell’ innocenza della sua fede, da un mondo che per l’amore non ha ricompense, che per la fede non ha che disinganni. Morti, non furono divisi, perché le loro braccia erano troppo strettamente avvinte per poterli separare senza violenza, e gli abitanti del villaggio, contriti e vergognosi, sollecitarono la grazia speciale di collocarli in un sola tomba, nella quale potessero star coricati per sempre l’uno accanto all’altro, Nello e Patrasche.

Ouida. 1893

Articolo tratto da: L’illustrazione popolare
Digitalizzato in Google Libri

Da Wiki:
Nel corso degli anni sono stati fatti numerosi adattamenti dell’opera, sia per il cinema sia per la televisione. Nessuna delle versioni occidentali, contrariamente a quelle giapponesi, segue interamente la trama originaria, preferendo optare per un finale più ottimistico, in cui il bambino e il cane non muoiono.


Ovvio, ecco come mi piacerebbe che finisse questo racconto.

E’ la notte di Natale,
A casa Layes, si festeggiava, la dote di Lisetta era stata ritrovata, padron Layes raccontava con allegrezza come erano andate le cose ai vicini e chi lo aveva aiutato nella ricerca, indicando il cane, diceva: è stato lui, insieme al suo padrone Nello, a trovare e riportarci la dote! Buon ragazzo quello! Quanto mi son sbagliato su di lui! Non conosco un altro che non si sarebbe intascato i soldi!
I presenti notando com’egli avesse cambiato il suo atteggiamento nel confronto del ragazzo e comprendendone il motivo, chiesero:
– Sì, ma lui dov’è? perché ha lasciato il suo cane qui? Non li abbiamo visti sempre insieme?
– Ma… credo che si andato a casa, rispose il mugnaio, domani ho intenzione di recarmi da lui, e a dire di ringraziarlo sarà poco!
Nel gruppo vi era anche il ciabattino, che a sentir ciò aggrottò un sopracciglio, e avvicinandosi al mugnaio disse:
– Perché, sta ancora lì? E spiegò in breve, che lo aveva scacciato perché non aveva pagato…
Il mugnaio a sentir queste parole rimase perplesso, guardò Patrasche che continuava a guaire e a grattare la porta, diede un sguardo alla finestra dalla quale si intravvedeva solo il turbinio fosco della neve, ed un pensiero in testa gli ronzò, “non si sarebbero mai separati”.
– Ascoltate tutti, prorompè di scatto ad alta voce, riconosco che mi sono comportato male verso quel giovanotto, egli non avrebbe mai abbandonato il suo cane, ed ho ora mi dicono che non ha più una casa, temo per lui in questa gelida notte. – Aiutatemi a trovarlo.
– Molti si propesero, alcuni dissero: ma ora? Altri guardando fuori dicevano: ma da dove cominciamo?
– Il mugnaio sclamò: Patrasche! Seguiamo il suo cane, lui saprà trovarlo.
– Il ciabattino sbottò, io andrò a vedere se è sempre nella vecchia casa. E i più si prepararono ad uscire per andare a cercarlo.
Quando furono ben intabarrati fu aperta la porta e Patrasche si slanciò fuori, ma si fermò subito, annusò intorno, ma la molta neve caduta e le diverse impronte degli uomini lo disturbavano, ci mise un po’ per trovare le tracce di Nello, quindi le seguì per qualche decina di metri, poi le perse, il gruppetto con padron Kayez procedeva dietro di lui per non non confonderlo, Patrasche ritrovò le tracce con difficoltà, le seguì lentamente, e si diresse verso la strada che andava ad Anversa, ormai era chiaro a tutti che era andato in città, forse perché poteva ivi trovare qualche riparo.
La neve dal centro della strada veniva spazzata dal vento, ma formava a chiazze bianche sopra il ghiaccio formato nei giorni precedenti, sui bordi però si fermava ed era alta, Patrasche sentì forte l’odore delle orme di Nello e si mise a correre verso la città, Il mugnaio si rammaricò di non aver messo una corda a mo’ di guinzaglio al cane e il gruppetto a sua volta si mise a rincorrerlo frattonato dietro di lui, ben presto però pel buio lo persero di vista.
Nello, dopo aver lasciato la casa del mugnaio, imboccò la strada per Aversa, nel buio, fra le neve e il vento forte che entrava su per le maniche, per i pantaloni; fra il bavero e il collo una poltiglia semigelata gli scendeva lungo la schiena. Così quasi meccanicamente arrivò in città, che era per lo più vuota, dopo la messa infatti la gente, dato quel cattivo tempo, aveva pensato di ritornare celermente a casa al caldo e di sprangare porte e finestre; solo da poche di esse perveniva una luce rossastra, e qualche grida di festeggiamento smorzate, Nello guardando sempre dritto arrivò in piazza, al cui centro la Basilica s’imponeva anche alla neve.

Da una porta laterale della chiesa sentì un cigolio, il vento forte ogni tanto riusciva a forzare la piccola porta laterale, che qualcuno non aveva chiuso a chiave. Entrò, la chiesa era buia, dopo la messa avevano spento le candele, e dai grandi finestroni poteva entrare solo il buio, con fatica raggiunse un banco sul quale cercò di stendersi, il freddo abito gli si accostò gelido ancor di più, e poco dopo sfinito, vinto, perse la conoscenza, in quello stato cadde sul pavimento, nel tonfo si ravvenne, aprì gli occhi e in quel stesso momento la luna fece strada ai suoi raggi trapassando le vetrate rischiarando tutto l’interno della basilica, lì Nello vide i due grandi quadri di Rubens, scoperti, magnifici in quel chiarore innaturale, – Finalmente! Li vedo!

Si trascinò davanti di essi, e là, fra la vita e l’incoscienza, perse la cognizione. Non si sa quanto tempo passò, quando Patrasche lo trovò, passando sempre per quella porta semiaperta che aveva spinto col muso, esso si avvicinò guaendo a lui, sotto le tele del grande pittore ma sul freddo pavimento di marmo. Nello forse lo sentì, riuscì solo ad abbracciarlo, poi più niente.

Padron Layez e il gruppetto non riuscivano ad andare più in fretta, sulla strada si scivolava e sui lati si sprofondava, avevano perso di vista il cane, ma seguivano le sue impronte, esse conducevano verso il centro, seguendole arrivarono anche loro davanti alla cattedrale, entrarono per la stessa porta e alla luce di una lanterna trovarono i due avvinti davanti ai Rubens.
– Eccoli son qui! Disse uno! Poveretti disse un altro, ci fu un gran vociare, al che dalla Sagrestia qualcuno aprì la porta chiusa a chiave e avvicinandosi domandò loro che diavolo… santo stesse succedendo.
Il gruppetto si aprì dal lato sui proveniva il sagrestano facendo scoprire i due semicongelati e il mugnaio inginocchiato che parlava al giovane e cercava di raccogliere Nello, ma egli era avvinto strettamente a Patrasche.
Arrivarono anche alcuni terziari, e i due furono trascinati sopra un tappeto in canonica, dove finalmente Nello con fatica fu messo su una branda, ma al distacco dal cane emise un gemito che parve dire: Patrasche!, perciò il cane fu messo su un divanetto e accostato alla branda del suo padrone.
Si accese la grande stufa, che fece al momento più fumo che fiamme, arrivò la perpetua con coperte, e si preparò un brodo caldo…

Come finì… ?
In alto fra i pertugi delle nubi aperti, due anime che avevano la forma di un vecchio e di sua figlia, la madre di Nello sorridevano…

Se un giorno in un caldo asfissiante come viandante fosti passato per un piccolo villaggio ad una lega da Anversa, e avresti chiesto presso un molino il favore di un po’ di acqua, saresti stato ricevuto da un vecchio mugnaio o da suo genero, i quali ti avrebbero dato buon ristoro.
La signora di casa e sua figlia Lisetta, ti avrebbero invitato in casa per una zuppa, e a compimento altri cibi nella grande sala prospiciente la cucina, e se avresti loro chiesto loro chi avesse dipinto quei bei quadri che vedevi tappezzare tutte le pareti della stanza, Lisetta con orgoglio ti avrebbe risposto… – ma, mio marito Nello, – non son belli vero?

Ma uno fra tutti ti avrebbe tratto lo sguardo, un dipinto di un cane con il pelo giallo, e di un giovane scalzo che correvano lieti fra l’erba dei prati.

A.D. 2023 Dicembre


La Cattedrale di Anversa