UBIK Philip K. Dick

Capita ormai non di rado che romanzi di successo (e, talvolta, videogiochi..) vengano adattati o per il grande schermo o per la televisione. Non di rado possiamo anche trovare, in forma di romanzo, la trasposizione del film di successo ma, in questo caso, non si può non notare una certa piattezza delle descrizioni.

D’altra parte quella particolare storia nasce con il “supporto visivo” mentre lo scrittore ha la necessità di rendere il lettore partecipe di quanto “vede” solo con le parole. Questa caratteristica sembra proprio non facesse difetto a Philip K. Dick, noto al pubblico per essere l’autore del romanzo “Do Androids Dream of Electric Sheep?”, base del fortunato film “Blade Runner”. Paradossalmente Blade Runner non è considerato l’opera più importante di PKD, essendo quest’ultimo in secondo piano rispetto ad un racconto del 1969, “Ubik”.

Nel 1974 lo stesso PKD trasforma il suo romanzo in una sceneggiatura, descrivendo dettagliatamente personaggi e scene, musiche di sottofondo, effetti da applicare. Con una precisione ed una meticolosità superiori a quelle che usualmente vengono impiegate per un copione e questo continua ancora a stupire quanti si accingono a commentare quest’opera.

La storia, ambientata nel 1992, tratta la vicenda di un gruppo di telepati, dipendenti della Runciter Associate, inviati sulla luna per proteggere un insediamento industriale da una fazione avversaria, i cui uomini sono precog (cioè in grado di presagire il futuro) e telepati, allo scopo di evitare lo spionaggio industriale. Si tratta di una trappola e nella esplosione di un androide-bomba muore il loro capo, Glen Runciter.

Da questo punto in poi il gruppo di persone, tornato sulla terra, dovrà scontrarsi con un progressivo cambiamento del proprio mondo che, lentamente, torna indietro nel tempo, all’America degli anni 30′.

Non è mia intenzione rivelarvi il finale di questo romanzo ma, piuttosto, affrontare alcuni temi che questa sceneggiatura, al di là della ambientazione di fantascienza, pone.

Nel 1992 di PKD esistono delle strutture particolari, chiamate Moratori, ove le persone più ricche portano i propri morti che, grazie ad apparecchiature particolari, continuano a comunicare con i vivi, consigliandoli nei momenti di difficoltà, per un tempo di circa due anni. Questi semi-vivi vivono una “vita” propria, infatti quando sono assieme riescono a comunicare fra loro, e parte della sceneggiatura ci permette di scoprire questo mondo singolare. Un mondo non privo di problemi poiché quasi in ogni moratorio finiscono anche semi-vivi in grado di prolungare la loro semi-vita assorbendo energia vitale dai loro vicini.

In questo il romanzo non fa che mostrare l’incapacità umana nell’affrontare il suo destino e quello dei suoi cari, al punto che nel momento in cui si immagina di raggiungere la capacità tecnica per conseguire un risultato, tale risultato deve essere concretizzato. Non è mai stato scopo della fantascienza porre delle questioni morali (pensiamo, ad esempio, quale problema porrebbe un mezzo come il teletrasporto alla Star Trek rispetto a temi tipo l’esistenza dell’anima ed il suo legame al corpo) però rimane ancora un mezzo efficace per rappresentare le tensioni sociali del momento in cui nasce su carta.

Con una visione singolare PKD interrompe la sua sceneggiatura con delle pubblicità di un prodotto dalle caratteristiche eccezionali, Ubik, ora prestito bancario, ora spray, ora reggiseno modellante, ora unguento. Ubik (che per noi di lingua italiana diviene facilmente “ubiquo”) è ovunque ed è la presenza positiva del romanzo. È in grado di dare ai semi-vivi modo di salvare il vice di Runciter, Joe Chip, vero protagonista della storia; è in grado di rallentare la corsa di Jory, semi-vivo vampiro che riuscirà, man mano, ad eliminare gran parte del gruppo.

Ubik, rappresentazione di Dio in questo universo, non interviene mai direttamente nel corso della vicenda, sono i protagonisti che dovranno scegliere di servirsi di Ubik per proseguire; così come risalta in maniera evidente la concezione vita-morte-vita di PKD per cui i semi-vivi sono in realtà trattenuti qui dai vivi e quando la loro semi-vita termina, in realtà essi si approssi-mano a luci di vario colore che rappresentano la loro rinascita al mondo a noi noto (e la tematica di Dio si ritrova anche nel romanzo “Eye in the Sky” in cui, in un mondo parallelo, le macchine sono in realtà prive di qualunque meccanismo perché basta recitare una preghiera per farle funzionare).

La comunicazione tra i vivi ed i morti, da secoli oggetto di sedute spiritiche, diviene un continuo scambio di informazioni nelle maniere più insolite, dal versare i biscotti a forma di lettera nel latte ed attendere che formino una frase all’immagine del capo defunto Glen Runciter sulle monete da cinquanta centesimi.

Trovo perlomeno strano, anche se qui mi rendo conto di dare una mia personale lettura al testo, che questo dio-Ubik (uso la minuscola di proposito per quanto esporrò fra poco) abbia come sue incarnazioni, peraltro tutte positive, oggetti comuni di vita ma comunque legati ad un aspetto esteriore della stessa (Ubik che conserva gli alimenti freschi come appena preparati; Ubik che dà una sensazione speciale usato come dopobarba; Ubik reggiseno che aumenta le rotondità). Sembra che il dio-Ubik sia il dio dell’apparenza, del possesso. Non è un vero Dio (nel senso comune delle religioni). Nonostante questo, visto che siamo soliti dare una accezione negativa a quanto chiamiamo “dio” (mammona), Ubik è positivo, almeno per quanto ci appare (!) fino all’ultimo capitolo.

Nonostante le azioni dei protagonisti della storia siano arbitrarie, la sensazione che il tutto si riduca (o riconduca) alla immensa rappresentazione di attori su un palcoscenico, invariabile nel tempo, è data dalla illuminante conclusione (diversa dal romanzo) della sceneggiatura che cita l’inizio dell’ultimo capitolo: “Io sono Ubik. Prima che l’universo fosse, Io sono. Ho creato i soli. Ho creato i mondi. Ho creato le forme di vita e i luoghi in cui esse vivono. Io le muovo nel modo che più mi aggrada. Vanno dove dico Io, fanno ciò che Io comando. Io sono il verbo e il mio nome non è mai pronunciato, il nome che nessuno conosce. Io sono chiamato Ubik, ma questo non è il mio nome. Io sono. Io sarò in eterno.”
Dissolvenza.

“Ubik” è pubblicato in Italia da Fanucci Editore, 1998, con introduzione a firma di Sergio Cofferati.

Le immagini usate sono tratte dal sito www.philipkdick.com e dall’omonimo gioco prodotto da Interplay nel 1997.

Fabio Spinozzi


Articolo precedentemente uscito su L’Avocetta e qui pubblicato di nuovo per gentile concessione.