La Sacra di San Michele

Luigi Cicconi – 1848

Nelle Alpi occidentali si apre un varco il quale si nominò dalle Chiuse, che i Longobardi munirono di mura, torri e bastie, onde venne sbarrato lo sbocco della valle.
A lato di questo varco, sull’alta vetta del monte Pirchiriano, siede un antico monumento che ricorda dalla sua prima fondazione le memorie di circa mille anni. È questo il monastero di San Michele, che dicesi della Chiusa, dal nome di prossimo villaggio.
Dal picciol borgo di Sant’Ambrogio, collocato alle falde del monte si sale alla badia per un erto e malagevole sentiero, che serpeggia con molti seni per la scabra pendice, donde si scorgono gli aspetti pittoreschi di monti, valli e dirupi. Si vanno per quella via alternando seggi erbosi, rocce ignude, precipizii, boschetti di pini e di castagni, rozzi casolari, ove i montanari vivono con pastorali costumi, ed hanno un particolar carattere che tiene del luogo alpestre.
La badia è situata sul ciglione esterno del monte presso di uno dirupo alto circa quattrocentocinquanta tese, secondo il Saussure, dal livello del mare.
Ivi si apre all’occhio dello spettatore la magnifica scena delle fertili pianure di Lombardia con interminabile orizzonte; si vede l’immenso anfiteatro delle Alpi, che innalzano verso l’azzurro firmamento le cime nevose; i laghi di Avigliana, che nelle fresche e limpide acque riflettono le selvose pendici che ne chiudono intorno le sponde; il castello di Avigliana rovinato nelle guerre dei Guelfi e Ghibellini e ricostruito dai duchi di Savoia.
Lo spettatore sospeso in quell’alta vetta, mentre contempla innanzi a sé le bellezze della natura e le memorie della storia, è pieno dell’Italia ripensando alle armi straniere che ridussero fra quelle forre e ai torrenti d’armati che irruppero da quelle chiuse, onde la fortuna della nostra patria cangiò tante volte d’aspetto.
Ma non è pur vero che Roma valicando le Alpi distrusse nazioni, impose loro un nuovo impero, e trasportò dietro i carri trionfali i vinti incatenati?
E risalendo ad epoca più antica, non vennero per le Alpi i primi assalti al nascente impero portati dai Galli e da’ Cartaginesi?
Molti e gravi memorie storiche tornerebbero in mente se si abbandonasse il freno alla fantasia, ma noi ci limitiamo al monte. Contemplando l’aspetto delle montagne vi trovate presso ai pochi avanzi di un picciolo edifizio, che dalle rovine si deduce essere stato di forma rotonda, creduto per l’esame di alcune nicchie e finestre, con vario parere, moresco, gotico, romano.
Si vuole che abbia servito di Chiesa ai monaci della vicina abbazia di San Michele, e poscia convertito in uso di sepolcro. I primi cenobiti che abitavano il monte fin dall’anno 872 a menar solitaria vita innalzarono forse le preghiere in quel tempietto, ove probabilmente era dianzi invocato a Giove o il Dio di Maometto. Era quell’oratorio già dedicato a San Michele, e la cronaca Clusina racconta, che quando circa il mille, Amizone vescovo di Torino si portò solennemente a consacrarlo, pernottando in Avigliana, vide in sogno su quella chiesuola una luce così viva che pareva ardere tutto il monte.
Svegliato da quelli che videro coi loro sensi il prodigio, salì il monte e mirò l’oratorio coronato di fuoco, e di numerose schiere di angeli, e pose il piede dentro ove splendeano lumi accesi, le muraglie erano segnate di croci unte d’olio, il pavimento asperso di cenere, e l’altare fabbricato dagli angeli grondante olio e balsamo di celeste fragranza.
Secondo questa pia leggenda la consacrazione fu fatta miracolosamente, e perciò la badia di San Michele chiamansi ancor volgarmente la Sacra, e il monte col nome di Pirchiriano, che vale monte di fuoco.
Ugone di Montboissier è il fondatore della badia. Era questi un nobile, ricco e potente gentiluomo, degli antenati di quel venerabile Pietro abate di Cluny che fu cantato da Torquato nel suo poema. In compagnia della sua moglie Isengarda andò a Roma, e gettandosi ai piedi di Silvestro II, avendo chiesta l’assoluzione di un grave suo peccato, ebbe in penitenza di edificare sulle alpi un monastero affine di promuovere in quelle rozze regioni l’esercizio delle virtù morali e civili, e l’obbedienza alla Santa Chiesa.
La fama della miracolosa consacrazione avvenuta al Pirchiriano spinse Ugone a fabbricare ivi il monastero. Egli, accompagnato da Isengarda, andò a visitare il marchese d’Ivrea per fare la compra di quel luogo. Arduino, poi re d’Italia, che risiedeva nel castello di Avigliana, e vi tenea splendida corte, fece ogni onesta accoglienza ai devoti coniugi, e concesse loro quanto desideravano.
Ugone pose mano all’edifizio nel 970 operosamente cogli aiuti del santo romito Giovanni Vincenzo, già arcivescovo di Ravenna, e dell’abate Avverto: verso il 998 lo finiva, e vi collocava i monaci di s. Benedetto. Era in quel tempo appunto che fioriva il conte Umberto Biancamano, lo stipite dell’illustra famiglia Sabauda.
Per lungo corso di anni la badia fu rinomata per studii, per carità e per ogni virtù cristiana, e uomini forniti di pietà e di dottrina, come Avverto, Benedetto e Guglielmo abati del chiostro la illustrarono. Ma nel 1376 la badia cadde con tal rovina che ogni argomento fu vano per ripristinarla nell’antico suo splendore.
Era morto Giacomo d’Acaia, che lasciò erede del principato Amedeo, diseredando il maggior fratello di lui, Filippo, reo di delitti commessi contro l’autorità paterna. Filippo ribellatosi contro Amedeo, per impadronirsi de’ domini a lui conceduti raccolse armati per fargli guerra, ed assoldò due compagnie di ventura inglesi condotte da certo Bonsons, sotto il cui stendardo si radunarono banditi e masnadieri piemontesi per ingordigia di sacco.
In quel tempo i monaci della badia erano così corrotti, che venne da loro eletto abate Pietro, ambizioso, di carattere ardente e triste, per essere egli accanito nemico di Roma e degli oracoli del Vaticano. Costui sperando di accrescere il suo dominio e di far bottino, parteggiò per Filippo, e fece lega con perversa gente, scialacquando le pingui entrate del monastero.
Papa Gregorio XI fulminò d’interdetto il malvagio abate e l’inquisitore del sant’Ufficio lo rinserrò in prigione coi monaci suoi complici. Venne dal sommo pontefice in pari tempo ai benedettini della badia di radunare il capitolo generale per l’elezione d’un nuovo abate.
Il conte Verde ebbe da Carlo IV imperatore e dal papa accordato il supremo ed alto dominio de’feudi posti ne’suoi Stati, onde porsero a lui omaggio di fedeltà i feudatarii, fra’ quali l’abate di San Michele. Amedeo, che consideravansi signore dell’abbazia della Chiusa, divisò di ristorarla dei danni che le recarono le compagnie di ventura, e di riparare ai suoi mali, e ne chiese al papa il padronato perpetuo con certi privilegi nell’elezione degli abati.
Premendo al pontefice di ristabilire l’ordine nel monastero, ordinò che i monaci di San Michele fossero privati di ogni autorità, e che una parte delle loro entrate formasse una commenda assegnata ad abate secolare la cui nomina spettava al conte. Da quell’abate poi dipendeva il monastero di San Michele.
Quell’ordine monacale non fu capace di riforma per quanti regolamenti si provassero, e Gregorio XV nel 10 dicembre 1622 decretò la soppressione totale dell’abbazia della Chiusa. Cos’ un monumento di pietà eretto dalla penitenza di Ugone rimase vuoto dopo sei secoli per i vizii di quegli uomini a cui ne venne affidata la cura.
La badia commendataria di San Michele passò in varie mani, e finalmente ne fu investito il Gerardit per disposizione di Vittorio Amedeo III che volle dargli un premio per avere educata la regia sua prole. I Francesi invasori rispettarono in Roma la persona del cardinale, ma diedero il guasto alla sua commenda nel percorrere le Alpi.
Pio VII nel suo ritorno alla Sedia pontificia pensò a farla rivivere, e d’accordo col re Vittorio Emanuele le propose ad abate don Cesare Garetti di Ferrere.
Il re Carlo Alberto rivolse particolarmente il suo pensiero alla badia di San Michele, volendo che un tal monumento di pietà cristiana fosse ristorato per opera dell’architetto Melano, e convertito, direi quasi, in un gran mausoleo che raccogliesse le spoglie mortali di parecchi illustri suoi antenati tumulati nella metropolitana di Torino. Ne affidò poi la custodia ai padri dell’Istituto della carità, di cui è proposito generale il famoso filosofo cristiano, l’abate Rosmini Serlati.
Diciamo ora com’è architettata la badia di San Michele, e qual’è il suo stato attuale. Non si trovano memorie intorno a ciò che vi si chiudeva di bello e di magnifico nel passato. E sappiamo che fu opera maravigliosa del secolo X, e serba pochi avanzi dell’antica sua gloria.
L’architettura dell’edilizio è irregolare, adattata agli andamenti del masso ove sorge il monumento, che per ciò ha nella sua forma un non so che di bizzarro e d’immaginoso. La sua facciata, non ignuda di ornamenti, è altissima, e per lo scosceso del monte non può essere bene ammirata. La prima porta d’ingresso è detta di ferro, perché fu tale un tempo col ponte levatoio. Si vedono gli avanzi di una torre, di picciole bastie e muri di fortificazione che in tempi d’ire civili solevano far difesa ai pacifici chiostri.
Per lo stesso scopo fu costruita la tortuosa strada che dalla porta di ferro conduce al monastero, che rendeva difficile l’abbordo all’assalitore. Questa strada singolare è a modo di scala con gradini di terra selciati. Il prospetto e la forma del monastero sembrano di stile saraceno. La struttura al di fuori è di pietre di color cinericcio così disposte, che il muro, le colonne e gli ornamenti si direbbero di un solo pezzo.
Entrando poi nella porta di mezzo si scende per la scala maggiore di cento e ventun gradini di pietra, anch’essa cinericcia, fino al sommo dell’edifizio. In più luoghi d’essa spunta il vivo sasso, e vi sono lateralmente parecchi antichi sepolcri d’abati e monaci con gotici scudi triangolari, imprese dipinte ed iscrizioni.
Lunga la scala in alta nicchia si conservano con graticci di ferro alcuni scheletri umani posti in piedi e in vari atteggiamenti, forse per rammentare la fugacità della vita, e render più tetro e più sublime l’aspetto della scala, sotto alte ed antichissime volte imbrunite e guaste dal tempo per dove gli austeri cenobiti calavano e montavano adempiendo ai loro pii ufficii, che alternavano fra le preghiere, gli studii e la coltura dell’aspro monte.
Ivi le fronti giovani e ——– nei tempi della gloria del monastero apparivano carche di santi pensieri, gli occhi affaticati dalle veglie, i lineamenti estenuati dai lavori e dalle penitenze. Le volte di questa scala rimbombavano di preci, di sospiri e di accenti usciti dal petto infiammato di qualche monaco, il quale soleva essere ispirato or dall’aspetto vario e silvestre della natura, or dalla solitudine del chiostro, onde poi ripeteva fra se stesso le parole che serbava nella memoria o confidava alla carta.
Quando l’ordine monacale si corruppe, e che le passioni umane vi signoreggiavano, allora ben altri furono i pensieri che sorgevano in mente agli abitatori della badia, che dimenticando Dio profanarono quelle pareti che portavano così viva l’impronta della religione e della morte ove non rideva alcuna attrattiva di lusso mondano.
La magica scala è sostenuta con arditezza di architettura dal sinistro lato da un gran pilastro o colonna che da capo a fondo va dell’edilizio, e sembra questo un miracolo d’arte, una di quelle opere che l’ingegno umano produce a dimostrare la sua grandezza. La bizzarria del Bernini è qui voluta dalle condizioni del sito.
A manca della colossale colonna si aprono le poche abitazioni dei religiosi scompartite in parecchi piani nel più fantastico modo, ed a quelle mettono due altre scale inferiori, onde così stabilire la comunicazione fra le diverse parti dell’edifizio per comodità de’claustrali ufficii.
La porta della chiesa è un bellissimo lavoro di architettura moresca, ma mentre ivi la materia è vinta dall’arte, nel resto del tempio non avvi nulla di particolare che corrisponda al lusso maraviglioso di quei fregi. Su quella porta costrutta di breccia bigia sorgono colonne ritorte e dritte con capitelli ornati di bassi rilievi industriosamente scolpiti con ogni maniera di vezzi e fiori, figure di animali, fogliami e mille forme capricciose. Era questa l’arte degli Arabi nell’architettura che sentiva alquanto dei sogni immaginosi dell’Oriente.
La chiesa, nell’interno, è di stile gotico semplice. Alcune pitture, pochi affreschi, varii mausolei e monumenti sono i preziosi avanzi dell’antico tempio edificato con quella tozza architettura vinta dalla posteriore assai più svetta e leggiadra. Grandi colonne torse sostengono la volta della chiesa, ornate di fogliami e fregi singolari, fra i quali si vedono scolpiti dei versi e lettere carlovingie. La nave di mezzo è di stile romano, le laterali sono a sesto acuto.
L’altar maggiore è vago per lo stile toscano a stucco lucido, ma non consuona coll’architettura gotica della chiesa.
Stanno ai lati come incastrati nel vano di due cappelle due grandi sarcofagi disegnati con maniera gotica dal Melano. Ivi furono deposti Carlo Emmanuele II, le auguste spose, la duchessa di Borbone madama Francesca e la duchessa Maria Giovanna Battista di Savoia Nemours; Caterina di Savoia figlia di Carlo III e di Beatrice di Portogallo morta in Milano nel 1536 nella tenera età di sette anni, i principi di Savoia-Garignano, Emmanuele Filiberto Amedeo, spirato il 23 aprile 1709 di ottantun anni, Tommaso Filippo Gaetano, cessato di vivere li 8 settembre 1713; Giuseppe Vittorio Amedeo Buonanventura, nato il 11 maggio 1716 e partito in cielo il 28 ottobre dello stesso anno; il principe di Savoia-Soissons Emanele Filiberto, che compiè la vita di anni tredici il 17 aprile 1676; Amedeo marchese di Peveragno e di Boves; Maria di Savoia, moglie del marchese Delle-Lance; don Felice e don Gabriele, figli del duca Carlo Emanuele I.
Si seppellirono con questi reali di Savoia altri che si trovarono chiusi nelle casse della metropolitana di Torino senza nota di colme come il volgo ne’ pubblici cimiteri.
Persone distinte ebbero tomba in quella chiesa con tumuli di marmo, ornati di qualche scultura e con numerevoli epiteti.
Da una porticella si scende in un atrio volto a tramontana ov’è tradizione che fosse stato l’abituro del beato Giovanni arcivescovo di Ravenna.
In fondo alla chiesa si fa tragitto in un andito che vuolsi fosse l’antico coro dei monaci benedettini, ma non vi sono che rovine ove echeggiarono le voci dei salmeggianti che rompevano a mezzanotte il silenzio delle montagne.
Osservasi un rozzo dipinto in cui si pretende rappresentare la fondazione dell’abbazia, com’è creduta dal volgo. Mentre da susa muovono tre uomini e una donna a cavallo con un fante di lunga picca armato, accanto gli angeli stanno fabbricando il tempio in vetta del Pirchiriano. Un angelo conduce il pio romito beato Giovanni a quel luogo, ove questi si addormenta mentre gli angeli danno compimento all’edificio.
A capo di un lungo corridoio, detto dei Canonici, si offre la vista delle rovine dell’antica abitazione dei monaci, che, come è fama, ne conteneva trecento, e non rimane che un mucchio di colonne spezzate, di archi rotti e di qualche capitello che fra lo squallor di quei frantumi attrae lo sguardo per la sua bellezza. Ivi non lunge la rupe scende a picco in una profonda valle, che ha sembianza d’abisso, e riguardando in quella parte si sente un raccapriccio che si mesce alla dolorosa impressione delle rovine; come se la natura e il tempo avessero lasciato in quelle cose una funesta impronta della loro potenza.
La memoria di una giovinetta sparge di un fiore quei tristi errori. Quella rupe si chiama il salto della bella Alda. Una fanciulla per le grazie della persona accese le fiamme d’impudico amore nel petto di un giovine che si pose ad insidiare la sua virtù. Era forse nei tempi che i soldati del britanno Bonsons violavano le cose più sante, e forse uno di quelli, innamorato della bellezza di Alda tentò ogni modo per vincerne la ripugnanza. E quando l’onesta vergine non vide scampo contro il seduttore, si gettò nella valle invocando il nome della Madonna, e rimase sana e salva essendo stata raccolta dai pietosi cespugli.
Cesare Balbo scrisse su questo tenero argomento una novella assai delicata e commovente.
Per ultimo ascenderemo sul campanile, e sul frontone dell’alta facciata della badia, che largo e di pietra offre un comodo passeggio.
Cosa si vegga da quell’altezza ce lo dica l’elegante scrittore l’abate Gustavo Avogadro, non ha guari immaturamente rapito da morte. “Spazia da siffatta altura l’occhio, e gode della magnifica vista di un immenso tratto di paese. Dagli alti gioghi scorre delle Alpi dall’arduo Cenisio sino all’estremo confine dell’ubertoso suolo lombardo. Dal regno dei ghiacci e delle nevi eterne ei facili colli e ai dolci piani discende di fiorenti vigne ammantati, ricchi di biondeggianti messi; dal rigoroso clima ove fil d’erba non ispunta, ove il musco peranco più non cresce, ai floridi terreni ove i frutti d’ogni specie e la più vivace vegetazione, larga ricompensa de’suoi sudori, offrono all’agricoltore: dall’altra cappelletta alla Madonna della Neve in vetta a Roccia-Melone consagrata, fino in fondo alla graziosa valle, nel cui seno la Dora-Riparia in più rami si divide, e un bel mucchio forma di graziosissime isolette. Che incantevole vista!” (Storia dell’Abbazia di S. Michele ecc.).
Ben si comprende come forastieri e Torinesi non tralascino di visitar la Sagra per aver un diletto in cui tanti diletti si raccolgono pel romantico viaggio: la salita alpestre, l’aspetto dei campi e dei monti, l’antichità dell’abbazia, le memorie dei tempi e la dolcezza di un diporto che vi allontana dalle noiose cure cittadine.

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