L’OZIO

Si dice che l’ozio sia dono degli dei: e in verità nella serena ed olimpica quiete degli oziosi di pura razza v’è qualcosa che dà loro una certa somiglianza con gli dei.

Si assicura che il lavoro santifica l’uomo: d’onde senza dubbio l’adagio popolare: «Iddio pregando e col martel picchiando». Tuttavia, su codesto argomento, io la penso un po’ diversamente. Credo anche io che si possa recitare una giaculatoria, mentre si affaticano i polmoni picchiando sovra un’incudine; ma credo pure che la vera orazione, l’orazione senza parole che, mediante l’idea mistica, ci mette in comunione con il Signore, non possa esistere se non basata sull’ozio.

L’ozio adunque, non solo nobilita l’uomo, perchè gli dà una certa rassomiglianza con i privilegiati signori che godono della immortalità, ma ancora, malgrado tante ostili declamazioni, è certamente una delle migliori vie per andare in cielo.

L’ozio è una divinità cui rendono culto infiniti adoratori; ma la sua religione è una religione silenziosa e pratica: i suoi sacerdoti la predicano con l’esempio; la natura stessa ne’ suoi giorni di sole e di soave temperie contribuisce a propagarla e a diffonderla con una persuasione irresistibile. È risaputo che la beatitudine dei giusti è una immensa felicità, che noi non possiamo nè intendere nè definire in modo soddisfacente. La intelligenza umana, affievolita dal contatto con la materia, non concepisce tutto che sia puramente spirituale; e però ognuno imagina il cielo, non quale esso è, ma quale egli vorrebbe che fosse. Io lo penso con la quiete assoluta, quale primo fattore di gaudio intorno il vuoto, l’anima priva di due delle sue tre facoltà, la volontà e la memoria, e l’intelletto, ossia lo spirito, ripiegato su di sè, godente nella contemplazione e nella coscienza di sè stesso. Per questa ragione dissento dal poeta che ha detto:

Heureux les morts, éternels paresseux!

Quest’ozio eterno del cadavere, comodamente steso sopra la terra molle e smossa della sepoltura, non mi dispiace del tutto; sarebbe a volte il mio bello ideale, se, morto, potessi aver coscienza del mio riposo. Avverrà forse che l’anima, disciolta dalla materia, venga a sedere sovra la tomba, godendo della tranquillità del corpo che l’alloggiò nel mondo!

Se così fosse, indubbiamente diverrei partigiano del tanto ripetuto e manipolato «riposo della tomba», tema favorito dei poeti elegiaci e piagnoni, e aspirazione costante delle anime superiori e incomprese. Ma… la morte !

«Chi sa che cosa avviene dopo la morte?» domanda Amleto nel suo famoso monologo; e nessuno gli ha risposto finora. Torniamo dunque all’ozio della vita che è cosa più positiva.

La miglior prova che l’ozio sia un’aspirazione istintiva dell’uomo ed uno de’ suoi beni maggiori sta in ciò, che in questo mondo birbone, così com’è organizzato, esso non può mai praticarsi, o almeno la sua pratica è tanto pericolosa da offrir sempre, quale prospettiva, lo spedale. E che il mondo, quale oggi lo conosciamo, sia l’antitesi completa del paradiso de’ nostri primi padri, è cosa tanto evidente che non abbisogna di essere addimostrata. Eppure il cielo, la luce, l’aria, i boschi, i fiumi, i fiori, le montagne, il creato, tutto infine ci dice che l’ozio è una realtà. Qual’è dunque la causa di tanto cambiamento! L’uomo ha mangiato il frutto proibito; ha desiderato la scienza; ed ora non aspira più all’ozio.

Lavora, muoviti, agitati per mangiare! Ciò mi è tanto orribile quanto il dirmi: affaticati a questa pompa, suda, affannati per raccogliere l’aria che devi respirare!

Quante volte, pensando al bene perduto per la colpa de’ nostri primi padri, ho detto in fondo dell’anima mia, parodiando il celebre discorso di Don Chisciotte sulla età dell’oro: età felice e tempi felici, quelli in cui l’uomo non conosceva il tempo, perchè non conosceva la morte, e immobile e tranquillo godeva la voluttà dell’ozio nella pienezza delle sue facoltà! Cademmo dal trono dove Dio ci aveva posti; ora non siamo più i signori del creato, ma di una parte di esso, una ruota della grande macchina, più o meno importante, ma sempre una ruota, condannata pertanto a girare e a incastrarsi nelle altre, gemendo e stridendo, e invano reluttante al nostro inesorabile destino.
Talvolta l’ozio, questa celeste divinità, prima amica dell’uomo felice, passa al nostro lato e ne avvolge nella soave atmosfera di languore che lo circonda o si siede presso a noi e ci parla nell’idioma divino della trasmissione delle idee mediante il fluido, nel quale non v’è neppur bisogno di prendersi la briga di muovere le labbra per articolare parole.
Io l’ho veduto molte volte librarsi sopra di me e strapparmi dal mondo dell’azione, in cui mi trovo tanto male. Ma brevissimo è il suo passaggio sulla terra: il profumo della beatitudine ci attrae per farne sentir meglio la sua assenza. Quanto casto, quanto misterioso, quanto pieno di dolce pudore è mai l’ozio dell’uomo !

Ecco l’attività che corre per il mondo, come una menade scapigliata e dà forma materiale e volgare alle sue idee e a suoi sogni; ecco il pubblico mercato che li quota e li vende a prezzo d’oro. Sante illusioni, sensi purissimi, pazze fantasie, idee strane, tutti i misteri figli dello spirito sono, appena nati, nudi, tremanti e vergognosi agli occhi della moltitudine ignorante.

Io amerei pensare per me e godere con le mie gioie e piangere co’ miei dolori, addormito in braccio all’ozio, e non esser costretto a divertire alcuno colla esposizione de’ miei pensieri e de’ miei sentimenti più segreti e reconditi.

Un attimo tra un’eternità di riposo passato e un’altra eternità futura; tale è la vita: a che dunque agitarci con l’illusione di fare qualche cosa agitandoci?

Ho veduto con il microscopio una goccia d’acqua, e in essa quegli esseri appena percettibili, la esistenza dei quali è così breve che in un’ora ne vivon cinque o sei generazioni, e ho detto vedendoli muoversi: chi mai crederà che questi esseri facciano qualche cosa? Perchè noi ci affannassimo in questo mondo sarebbe mestieri possedere una calotta che ci precludesse il cielo, così che la comparazione con la sua immensità non facesse tanto sensibile la nostra piccolezza. Io amo esser conseguente con il mio passato e con il mio futuro probabile e attraversare questo ponte della vita, poggiante sopra due eternità, più tranquillamente che mi sia possibile. Io amo… ma sono tante le cose che io amo, che con la semplice enumerazione delle stesse potrei fare un articolo cosi lungo da non terminar che domattina; e tale non è certo il mio intento.

Ancora mi ricordo che, in un occasione, seduto sopra una vetta d’onde si schiudeva a’ miei occhi un immenso e pacifico panorama, pieno l’anima d’una voluttà tranquilla e soave, immobile come i picchi che s’ergevano intorno a me, e dei quali io credevo essere uno, uno che pensava e sentiva, come credo che sentono e pensino tutte le cose della terra, compresi così bene il piacere della quiete e della perpetua immobilità, di quell’ozio perfetto che noi oziosi sognammo, che determinai di dedicare un’ ode allo stesso e di cantare i suoi piaceri, misconosciuti dalla inquieta moltitudine.

M’ero già deciso, quando in sul punto di muovermi pensai, e dirittamente, che il miglior inno all’ozio è stato mai scritto e che non verrà scritto mai. L’uomo che tentasse di farlo si metterebbe in contraddizione con le proprie idee. Ed io non lo scrissi. In questo momento mi ricordo di ciò che pensai quel giorno: pensavo di stendere un elogio dell’ozio per far proseliti per la sua religione.

Ma come convincere con la parola, se lo confuta l’esempio? Come esaltare l’ozio faticando? Impossibile.

La miglior prova della mia fermezza nelle credenze che professo sta nel far punto qui e mettermi a letto. Peccato che non iscriva queste righe già in letto, seduto! Non avrei che reclinare la testa, aprire la mano e lasciar cadere la penna!

GUSTAVO A. BECQUER

(Trad. LUCIO DE CASTIGLIONE)

Da: Vita moderna giornale d’arte e letteratura
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