Lidia Poët Le donne avvocate


Le nostre lettrici conoscono le vicende della giovane avvocatessa Lidia Poët. Il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Torino l’aveva ammessa. Il Pubblico Ministero si oppose e la Corte d’Appello gli diede ragione!
— Ecco la sentenza, ogni commento alla quale ci pare superfluo:

« La Corte d’Appello di Torino, riunita in Camera di consiglio, ha emesso la seguente deliberazione:
« Sulla opposizione fatta dal Procuratore generale del Re presso la Corte medesima alla deliberazione del Consiglio dell’Ordine degli avvocati in data 9 agosto 1883, con la quale venne ammessa la inscrizione nell’Albo degli avvocati del Collegio di Torino della signorina Lidia Poët laureata in legge;
« L’esercizio dell’avvocheria non paragonare a quello di un’altra professione qualunque a cui diano diritto un corso di studi lodevolmente compiuti o un diploma ottenuto, esigendosi per quello il concorso di molte altre condizioni e discendendone doveri e diritti regolati pur dalla legge, in grazia dei quali, piuttosto che una professione, l’avvocatura potrebbe qualificarsi un ufficio pubblico e necessario, siccome lo qualificava l’imperatore Anastasio nel proemio della L. 4 Cod. de Advocatis diversorum Judicum, Laudabile vitæque hominum necessarium;
« Che infatti, mentre è in libertà di qualsiasi cittadino di ricorrere o non ricorrere all’opera degli esercenti qualunque altra professione, è obbligatorio e necessario per essi di ricorrere in certe contigenze all’opera degli avvocati, e mentre tutti gli altri professionisti sono liberi di prestare l’opera o non prestare l’opera della quale sono richiesti, non è lecito agli avvocati di ricusarla, segnatamente a certuni in pro’ dei quali il magistrato può imporre che da essi venga prestata;
« Il Pretore diceva: Si non habebunt advocatum ego dabo (Libro I, cap. 4, De postulando), e questo principio, proclamato dalla romana sapienza, è stato rispettato costantemente da tutte le posteriori legislazioni e si mantiene in piena osservanza per la legislazione che ci governa;
« Che questa nostra legislazione ha pure accettato e seguito gl’insegnamenti delle leggi romane in ordine alle distinzioni, ai favori, ai privilegi con cui l’esercizio dell’avvocatura meritava di essere rimunerato: Laudabile vitæque hominum necessarium advocationis officium maxime principalibus proemiis oportet remunerari (Libro 4, Cod. de advocat), ed ha voluto costituiti gli avvocati in Collegi aventi una legale rappresentanza, ha fatto oggetto di speciali disposizioni e compensi a loro spettanti, ha concesso loro disposizioni eccezionali e straordinari provvedimenti per conseguire il pagamento, ha loro attribuito titolo per ascendere alla magistratura dopo un esercizio di pochi anni;
« Considerato che, essendo l’avvocheria un ufficio o almeno una specie d’ufficio pubblico o civile, per ammettervi le donne non basta dire che nella nostra attuale legislazione non si trova disposizione alcuna che ne pronunzi la esclusione; ma converrebbe recare innanzi una disposizione di legge, la quale dichiarasse capaci le donne di tutti in genere gli uffici pubblici o civili. Imperocchè, fintanto che si dice che il nostro Codice civile ha sottratto le donne a quella specie di diminuzione di capo a cui erano sottoposte in passato e le ammesse al godimento di quasi tutti i diritti civili ugualmente che gli uomini, e fintanto che si richiamano leggi la quali, provvedendo sopra materie speciali, hanno espressamente abilitato la donna a certi uffici determinati, lungi dal giovare si pregiudica alla causa che si difende, e si ammette implicitamente che vi sono diritti ed uffici a cui non potrebbero partecipare le donne senza il concorso di quelle speciali facoltà che non erano conseguenza importate dalla liberalità usala loro nel Codice civile ad esse impartite;
« Che non solamente nelle nostre leggi non trovasi alcuna disposizione, la quale in modo espresso ed esplicito acconsenta alla donna l’esercizio della avvocheria; ma ponderando attentamente la lettera e lo spirito di tutte quelle che possono avere rapporto con la questione in esame, ne risulta evidente essere stato sempre nel concetto del legislatore che l’avvocheria fosse un ufficio esercibile soltanto dai maschi e nel quale non dovevano punto immischiarsi le femmine;
« Al quale proposito basta ricordare gli articoli 39 N. 2, 50 N. 3, 72 e 128 della legge sull’ordinamento giudiziario, in cui è detto che possono essere nominati pretori e giudici e consiglieri di appello e di cassazione coloro che abbiano esercitato per certi periodi di tempo l’avvocatura, per vedere se il legislatore può mai avere inteso che ad esercitarla venissero ammesse anche le donne;
« Considerato che tanto più necessaria sarebbe una espressa abilitazione della donna a quell’esercizio in quanto che non solo si tratterebbe di cosa tutt’affatto straordinaria e fuori delle pratiche e delle costumanze della nostra vita civile, ma di cosa espressamente vietata dal diritto comune, come si ha dalla L. 2 Digest. De Regolis juris: Faemine ab omnibus officis civilibus et publicis remota sunt et ideo nec judices esse possunt, nec magistratum gerere, nec postulare, nec pro alio intervenire, ecc., ecc.;
« E giù altro latino d’Ulpiano, il quale dice che ratio quidem prohibendi ne contra pudicitiam sexui congruentem alienis causis se immisceant, ne virilibus officis fungantur mulieres;
« Che non trovandosi nelle moderne leggi veruna disposizione, la quale abbia abrogato in questa parte le norme tracciate dal diritto comune, e trattandosi di caso non contemplato dalla legislazione attuale la quale perciò non vi ha provveduto in veruna guisa, sarebbero sempre ad applicare le regole e i principii del diritto comune, secondo che si vede prescritto da tutti i Codici moderni e si prescrive pur anche dal nostro Codice italiano nell’art. 3;
« Che d’altronde la ragione per cui il pretore interdiva alle donne la facoltà di postulare come cosa contraria alla riservatezza ed alla pudicizia conveniente al sesso, vale oggi ugualmente ciò che allora valeva, imperocchè oggi del pari sarebbe disdicevole e brutto veder le donne discendere nella forense palestra, agitarsi in mezzo allo strepito dei pubblici giudizi, accalorarsi in discussioni che facilmente trasmodano e nelle quali, anche loro malgrado, potrebbero essere tratte oltre i limiti che al sesso più gentile si conviene di osservare, costrette talvolta a trattare ex-professo argomenti dei quali le buone regole della vita civile interdicono agli stessi uomini di far motto alla presenza di donne oneste;
« Considerato che, dopo il sin qui detto non occorre nemmeno di accennare il rischio a cui andrebbe incontro la serietà dei giudizi, se, per non dire di altro, si vedessero talvolta la toga ed il tocco dell’avvocato sovrapposti ad abbigliamenti strani e bizzarri che non di rado la moda impone alle donne e ad acconciature non meno bizzarre, come non occorre neppure far cenno del pericolo gravissimo a cui rimarrebbe esposta la magistratura di essere fatta più che mai segno agli strali del sospetto e della calunnia ogni qualvolta la bilancia della giustizia piegasse in favore della parte per quale ha perorato un’avvocatessa leggiadra;
« Considerato che, se non vi è disposizione di legge la quale abbia attribuito alle donne la facoltà di esercitare l’avvocatura, se non ve n’è alcuna la quale abbia loro concesso di poter esercitare tutti in genere i diritti e gli uffici pubblici e civili, se per le antiche leggi, pel diritto comune a cui le sopravvenute in questo non hanno derogato, le donne erano escluse dall’esercizio dell’avvocheria, basta questo a risolvere la presente questione nel senso propugnato dal P. M., e non abbisogna di più;
« Non è questo nè il momento, nè di impegnarsi in discussioni accademiche e di esaminare se e quanto il progresso dei tempi possa reclamare che la donna sia in tutto uguagliata all’uomo, sicché a lei si dischiuda l’adito a tutte le carriere, a tutti gli uffici che finora sono stati proprii soltanto dell’uomo. Di ciò potranno occuparsi i legislatori, di ciò potranno occuparsi le donne, le quali avranno pure a riflettere se sarebbe veramente un progresso e una conquista per loro quella di poter mettersi in concorrenza con gli uomini, di andarsene confuse fra essi, di divenirne le uguali anzichè le compagne, siccome la Provvidenza le ha destinate;
« Qui importava soltanto di vedere se sotto l’impero delle leggi in vigore fra noi potesse essere ammessa ad esercitare l’avvocatura, e per le ragioni svolte di sopra era imprescindibile di concludere che non lo potrebbe;

« Per questi motivi:
« Dichiara non essere luogo alla inscrizione della signorina Lidia Poët nell’Albo degli avvocati.

« Torino, il 14 novembre 1883 ».

Articolo tratto da: Giornale delle donne
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