L’Abbazia di Pomposa

Se Comacchio non ha in sè nessun antico monumento, esistono però nei suoi dintorni l’Abbazia e il Tempio di Pomposa, che ha meritato di essere dichiarato monumento nazionale. – Pomposa, se per sito appartiene al Comune di Codigoro, per le sue attinenze appartiene alla storia di Comacchio.

San Benedetto da Norcia aveva appena istituito la sua regola, che alcuni de’ suoi seguaci, cercando l’eremo, si vennero a porre (nel settimo secolo) in un’isola di sabbia e argilla ad ostro del Po di Volano, poco lungi dall’Adriatico, nell’isola Pomposa. Vi trovarono una povera chiesa, che gli scrittori dissero: Sancta Maria de Comaclo in insula dicta vulgo Pomposia.

La santità, che vi fiorì, attrasse nel decimo secolo Ottone d’Alemagna e Adelaide sua consorte che gli aveva recato in dote la corona dell’Italia; , e più tardi vi attrasse pure la famosa Contessa Matilde. Questi potenti, che si erano arrogato il diritto su Comacchio, disposero in un col papa del territorio di questa città, e donarono al Cenobio terreni, valli e saline, e perfino Lago Santo, le quali essi coltivarono con tanto merito ed amore, che quando i Comacchiesi si furono nel secolo dodicesimo sottomessi agli arcivescovi ravennati, ebbero da lui la corte o terra d’Ostellato e Montarione con tutti i fondi loro e pertinenze, non che in appresso Codigoro e di Mezzogoro.

Così i loro possedimenti essendosi estesi fino al po di Goro e venendo a costituire un vero stato, arricchirono e resero potente questo monastero, il quale era fatto sì grande e il primo dell’Italia come lo disse Guido d’Arezzo al monaco Michele, fin da quando per l’incendio che nell’undicesimo secolo sofferse Monte Cassino, alle arti per la coltura dei campi si aggiunsero pur quelle lettere, delle scienze e della religione (Bottoni). Il vasto territorio nell’undecimo secolo già verdeggiava per tutto di boschi, di vigne, e perfino di oliveti (sud) e l’Abbazia contava più di cento sacerdoti. Allora si pensò alla munificenza, e nello stesso secolo undicesimo per opera dell’abate San Guido venne data mano alla erezione di quel tempio che sussiste ancora.

Esso misura metri 35,13 in lunghezza, metri 19, 96 in larghezza, e metri 12, 11 in altezza. È sopra tre navate, ed ha nove archi in ogni fianco, sostenuti da colonne di marmo a capitello, di forme diverse lombarde. Fu dedicato addì 7 maggio 1106. Le pareti esterne della navata di mezzo, il coro e la volta dell’altar maggiore sono rivestite di affreschi presentanti Alcuni fatti di Cristo, i simboli dell’Apocalisse, il Giudizio finale, la Gloria dei santi e l’Inferno, e sopratutto gli antichi fatti biblici.

< Il queste pitture, riferisco le parole del bottoni, domina tutta quella varietà nel dettaglio e quella unità nell’insieme, quel satirico grottesco e perfin visibile nei particolari con la sublimità e la inspirazione nell’intero, quella vaghezza negli ornati e quella costanza nel concetto fondamentale dell’opera che era il pensiero sia della filosofia che dell’arte di quei tempi >.

Il pavimento è fatto a mosaico, in sette scompartimenti, a disegni diversi, e pur leggiadri. In mezzo al primo domina una stella ad otto raggi, negli otto angoli dei quali girano le otto lettere che formano il nome di Pomposia, una per ogni angolo. La dicono lo stemma dell’Abbazia.

La facciata del Tempio ha un atrio, fatto di piccoli mattoni bianchicci, o piuttosto giallognoli, con cordoni paralleli e con aquile e strani animali di marmo incastrati su di essa. Il campanile, che si vuole innalzato due secoli dopo, e che si eleva più che cinquanta metri, di forma semplicissima, come è l’atrio della Chiesa, è rozzo più che altro e degli stessi mattoni dell’atrio, di cui tiene lo stile.

Della stanza della numerosissima famiglia monacale non resta che ben poca cosa. Annesso alla chiesa è un robusto fabbricato che ha in parte porte e finestre di buon disegno ad arco acuto, il quale sembra girasse formando un altro lato a fianco della corte.
In questo fabbricato è una sala terrena alquanto spaziosa con le pareti dipinte a santi di figura intera e la Crocifissione.
Nell’altro lato, in quello che è supposto, vedesi una stanza di poca ampiezza con affreschi pur essa in tre de’ suoi muri. Il quarto muro, dove sono le finestre pare moderno, cosicchè v’ha ragione d’arguire che la stanza fosse assai più larga. Le pitture della sala, in cui pare che tenessero
capitolo, sono assai più rudi che quelle della stanza, la quale viene detta il Refettorio.

In questa stanza gli affreschi, benchè sembrino dello stesso tempo e della stessa scuola che quelli della chiesa, sono però più accurati. In uno dei maggiori lati della stanza, quello che è rimpetto alle finestre, sono dipinti tre quadri, la Cena degli Apostoli,

il Miracolo di San Guido, e in mezzo a essi Cristo e la Madonna con due santi abati allato in pastorale. Nell’uno dei lati minori l’Orazione di Cristo nell’Orto, nell’altro alcuni Lettori e Cantori. Furono fatte molte ricerche e studi per sapere la mano che dipinse specialmente la chiesa e il refetorio, ma piuttosto invano. Se però gli è certo che i dipinti del capitolo sono anteriori a Giotto, quelli della chiesa e del refettorio hanno un tal carattere da far credere che siano o di Giotto o di sua scuola. Vero è che il volto dei santi e degli angeli ha quell’aria pura, celestiale che rifulge nelle vere figure di Giotto e del Beato Angelico, ma il panneggiamento ed anche alcune mosse dei piedi e la innocente freschezza dei volti, massimamente della Cena, è tal da far inclinare la mente a ritenerlo, tanto più che si sa che Giotto fu a Pomposa a lavorarvi.
Con tutto ciò non vogliasi stimare che le opere e pitture suaccennate sieno intatte e non abbiano sofferto dai tempi e dalla mala cura ed ignoranza.
Il mosaico della chiesa è guasto e manchevole in non piccola parte e le pitture sono guaste dal guasto delle pareti.

L’Abbazia nel quattordicesimo secolo fu all’apice del suo potere ed opulenza. Da Lagosanto al di qua del Po di Volano si estendeva fino al Po di Goro, dal mare sino ad Ostellato e Mezzogoro. Nel governo de’ suoi popoli ebbe mestieri di un tribunale di giustizia, e nel 1396 inaugurò il Pretorio che tuttora esiste dove era il tribunale, l’abitazione del pretore e le prigioni. Nè le indicate fabbriche furono le sole che furono a Pomposa. Per tutto lo spazio vastissimo che ora nudo giace intorno a quella chiesa, non si può affondar badile senza dare in muri e pavimenti. Infatti oltre la grande estensione che doveva avere il convento per la abitazione dei cento e cento monaci, quante case non vi doveano essere pei coloni, per le stalle, pei granai, pei magazzini?

Non solo da Ottone ed Adelaide e da Matilde e da Benedetto VIII e da Clemente VIII venne Pomposa visitata, ma altresì da Barbarossa e da Dante. Nel suo monastero si ricovrò il dotto ravennate San Pier Damiano, ove contemporaneamente il beato Guido’ d’Arezzo fissò l’intonazione e la scrittura della musica, appianandone con ciò l’insegnamento e semplificando con poche linee e segni il metodo di quelle centinaia di note che erano usate nel complicatissimo metodo tramandato dai Greci. Ed è nell’insegnamento ch’egli si servi dei versi della prima strofa dell’inno a San Giovanni:

Ut queant laxis Resonare fibris Mira gestorum Famuli tuorum Solve polutig Labii reatum.

La grandezza di questo insigne monastero decadde nel decimosettimo secolo, e leggiamo che nel secolo successivo Pomposa venne dai monaci affatto abbandonata, lasciandola deserta nella solitudine.

Molti dipinti, che ancora si veggono, fanno conoscere a qual punto fosse l’arte della pittura in quel secolo e in quella regione d’Italia. Alcuni dipinti sono anteriori a Giotto, altri sembrano di Giotto o della sua scuola. L’Abbazia nel quattordicesimo secolo fu all’apice del suo potere ed opulenza. Da Lago Santo, al di qua del Po di Volano, si estendeva fino al Po di Goro, dal mare fino ad Ostellato e Mezzagoro. Nell’anno 1390 l’Abbazia inaugurò il pretorio, che tuttora esiste, dove era il tribunale, l’abitazione del pretore e le prigioni. Intorno all’Abbazia rimangono traccie di molte abitazioni, che probabilmente servivano pei coloni, per le stalle, pei granai, pei magazzeni.

L’Abbazia di Pomposa fu visitata da Barbarossa e da Dante. Nel suo Monastero si ricoverò il dotto ravennate San Pier Damiano, ove contemporaneamente il Beato Guido d’Arezzo fissò l’intonazione e la scrittura della musica, servendosi dei versi della prima strofa dell’inno a San Giovanni Batt.: Ut queant laxis Resonare fibris Mira gestorum Famuli tuorum SoLve pollutis Labiareatus.

La grandezza di questo Monastero decadde nel decimosettimo secolo, e leggiamo che nel secolo successivo Pomposa venne affatto abbandonata dai monaci, lasciandola deserta nella solitudine.

Tratto da: Emilia da “Le Cento città d’Italia”. – 1889

Interno dell’Abbazia
da: Ateneo religioso scientifico letterario artistico

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