La Roquette.

Prigione dei condannati.

I.

Motteggi contro un articolo. – Gaiezza d’un moralista. – Un interlocutore importuno. – Filosofia dei costumi. – Strada del bene, strada del male. – I romanzieri e lo storico delle prigioni. – Il padre della Roquette. – Il vecchio Bicetre. – La visita di Mirabeau. – Quella dell’inventore della ghigliottina. – Massacri crudeli. – Ferramento dei forzati al vecchio Bicetre. – Addio di Bicetre prigione a Bicetre ospizio. – Nascita della Roquette.

Il titolo è gaio, non è vero? come la porta d’una prigione. Havvi abbastanza da far indietreggiare un mondo di lettori! Amabile pubblico, non arrestatevi alle bagatelle della porta, ve ne scongiuro; entrate nel mio articolo. Vi troverete con l’insegnamento morale cose divertenti, financo scherzevoli; vi troverete, spero, l’utile e l’aggradevole.
Queste poche linee v’hanno già informato che la nostra penna, sebben metallica e proveniente dalle officine di Plau, Regent Street, Londra, si mostra all’occasione viva e leggera (castigat ridendo mores).
Non vi spaventate di questo latino; è come al principio di un sermone; ce ne vuole un poco per cominciare.
Molti moralisti hanno tentato di studiare i costumi e migliorarli, indicando la strada che prender si debba per giungere al bene morale, questa bella strada, unica è vero, ma difficile a seguire, poichè l’uomo vi cammina su d’un terreno sdrucciolevole, ove il menomo passo falso gli fa prendere una delle mille deviazioni che lo smarriscono. Questi moralisti hanno certamente fatto benissimo; e fuvvi taluno dei loro allievi che seguì le loro indicazioni; ma, diciamolo, ben molti invece si volsero a dritta o a sinistra, e, dopo d’essersi perduti in diversi sentieri, sono rimasti attoniti, al trovarsi uniti nello stesso luogo di pentimenti, di disonore, d’amarezza.
Ve gli abbiam veduti piangenti, gli uni sinceramente, altri per ipocrisia, sulle conseguenze del loro traviamento. E allora abbiam detto a noi stessi se in luogo di limitarci a mostrar la strada unica, che conduce al bene, guidassimo i nostri allievi nel cerchio fatale che racchiude tutti que’traviati; se chiedessimo all’uno: Per qual via giungesti alla degradazione? all’altro: Per qual modo incorresti nel disprezzo della società? a questo: Onde hai meritata la pena rigorosa che t’infligge la giustizia? a quello: Perchè il bagno t’attende? a un altro: Perchè la scure del carnefice è sospesa sulla tua testa?La collezione delle risposte di quegli sciagurati, c’indicherebbe allora perfettamente i mille sentieri che non bisogna seguire; ci direbbe i mali che vi si rinvengono anche lasciandosi trascinare sulla china insensibile del male; e soprattutto il crudele disinganno, i laceranti rimorsi, il cocente dolore, che assalgono il colpevole al termine inevitabile del suo decadimento morale. E quali lezioni sarebbero più eloquenti, più pratiche, più utili di queste allo sviluppo dei buoni costumi?
Ebbene! ecco il nostro piano: mostrare ciò che il male ha di schifoso e di crudele per costringere gli sguardi dell’umanità a volgersi verso il bene, a vedere in esso la doppia felicità, della vita presente e della futura.
— E, per farci godere di questo bello spettacolo, volete per primo condurci in prigione! poichè vi abbiamo perfettamente compreso. Ma per chi ci prendete dunque, signor moralista?
— Non andate in collera, ve ne prego: vi risponderò con un moralista più grande di me e che attingeva le sue ispirazioni dall’alto: Che quegli il quale si crede ben solido, si guardi dal fare una pesante caduta, qui se existimat stare caveat ne cadat, ha detto san Paolo. E san Paolo avea studiati i costumi! E s. Paolo la sapeva più lunga di noi!
E poi se non volete accettare la lezione per voi stessi, lasciate almeno io vi dica, che intorno a voi si affolli una moltitudine compatta e ignorante, alla quale le vostre istruzioni possono offrire grandi soccorsi. Guidate pel dedalo della vita que’poveri ciechi; essi ve ne sapranno grado più tardi d’aver loro risparmiati gli errori inseparabili dall’inesperienza.
— Ma storie di prigioni ne abbiamo già in gran numero; e nulla ci appresero; e non hanno diminuito il novero di coloro che vi espiano i loro delitti.
— Avete ragione, caro lettore; io pure ho letto quelle descrizioni scritte da uomini che si sono divertiti a farci dei romanzi, a ricamare la vita di qualche detenuto famoso; ma, sappiatelo, questi fabbricatori di romanzi non conoscono nemmeno l’A, B, C delle prigioni, ove passarono qualche quarto di ora, colla permissione del prefetto di polizia. . . .
Per parlare su questo argomento, che offre tanto interesse al cuore ed allo spirito, bisogna aver potuto vivere, come il vostro umile servitore, coi detenuti, in tutte le fasi della loro esistenza così avventurosa, alla loro entrata in prigione, nelle loro abitudini di cattività! bisogna aver passeggiato sovente con essi sul gran prato, aver udite le loro incredibili conversazioni, i loro progetti di vendetta contro la società, le commissioni che danno ai futuri liberati, di svaligiare, di assassinare financo il tale, o tale, dimorante nella strada di. . . . N.”. . . . ; bisogna altresì aver vedute le lagrime del prigioniero pentito, che aspira verso la vita morale che ha perduta, che ridomanda la sua innocenza, il suo perdono, almeno sua moglie, la sua piccola bambina, e giura, ma un po’ tardi, che non vi cadrà più.
Decisamente, non credo vorrete rifiutarvi di venire a passare con me qualche tempo in prigione.


Borsaiuolo. – Manutengolo. – Truffatore. – Chorineur. – Ipocrita. – Ingannato.

Ma quale sceglieremo? Se credete a me, bisogna scegliere ciò che v’ha di più gentile nella specialità. Non prendiamo una di quelle prigioni insignificanti, ove non si incontra, per dir così, che gente onesta; oh! no; cerchiamo una di quelle dimore ben cupe, ben nere, nelle quali si trovano tutti gli attori di quei drammi riportati dai giornali; una prigione che riunisca tutte le situazioni: il condannato ad un anno, a due, il ladro, il fallito onesto, il fraudolento, il commesso infedele, il ribelle per convinzione, il chourineur, che assicura aver sì ben calcolata la forza del colpo di pugnale da aver colpito giusto a tre millimetri dal cuore (storico); e, a fianco di questi scellerati, un condannato che si sogna ogni notte del suo povero bambino, debole creatura di diciotto mesi, posto a balia non sa dove, ma oggetto costante della sua sollecitudine, e causa la più possente del pentimento pel fallo che appena ha commesso.

Qual è dunque questa prigione così pittoresca, così palpitante d’interesse? E quella che si chiama legalmente Deposito dei condannati del dipartimento della Senna, e, volgarmente, la Roquette (da non confondersi con uno stabilimento della stessa natura situato in faccia e chiamato Prigione dei giovani detenuti). È in questa prigione che noi troveremo le situazioni più eccentriche, gli oggetti più svariati della criminalità moderna, la riunione dei sentimenti più ignobili, più barbari, con quelli dell’onore appena sfiorato, del pentimento amaro, del desio del bene, d’uomini degni sott’ogni aspetto della riabilitazione morale, che loro è ahi! troppo spesso ricusata.

La Prigione dei condannati del dipartimento della Senna è chiamata la grande Roquette, perchè situata all’estremità della strada della Roquette. D’onde proviene il nome di questa strada? Poco c’importa saperlo. Tuttavolta vi dirò, che un certo duca de la Roquette vi aveva, nel medio evo, un castello, che questo castello divenne più tardi un convento di ospitaliere, che chiamavansi religiose della Roquette, che sembrò quindi cosa naturale di dar lo stesso nome alla strada che vi conduceva. La nostra prigione si trova presso a poco sul sito ove sorgeva il convento. Le grosse muraglie, la cupa tinta, le forme severe dell’edifizio, manifestano la sua destinazione. Fu eretto per cura del sig. Gau nel 1834, e riunisce tutte le condizioni di sicurezza e di igiene reclamate da questo genere di costruzione.

Quando si scrive la vita d’un uomo illustre, è costume dir qualche cosa de’suoi antenati; la prigione della Roquette ha un padre ben celebre. Tutte le scene della prigione dei condannati, qual’è nel 1850, si rannodano necessariamente ai drammi interessanti della storia di Bicetre. E di questa dobbiam dire alcuna cosa, poichè, lo sapete, la Roquette è l’antico Bicetre; ivi sono stati trasportati nel 1836 il suo personale ed il suo mobiliare, e la Roquette possiede ancora degli uomini degni di venerazione per le cure assidue, lo zelo costante, le fatiche non interrotte cui si dedicano da oltre vent’anni. Sì, troverete ancora al nuovo Bicetre, alla giovane Roquette, un cancelliere commendevole, un vecchio brigadiere, che si sono distinti per una saggia fermezza, unita ad un affetto tutto paterno pei detenuti delle due prigioni.

Il vecchio Bicetre! la più orribile prigione degli ultimi secoli, ricevette, nel 1789, la visita di Mirabeau e de’suoi colleghi, incaricati di constatare la condizione dei detenuti, e, nel 1792, quella di maestro Guillotin, recatosi a farvi le prime esperienze, che assicurar dovevano alla sua macchina il successo e alla persona il brevetto d’invenzione. Era il 17 aprile 1792. Tristo presagio! . . . Quattro mesi dopo, Bicetre era insanguinato dagli orribili massacri che durarono dal lunedì 3 settembre fino al mercoledì successivo.

La famosa Theraigue de Mericourt passò a Bicetre dieci anni. Inutile dire i nomi dei condannati celebri che vi furono rinchiusi, attendendovi il loro trasferimento al bagno o alla secreta della morte, posta alla Conciergerie, punto di partenza per l’ultimo supplizio.

Fino al 1836, in due epoche dell’anno, tutto Parigi correva a Bicetre; la gran dama si urtava con la rivendugliola della strada Mouffetard; il lion degl’Italiani appuntava il suo cannocchiale al di sopra della testa del birricchino della strada San Vittore. Che succedeva dunque a Bicetre? . . .
Il ferramento dei condannati ai bagni; spettacolo ben tristo; ma il più atto a commuovere; ed è noto quanto avido di emozioni sia Parigi.


L’antico ferramento della catena dei forzati a Bicetre

Più volte furon descritti questi episodii di Bicetre, ma non sempre l’esattezza del racconto ha condotta la penna del narratore. Ciò che or diremo, l’udimmo da testimonii oculari, da un rispettabile cappellano e da uno dei vecchi impiegati di Bicetre, che hanno assistito a questa scena, la quale più non si rinnova dopo l’invenzione delle vetture cellularie. Dobbiam dire dapprima che, ad onta delle cure che si prendevano per tener secreta l’epoca della partenza, i detenuti la presentivano mai sempre dalla fisonomia che offriva allora la prigione, e dalla presenza di certi personaggi di nuovo arrivati, i quali altro non erano che guardaciurme, brigadieri, conduttori, ec. Allora, da gente onesta, si occupavano a pagare i loro debiti, stando all’espressione usata da essi, . . . e non era cosa rara vedere in que’giorni un condannato al bagno gettarsi improvvisamente sopra uno de’suoi compagni, opprimerlo di colpi, stringerlo alla gola; e se non si metteva un termine a questa barbarie, ei pagava compiutamente il suo debito, cioè strangolava uno sciagurato, colpevole d’avergli ricusato un lieve servigio o d’essere stato la causa di una punizione che avea subita . . . .

Giunto il giorno del ferramento, entrava nella prigione una pesante carretta; al romore delle sue ruote univasi quello delle catene e dei ferri che agitava ne’suoi trabalzi. A questo istante, udivansi attraverso le spranghe di ferro i prigionieri, fino allora silenziosi ed immobili, prorompere in grida di gioia, in minaccie, in imprecazioni; ciascuno esprimeva in modo diverso i sentimenti ond’era agitato.
Breve momento di terrore che mescolavasi alla curiosità dei privilegiati esterni, i quali, muniti di viglietti, eran venuti ad assistere a questo strano spettacolo. Le catene di ferro, le collane dello stesso metallo, dette in termine di prigione le fettuccie, poi le vesti dei forzati, chiamate nello stesso stile i taffettà; tuttociò sfoggiavasi nella corte dinanzi agli sguardi dei pazienti e dei curiosi; poscia . . . , un momento appresso, due o tre porte basse vomitavano una ciurma di uomini dal volto sinistro, sucidi e cenciosi.
Venivano a porsi in fila, tredici per tredici, lungo la grande catena che li separava, ed alla quale erano fissate ventisei catene men forti e brevi, alle cui estremità si trovavano delle collane triangolari, che si aprivano ai lati col mezzo di una cerniera. Erano assisi sul lastrico; gli aguzzini lor mettevano al collo la collana, e provavano rialzandola sulla faccia, se, in causa di una conformazione speciale, il condannato avesse potuto farsela passare sopra il capo; ma, come dice Victor Hugo, il cerchio di ferro s’arrestava sempre sulla fronte a guisa d’una collana. Allora due fabbri della ciurma, muniti d’incudini portatili, ribadivano a freddo a gran colpi di martello, la chiavicchia di ferro che pesava sul forzato per tutto il viaggio.
Era un momento terribile, nel quale i più intrepidi diventavano pallidi e tremanti, poichè ogni colpo di martello dava una scossa al loro corpo; e guai a loro se la testa non fosse rimasta immobile; ella sarebbe stata infallibilmente stritolata tra il martello e l’incudine. Lode all’amministrazione, che ha fatto succedere a queste scene poco in armonia coi nostri costumi il trasferimento al bagno in vetture cellularie.

L’ultimo ferramento dei forzati succedette nel 1835; ve ne erano cento settantadue. Questa volta, i pazienti non fecero udire, come in addietro, nè grida di dolore, nè canti indecenti. L’espressione del pentimento era su tutti i volti, alcuni dei condannati versavano lagrime. . .
La religione era venuta ad offrir loro il suo appoggio e le sue vere consolazioni. Il venerabile abata Montes, oggi ancora cappellano della Conciergerie, gli avea condotti alla cappella, e la sua toccante allocuzione avea loro insegnato che l’irritazione della collera a nulla rimedia; mentre una lagrima che scorre sotto l’impressione del pentimento calma ben gravi dolori.

Era stato saggiamente deciso che Bicetre prigione e Bicetre ospizio dovessero essere separati. Nel 1835 le mura della Roquette sorgevano con rapidità sorprendente, poichè la costruzione di quella vasta carcere penitenziaria, abilmente diretta dalle cure intelligenti dell’architetto Gau, fu compiuta in undici mesi e mezzo appena, e, nel 1836, i suoi edifizii, le sue corti, il suo prato, le sue celle erano atte a contenere la popolazione prigioniera di Bicetre.

II.

Uno sloggio non comune. – Fuoco incrociato di scherzi e motteggi a sette gradi sotto zero. – Colloquio curioso. – Storia di Piccol-Grigio. – Un compagno di letto insolito. – Piccol-Grigio causa di un assassino. – Sua condanna a morte. – Sua grazia. – Nuovo delitto, nuova condanna. – Innocente punito pel colpevole. – Arrivo al nuovo domicilio. – Molti ingressi, nessuna sortita. – Sua storia interessante scritta da lui medesimo.
– Annuncio di curiosi avvenimenti.

Tutto fu dunque disposto per la partenza e pel trasporto del personale e del materiale di quella grande e vecchia prigione.
Fu uno spettacolo ben curioso quello sloggio pittoresco.
Quattrocento ventisette onorevoli locatarii, che partivano senza aver data la diffida di finita locazione e senz’aver pagata la pigione. E di ciò appunto si parlava, la vigilia, sul gran prato di Bicetre, ove si passeggiava, ve l’assicuro, con molta fretta, poichè era il 24 dicembre, e sette gradi sotto il zero acceleravano la marcia dei passeggianti, divisi in gruppi di dieci, quindici, venti interlocutori. Correndo, lanciavansi dei motti spiritosi, degli scherzi, da società a società.
— Ebbene, Tolosano, hai imballati i tuoi mobili?
—Si, Borgognone, sì. Tu non durerai certo fatica a trasportare la tua cassettina di finezze, ella non è conseguente.
— Tu non hai d’uopo di scriver fragile sull’inviluppo del tuo cervello; non vi ha pericolo; l’inviluppo può rompersi senza che tu vi perda nulla.
In mezzo a questo fuoco incrociato di barzellette, quattro individui tenevano una conversazione più interessante.
Erano questi Pipa-Nera, vecchio pilastro di prigione, intrepido fumatore; Doglioso, cosi chiamato, a causa delle sempiterne lamentazioni che gli strappano i suoi reumatismi acquistati in quindici anni di bagno e di carcere. Colla-Pasta, onesto detenuto, condannato a tre anni e di cui tutti gl’istanti erano impiegati a fabbricare colla mollica di pane, artisticamente manipolata, delle cestelle, dei calvarii, dei fiori, che vendeva per procurarsi delle dolcezze ed aiutare la vecchia sua madre e la piccola sua Jenny. Poi Gran-Decano, in età di sessant’anni, di cui quaranta effettivi passati in diversi bagni. Finalmente, Piccolo-Grigio, il suo inseparabile.
— Oh! cara pipa!. . . . annerita fin dal 1849. . . . interdetta da tre mesi per essermi attribuito un kilo di tabacco alla cantina; cara pipa! come sottrarti all’occhio del visitatore e trasportarti al nuovo domicilio? Così parlava il sibarita Pipa-Nera.
— Come puoi lagnarti in tal modo, diceva il povero Doglioso, per la perdita d’un oggetto di lusso? Non fumare, è privarsi di un piacere . . . Ed io che sono tormentato dai miei dolori alle reni e devo andarmene ad abitare una casa nuova. . . in pieno inverno. Mi verrebbe voglia di portar reclamo al meg des megs (presidente del tribunale). Che ne dici tu, Colla-Pasta?
— Miei poveri amici, io vi compiango e dimentico di lagnarmi. Io pure, aimè, sono inquieto . . . . — Pel tuo commercio? riprese vivamente Gran-Decano.
— Appunto: la mia povera moglie, mia madre, la mia piccola Jenny vengono qui tutte le domeniche e lo smercio va bene a Bicetre; i villani comprano le mie graziose cappelle, i miei piccoli calvarii, i miei quadretti gentili, e il prodotto aiuta la mia povera moglie a nutrire mia madre e a pagare la scuola di Jenny.
— Tu vai alla capitale, ivi amplierai il tuo commercio.
— Si sa ciò che si perde, non si sa ciò che si trova ; ma sia fatta la volontà di Dio!
— Voi siete tre mariuoli ben insopportabili colle vostre lamentazioni. Che dovrei dir io dunque, io che tremo per la vita di ciò che ho più caro al mondo? Così parlava Gran-Decano.
— Per bacco! Disse Pipa-Nera, si è mai veduta simile audacia. Perchè usi tu, tu prigioniero, di voler, in una prigione, nascondere, sottrarre un detenuto . . . un condannato a morte?
— Perchè non ho io altri amici sulla terra, tranne lui?
— Perchè sei tu così malvagio, così vendicativo? credi forse che quegli che tu hai freddato (1), per salvare Piccolo-Grigio, non abbia avuto a lagnarsi della tua crudeltà?
Al che Piccolo-Grigio non diceva parola, e pel suo motivo.
Piccolo-Grigio era . . . . un sorcio, e dir si poteva alla maniera di Boileau: Piccolo-Grigio è un sorcio, Gran-Decano un birbone.
E un famoso!
Gran-Decano era uno di quegli uomini crudeli, astiosi, che non potevano vivere con alcuno. Condannato dapprima per truffa, quindi per latrocinio a mano armata, poscia per assassinio, con circostanze mitiganti, la sua vita, dall’età di diciannove anni, era trascorsa nelle prigioni e nei bagni. Il suo carattere insopportabile lo avea reso odioso a tutti i detenuti; e, non potendo farsi amare da alcun essere umano, nemmeno da quelli, cui i suoi delitti non ispiravano alcun orrore, volle affezionarsi un animale e farne il suo compagno di catena, la sua società. Una notte, passata nelle segrete del bagno, per aver morsicato all’orecchio uno de’suoi camerati, scorse un nido di sorci. Gli venne allora l’idea di allevare uno di que’piccini, d’addomesticarlo e di farne il suo amico. E vi riuscì; e da gran tempo Gran-Decano portava seco costantemente, di giorno, Piccolo-Grigio, al collo del quale era fissata una catenella, il cui capo opposto attaccavasi alla bottoniera del gilè di Gran-Decano. La notte, Piccolo-Grigio, dopo d’aver corso e saltellato intorno alla lettiera di Gran-Decano, andava a rannicchiarsegli dappresso e tutti due si davano al riposo!!

Povera umanità! a quale degradazione ti riducono i tuoi delitti, la cui origine è bene spesso, lo prova l’esperienza, l’obblio del compimento d’un dovere religioso o morale!
Il sorcio fu messo in libertà col suo padrone, e godette, per un anno, delle comodità che Gran-Decano sapeva procacciarsi; ma aimè un orribile assassinio l’avea ricondotto a Bicetre, ove attendeva, in compagnia di Piccolo-Grigio, il momento della partenza per le galere, alle quali questa volta era stato condannato in vita. Piccolo-Grigio, avvezzo alla libertà, trovava la sua catena troppo corta. Per contentare le sue esigenze Gran-Decano qualche volta lo scioglieva, e allora Piccolo-Grigio, tutto allegro, saltellava fra le gambe dei passeggianti sul gran prato.
In una di queste escursioni, Miccio Nero, gatto di Bicetre, seguendo il naturale istinto, si slanciò sopra Piccolo-Grigio . . . Gran-Decano con l’occhio fiammeggiante, coi capelli irti, afferra il suo zoccolo, colpisce Miccio-Nero e lo stende morto a’suoi piedi.
Era questo l’essere sfortunato, di cui Pipa-Nera gli rimproverava il freddamento. – Mercè l’eloquenza oratoria di Gran-Decano, Piccolo-Grigio era stato per questa volta assolto; ma aimè!, un giorno, o piuttosto una notte, che l’amico cui era legato passava all’infermeria, Piccolo-Grigio osò rosicchiare il pantalone d’un detenuto . . . Denuncia, giudizio, sentenza e condanna a morte, tutto questo fu l’affare d’un quarto d’ora; ma Piccolo-Grigio si era prudentemente sottratto e l’esecuzione fu rimessa dal sorvegliante all’indomani.

(1) L’ecidere, estinguere il calor vitale; orribile energia di espressione.

La notte è madre di consigli. Gran-Decano si leva e va ad un luogo a lui ben noto e frequentatissimo dai sorci; perviene a rendersi padrone d’uno di questi animali, e l’indomane lo porta trionfante attaccato alla catena del vero Piccolo-Grigio, il quale infrattanto stava nascosto or nel berretto or nei calzoni del suo amico.
— Perchè non hai ucciso il tuo sorcio? dice il sorvegliante.
— Non ne ho avuto il coraggio.
— Ebbene, l’avrò io, rispose l’altro, uccidendo con un colpo di chiave la bestia innocente colta in cattiva compagnia.
Ed ecco il motivo pel quale Gran-Decano, la vigilia dello sloggio era si giustamente inquieto sulla sorte di Piccolo-Grigio, che tuttavolta fu sottratto al pericolo, nel modo seguente.
Al momento della visita, che doveva essere la più minuziosa, e la più scrupolosa di tutte le visite, era stato dato a ciascun prigioniero un enorme pezzo di pane per suo nutrimento nella giornata.
Un’idea luminosa sorse nella mente di Gran-Decano; ei forma quivi un asilo a Piccolo-Grigio, lo rinchiude nel pane, con una parete formata dalla crosta, e, all’istante delle più minuziose investigazioni, passando il pane or sotto il braccio dritto or sotto il sinistro, sottragge così alla vigilanza ed al furore dei visitatori il povero Piccolo-Grigio, che arrivò sano e salvo con Gran-Decano e cogli altri detenuti alla porta della nuova prigione.

Un grido universale udir si fece all’arrivo del convoglio composto di tutte le vetture, così dette panieri da salata, che Parigi avea potuto somministrare.
Ve n’era una quarantina, scortate dalla gendarmeria. Tutte si arrestarono un istante in faccia al nuovo edifizio e più d’un occhio interessato lo esaminò con attenzione dalle fessure, dalle portiere grigliate. – E udir si fece a quella vista un’esplosione d’interiezioni d’ogni genere, una gamma ascendente di giuramenti d’ogni stile.
— Quale spessezza di muraglie, buon Dio!
— Tre giri di mura e due cammini di ronda, gridava un altro!
— Ed ecco una porta che ha un petto di ferro! urlava un terzo!
— L’aria non entrerà certo dall’esterno, diceva questi in aria sardonica.
— Nè cosa alcuna uscirà dall’interno, rispose quegli freddamente.
E aveano ragione. La Roquette è una prigione solida, ve l’assicuro, e fin dal primo aspetto la sua solidità eccitava la sorpresa, e produceva il più completo disinganno in qualunque individuo avesse potuto concepire la speranza d’uno sloggio clandestino.
Infatti, figuratevi un immenso quadrato, tre lati del quale sono formati da mura della grossezza di un metro, alte più di otto metri, e il quarto da un primo corpo di fabbrica, contenente, a dritta un corpo di guardia, con suoi accessorii d’obbligo, merli, feritoie, piattaforma; a sinistra, la loggia del primo carceriere fra due delle porte! . . . e . . . e quali porte! Fra un istante verremo a contarle e a farne l’anatomia descrittiva.

Ritorniamo alle nostre muraglie.
Passato il primo muro, prima separazione tra l’uomo che respira l’aria libera e lo sciagurato che per sua colpa geme in prigione, uno spazio di quindici metri è percorso giorno e notte da vigilanti sentinelle, i cui fucili non contengono certo pallini da uccelletti; è questo il primo cammino di ronda, separato dal secondo da altra muraglia di stile e di proporzioni eguali alla prima.
Tra queste seconde mura e quelle degli edifizii, secondo cammino di ronda, ove, come nel primo, si esercita senza interruzione la vigilanza di sentinelle bene armate.
Le mura di costruzione, non inferiori in solidità, hanno è vero delle aperture, perchè bisogna che l’aria e la luce vi penetrino; ma vi assicuro che l’aria che vi si respira, sebbene purissima, e i raggi di sole che rischiarano quegli sfortunati, passano attraverso un tamiso di spranghe e di griglie di ferro, la cui spessezza e forza d’adesione mettono alla disperazione la pazienza e il coraggio dei più avidi d’evasione; locchè non è dir poco . . . Sì, l’evasione è ancora in istato di problema alla Roquette, ed è buona cosa, poichè in mezzo alla popolazione che l’abita vi sono degli esseri ai quali la mutilazione, l’assassinio, non sarebbero che un gioco se con tali mezzi sperar potessero di riacquistare il godimento della libertà.

Il luogo più prossimo alla chiusura interna è il gran prato. Ebbene, ritorniamo all’ingresso della prigione, contiamo ed esaminiamo insieme le porte che interdicono l’uscita ai detenuti.
Una grossa porta di quercia, secondata da altra enorme porta di ferro, separa la pubblica strada dalla corte di servizio che precede il cancello. Di già due porte.
Al vestibolo si giunge passandone una terza grossa otto centimetri. E qui s’arrestano i passi di coloro che non hanno il tristo privilegio di penetrare nell’interno della prigione. Tristo privilegio pel detenuto! Tristo per l’uomo che per le sue funzioni è messo secolui in rapporto; dappoichè, credetelo, la vista di quella povera umanità così degradata, così avvilita fa ben male al cuore per poco che sia sensibile, e il bene che le si arreca è una compensazione assai debole a tutti i dolori, a tutte le angosce che reca la vista di tante miserie. Lo vedrete più tardi; ma ora continuiamo ad annoverare le nostre porte. Tre e una son quattro, diremo, battendo all’enorme griglia di ferro che gira sui suoi cardini e ci mette alla quinta: questa è di legno e conduce ad un corridoio largo due metri, poi ad una porta eguale; e sei.
Finalmente, scorgete il gran prato, attraverso le grosse spranghe della settima. Volete ora noverare gli ostacoli che dovrebbe superare un detenuto, il quale volesse evadersi dalla sua cella? Noveriamo: porta di ferro al basso della scala, otto; porta di ferro all’ingresso della sezione degli edifizii, nove; e finalmente la porta della cella, dieci . . . dieci porte! E non vi dico come sieno robustamente ferrate, e non vi mostro le serrature pesanti più di dieci chilogrammi.

L’evasione è dunque impossibile, e ciò che lo prova più ancora della premessa descrizione, si è che il prigioniero più famoso per le sue evasioni, B . . . è venuto alla Roquette e non ha potuto sortirne: eppure, nel 1844 quest’uomo era arrivato alla sua trentesima evasione.
Ei sapea forare le volte delle secrete, correre sui tetti, prendere il suo slancio come l’uccello che prende il volo (è così che era fuggito da Bicetre), sollevare i quadri di pietra del pavimento, aprirsi un passaggio sotterraneo grattando la terra con l’unghie (problema risolto in un’altra casa di forza).
La storia dell’ultima sua evasione, raccontata da lui stesso in uno stile eccentrico, dirà tutta la sua destrezza, tutta la sua perseveranza, e, nel tempo stesso, la solidità delle muraglie della Roquette.

« Da un lasso di sei anni mi si lusingava gratuitamente che
» avrei una commutazione, e bisognò ch’io fossi molto ortodosso
» per non violare la mia promessa di restar tranquillo . . . Mi re-
» stavano ancora dodici anni di doppia catena.
» Fu allora che non potei contenere la mia pazienza d’esser
» libero
. Intrapresi dunque solo una evasione a cui l’immagina-
» zione non può nemmeno avvicinarsi: e fu di farmi seppellir vi-
» vo dai miei compagni all’estremità della fossa degli alberi,
» presso la quale si facevano lavorare, per istraordinario, le dop-
» pie catene. Giunsi a scavarmi una tomba e ad entrarvi, col
» mezzo di manovre che si crederebbero favolose, munitomi pri-
» ma degli utensili necessarii per far penetrare l’aria nel mio na-
» scondiglio e di provvigioni da sostenere un blocco di varii giorni.
» Era in pien mezzogiorno; feci spargere un allarme a bella
» posta da alcuni compagni fidati, a portata di pistola, locchè ri-
» chiamò ivi la mia guardia. E intanto mi rannicchiai nel mio
» buco, che fu coperto in maniera da non lasciare alcuna traccia
» della mia sparizione. Ma ben presto si notò la mia assenza; le
» autorità riunite giudicarono che io non poteva essermi nasco-
» sto se non in una fogna, e per motivo il commissario ordinò che
» si aprissero i sostegni per annegarmi o per farmi sloggiare.
» L’acqua salante del mare e quella fangosa delle fogne mi
» giunsero soltanto fino al collo, attesa la bassa marea, e fu in
» questa posizione che resistei fino alla notte e dalla quale ne
» uscii certo per miracolo.
» Superate le barriere della natura, mi rimanevano a supe-
» rare quelle degli uomini; un coraggio soprannaturale mi fece
» arrivare allo spuntar del giorno due leghe distante dal bagno.
» Mi internai in un folto bosco, ed attesi le ombre di Stige per
» continuar la mia strada. La seconda notte, non avendo altri
» effetti che quelli traditori del bagno, lordi di fango, incontrai
» un lavoratore che portava un pacchetto; nulla si opponeva a
» ciò ch’io lo svaligii e che mi approprii de’suoi vestimenti, i
» quali soltanto avrebbero potuto proteggere la mia fuga; pote-
» va ammazzarlo . . . ma non me ne venne nemmeno l’idea . . . Io,
» macchiato di tutto che v’ha di più abbietto! io, disonorato, in-
» famato, vilipendiato dagli uomini, non osai domandare a quel
» proletario . . . che la direzione di Blaye.
» Sono i miei cenci che mi hanno tradito, poichè, il terzo
» giorno non potei resistere alla fame; e mi presentai alla porta di
» una casa per domandare un pezzo di pane. Ivi fui riconosciu-
» to, afferrato, legato da alcuni villani, i quali si affrettarono di
» consegnarmi ai miei antichi padroni. Per la trentesima volta
» io falliva prima di giungere a buon fine.
» Bisogna dunque rinunciarvi, bisogna dunque morir là, e in
» seguito a somiglianti riflessioni soliloquie divenir fastidioso,
» mesto e taciturno.»

Il pover’uomo!
Egli è ancora al bagno e confessa che le muraglie della Roquette, la solidità delle sue secrete, la vigilanza dei sorveglianti, sconcertano anche i più arditi e i più perseveranti.

Quando le numerose porte della Roquette si sono chiuse dietro a un condannato, gli è materialmente impossibile di uscirne, a meno che un ordine non le faccia aprire; nè ciò succede che in tre circostanze;
Quando il condannato è restituito legalmente alla libertà;
Quando monta nella vettura cellularia per recarsi ad una prigione centrale o al bagno.
Finalmente, quando è suonata l’ultima sua ora, e viene condotto al patibolo. Tranne questi tre casi, porte e muraglie sono impenetrabili. E ciò appunto osservarono i viaggiatori arrivati da Bicetre, che furono tantosto istallati nella loro nuova dimora. E vi avverto che da quell’epoca fino al 1850 cose ben strane vi succedettero.

Poscritto.

Il nostro collaboratore ci permetterà di aggiungere all’evasione da lui raccontata, un avvenimento consimile che teniamo da fonte ufficiale, e che manifesta in un forzato di Brest il più drammatico ritorno a sentimenti d’onore e di sensibilità.
È noto che venne predicata una missione al bagno di Brest. Tra i forzati, ch’ella scosse senza convertirli, vi avea un condannato in vita, temuto da tutti per l’erculea sua forza.
Alcuni giorni dopo la partenza dei missionarii, quest’uomo fuggì, malgrado l’attiva sorveglianza ond’era oggetto. Più fortunato di B . . . . , suo predecessore, si procurò degli abiti di mendicante che assicuravano la sua fuga.
Giunto di prima corsa a poche leghe da Brest, arriva allo spuntar del giorno ad una casa di contadini e vi trova tutta la famiglia in lagrime. Non ostante la desolazione comune, avo, padre, moglie e fanciulli, circondano premurosamente il povero estenuato dalla fatica e dalla fame; e senza chiedergli chi sia, d’onde venga, gli offrono cordialmente il pane che restava sulla tavola e l’ultimo bicchier di vino della cantina.
Questa toccante ospitalità comincia a destare i rimorsi del forzato. . . .
— Abimè! si dic’egli, reficiandosi, mi tratterebbero essi così se sapessero quanto poco io lo meriti?
Poi succede un vivo interesse pe’suoi ospiti.
— Quale sciagura vi affligge, e vi fa piangere in tal modo? chiese egli alla donna che raccendeva il fuoco per riscaldarlo.
I singhiozzi troncano alla povera madre le parole. Suo marito risponde per lei e racconta ch’egli e la sua famiglia sono cacciati di casa, perchè pagar non poterono, la vigilia, un affitto arretrato di quarantadue franchi.
E le lagrime ricominciano, – senza un lamento contro il rigore delle leggi.
– Dio ci punisce certamente, balbetta la vecchia avola, che sia fatta la sua volontà!
Dinanzi a cotale disastro e a si toccante rassegnazione, il forzato rientrò con orrore in sè stesso, impallidì d’ammirazione, e pianse egli pure di pietà. Il suo cuore, indurito da tanti anni, s’intenerì . . . . L’uomo rinacque in lui . . . e, più che l’uomo, il cristiano.
Dopo violenta interna lotta, sorge e dice con energia:
— Non vi occorrono che quarantadue franchi per conservare il vostro tetto, il vostro campo, i vostri stromenti da lavoro?
— Null’altro, mio Dio! risponde il capo di famiglia; tutta la nostra vita dipende da questa piccola somma; poichè se trovarla potessi oggi, mi sento la forza di riaggiustare i miei affari!
— Ebbene! L’avrete in poche ore; e son io che ve la darò!
— Voi? gridò il contadino, considerando i cenci del mendicante.
— Io ve lo ripeto!
E volgendosi ad un ragazzo di sedici anni:
— Vieni a legarmi le mani!
— Legarvi le mani! E perché?
— Per condurmi al bagno di Brest.
— Siete dunque un ladro?
— Sono un forzato in fuga. La legge accorda cinquanta franchi all’onest’uomo che mi arresterà. Quest’onest’uomo sarai tu? Legami presto e partiamo!
La famiglia fu tentata di inginocchiarsi dinanzi al forzato, piuttostochè consegnarlo alla giustizia.
Ma dichiarò che si sarebbe presentato da sé stesso, e il ragazzo obbedì.
Tre ore dopo, il temuto colosso del bagno vi rientrava, condotto da un fanciullo che avrebbe potuto schiacciare con un solo pugno.

I guardiani e il direttore, che aveano lanciata una brigata ad inseguirlo, non sapevano credere ai loro occhi.
— Come? E questo ragazzo che vi ha arrestato?
— Egli stesso! Dategli tosto i suoi cinquanta franchi.
La somma fu corrisposta e il villanello raccontò la storia.
L’indomane il racconto n’era inviato al presidente della repubblica, e il forzato pentito riceverà ben presto la nuova della sua grazia.
Un uomo che risorge in tal guisa dalla degradazione è al certo incapace di ricadervi.
E non dubitate della veracità di questo fatto, poichè, oltre alla fonte ufficiale da cui lo togliemmo, fu affermato, a questi giorni, in piena cattedra, da uno de’più illustri predicatori di Parigi.

I.

Sorveglianza civile e militare. – Prima corte. – Cucina pittoresca. – Alimenti da rivolta. – Una sommossa ed un ombrello. – Il cancello. – Archivii curiosi. – Parlatorio. – Un pezzo di castrato impostore. – Scena di lagrime. – Parlatorio di favore. – Cantina.

Alla vista di quella facciata così cupa e così severa, di quelle mura merlate, di quelle griglie di ferro, vi domanderete ciò che v’abbia nell’interno . . . . Avvicinatevi: a dritta un corpo di guardia che somministra le numerose sentinelle che vi abbiamo mostrato nei cammini di ronda, e quelle poste sì all’interno che all’esterno per proteggere la società da una sortita di taluno degli esseri inqualificabili che quel recinto rinserra. Oh! se un giorno potessero fare un’irruzione al di fuori! – Povera Parigi! – . . . . non so se saresti più in pericolo da loro che non sia da una subita e generale evasione degli abitanti del luogo che un tempo chiamavasi il Giardino del re! – Oh! tutti non sono poi bestie feroci; vi ha fra loro della buona gente . . . . qualche sciagurato tratto al delitto con inganno. Ma d’altronde socii ivi delle creature, cui l’intelligenza pervertita darebbe una forza ben terribile. – Quanta astuzia, quanta destrezza, quanta crudeltà! – Ne giudicherete voi stessi. – Entriamo . . . .

Si schiude la porta a sinistra ed eccoci nella stanza del primo carceriere. Astraendo dalla sua veste turchina e dai suoi bottoni, è un onesto portiere. Appartiene al novero di que’sorveglianti che si trovano continuamente a contatto coi detenuti, e che più di chicchessia potrebbero contribuire al loro miglioramento morale; ma . . . . ne troveremo degli altri e ritorneremo allora su questo capitolo. – Lasciamo questo nella sua stanza ed entriamo nella prima corte. A dritta è un magazzino destinato a contenere la legna da fuoco, con la quale non abbiamo a che fare per la moralizzazione dei detenuti …. A sinistra la cucina! Oh! è cosa ben diversa! Soventi volte una pietanza un po’meno o un po’troppo cucinata ha fatto fremere di collera gli abitanti del prato, ha compromessa la sicurezza personale dei sorveglianti e posta la prigione in piena rivolta. Avete curiosità di sapere come ciò avvenga?. . . .
Nel marzo 1848, la prigione si risentiva un poco dell’effervescenza ond’era riscaldata l’aria esterna; i cinquecento detenuti erano sul gran prato.
— Il pane non è cotto, disse uno di loro.
— Non è cotto ripete un altro, è pasta! – E pasta cattiva! soggiunge un terzo; lo rifiuteremo. – Dell’altro pane!… vogliono avvelenarci!
E qui da ogni parte minaccie di romper tutto, d’uccidere, di uscire. – Si fanno entrare i quindici soldati del posto con la baionetta in canna. – Non vale; il vola pane per l’aria, i clamori si fanno più minacciosi e terribili….
Chi sa come la sarebbe finita, senza un incidente che nessuno si attendeva. Entra il cappellano. – Ah! dice uno dei più furiosi, voi non venite preceduto dalle baionette.
— Perdono mio bravo, – e tosto l’ombrello del cappellano cade sul braccio sinistro e imita il movimento d’una baionetta che s’incrocia. – I detenuti sorridono. – Che diamine! camerati, cosa vi salta in capo! . . . . Una sommossa!. . . . Voi volete farvi massacrare, figli miei ! e se continuate nella insistenza, che succederà? . . . . Io non so nulla, ma ciò che so è ch’io era sul punto di ottener grazie, proroghe, commutazioni, ecc., e che quando il ministero saprà . . . . Amici miei! quelli della prima sezione, pel fianco destro . . . . Quelli della seconda pel fianco sinistro . . . . Ciascuno nella sua cella, avanti! – Non mi affliggete, figli miei!. . . .
E qui alcune strette di mano, poi, poco a poco, ciascuno va nella sua cella.

Ecco una ricetta eccellente contro queste irritazioni difficili a calmare:
Fermezza, tre gramme;
Tabacco, sia da fumo, sia da masticare, dieci chilogrammi. Mescolate tutto ad alcuni grani di scherzi, ed arresterete il corso di molte malattie morali, che fanno stragi crudeli nelle prigioni. – Ma torniamo alla cucina, che abbiam lasciata senza nemmeno entrarvi.
Vedete quella pentola gigantesca? contiene cento cinquanta chilogrammi di carne di bue, con una quantità proporzionata di legumi. Con ciò si fanno trecento litri di brodo eccellente, e la carne offre un nutrimento sano e gustoso.
Quest’altra pentola serve a cuocere un’eccellente minestra d’erbaggi, passati a tamiso, che si dà ai detenuti nei giorni di magro.
Oh! i nostri prigionieri non sono certo mal nutriti. Due volte la settimana, domenica e giovedì, alle nove del mattino, ciascuno riceve, oltre al solito chilogrammo e mezzo di buon pane per la giornata, un terzo di litro di brodo, e a tre ore, cento venticinque gramme di carne di manzo cotta e senz’ossi. Gli altri giorni egual quantità di vivande magre, e la sera un piatto di legumi, fagiuoli bianchi, riso, pomi di terra, piselli, lenti, o simili.
Quella grande casseruola contiene un nutrimento più delicato per gl’infermi e pei vecchi. Ahimè! quanti onesti artigiani si crederebbero felici se offrir potessero eguale alimento alla loro sciagurata famiglia! E la riflessione che facciamo andando alla porta del vestibolo, ed entrandovi. – A dritta il cancello. – A sinistra il parlatorio.

Il cancello. – Ivi si trovano quegli enormi in folio, che contengono le memorie per servire di elementi alla storia dell’immoralità umana. Che grossi volumi! e dire che contengono soltanto i nomi, cognomi, connotati, delitti, ed atto di registrazione di coloro che i commessi misfatti conducono in questa triste dimora. Altra volta il cancello della Roquette possedeva i titoli dell’illustre suo avo Bicetre; oggi, gli archivii curiosi di quel luogo cosi pittoresco, così storico, li troverete alla prefettura di polizia.

Dirimpetto al cancello il parlatorio. – Entrando nella prigione, il condannato lasciava dietro di sè degli esseri che gli sono affezionati. Spesso una povera moglie, onesta, virtuosa, ha veduto i suoi giorni avvelenati dalla mala condotta d’un marito, dapprima indifferente, poi dissipatore, poi immorale, poi colpevole, poi condannato; ma tutte queste fasi egli le ha percorse insensibilmente e per gradi, nè ha spenta ad un sol tratto la di lei affezione.
Quell’infelice si abituò poco a poco alla malvagia sua vita, sebbene la deplorasse, sebbene provasse le più crudeli torture morali. – Ella lo ama ancora; è il padre della sua povera bambina che adora con tanta tenerezza. – E ha bisogno di vederlo ancora, di consolarlo. – E ottiene l’autorizzazione di trattenersi un momento con lui. – A ciò è necessario un luogo apposito; ed è questo luogo che si chiama il parlatorio. È diviso in tre parti, presso a poco eguali; una pei detenuti, serrata da una griglia di ferro; l’altra pegli ammessi alla visita egualmente separata da un’altra griglia. La parte che sta fra le due griglie, è occupata da sorveglianti, che veggono tutto, tutto odono, e sono incaricati di trasmettere dopo la visita ai prigionieri, ciò che loro è permesso di ricevere dai parenti od amici, alimenti, libri, vestiti, ecc.
Questa presenza continua del sorvegliante, questa conversazione attraverso due griglie, quest’investigazione della parola e del gesto, potranno certamente parer dure, severe troppo; ma quando si saprà che necessarie le rese l’esperienza di tante astuzie criminose adoperate, sia per commettere un delitto, un suicidio od altro, sia per un’evasione, allora cesserà la sorpresa.

Sì, è succeduto che una coscia di castrato servì all’introduzione d’un pugnale, d’una sega d’acciajo, di corde; che con questi mezzi sono state sfondate delle porte di celle, segate delle spranghe di ferro e che i sorveglianti hanno dovuto la vita soltanto ad una pronta difesa. Non bisogna dunque sì di leggeri far i filantropi e censurare i regolamenti delle case di forza,

Tuttavolta, ben possiamo donare una lagrima alla sorte infelice di quella povera donna, che tiene fra le braccia la sua graziosa bambina. — Vorrebbe questa abbracciar il padre sue che vede a due metri di distanza, attraverso due griglie, e gli stende le piccole braccia, e grida. — Egli appena può udirla; venti conversazioni che s’incrociano, soffocano la debole sua voce, ed ivi si è ridotti a farsi comprendere a segni. — E quanto sono espressivi quelli della povera madre! — Quali teneri rimproveri sono tradotti dal suo sguardo! Quale eloquenza in quelle lagrime amare, che scorrono più abbondanti alle parole della bambina: Perchè piangi, mamma, non siamo forse col papà? — Questa scena produce talora buon effetto sul colpevole. — Uno di loro diceva: Non avrei immaginato che il mio fallo avrebbe sì gravi conseguenze; quanto soffro al veder soffrire mia moglie e la mia piccola figlia! Oh! lo giuro, la mia condotta futura riparerà i falli trascorsi.

Per addolcire la severità dei regolamenti, l’autorità accorda talora, per eccezione, a qualche prigioniero che si distingua con la sua buona condotta, il parlatorio del cancello. Ivi almeno può conversare col padre, con la sorella, con la moglie, co’figli, se non senza testimoni, almeno più davvicino; può stringerne la mano, averne anche forse un bacio.
In questo parlatorio di favore, che precede immediatamente l’ingresso al gran prato, i prigionieri di nuovo arrivati; cambiano di vestiario e prendono il costume della casa. Questa regola è ben umiliante, ben degradante per l’uomo che abbia ricevuto i benefizii dell’educazione, che abbia avuto nel mondo, come suol dirsi, una certa posizione. Sembra che, lasciando i suoi abiti, ad ognuno che gli si toglie veder debba il suo onore, la sua dignità cadere a brani. Questo assoluto denudamento, debb’essere per lui l’immagine della stima altrui e del buon nome che l’hanno abbandonato. — Le vesti che prende hanno servito . . . a chi? forse a un assassino! . . . . O uomo! se prima d’esser colpevole avessi conosciuti i dettagli d’una prigione, non lo saresti stato giammai; non ne avresti fatta certamente la triste esperienza.

Dirimpetto al luogo di cui parliamo è la cantina, specie di ristorante legale, ove una lista ufficiale fissa i prezzi degli oggetti di consumo.
Là pure si manifesta l’influenza dell’aristocrazia del denaro.
E là che a certe ore si comprano il pan bianco, le salsiccie, e soprattutto il tabacco. In prigione se ne consuma di questo abbondantemente e in tutte le maniere; lo si annasa, lo si fuma, lo si mastica; un prigioniero senza tabacco è uno sventurato senza consolazioni.
Il costume della cantina sembra stabilire un’ineguaglianza nella pena, una sproporzione nella condizione dei detenuti, mentre chi ha denaro può procacciarsi un ben essere, di cui va privo chi non ne ha; ma quest’addolcimento della vita di prigione può tuttavolta esercitare una felice influenza morale, poichè stimola l’ardore pel lavoro, il cui prodotto in parte ai detenuti s’aspetta.

I luoghi fin qui percorsi non sono, per dir così, che i vestiboli della prigione propriamente detta. Varchiamo dunque la soglia d’un’enorme porta di ferro, le cui sbarre sono mascherate da una seconda solidamente costruita di legno di quercia, e ci troveremo nel gran prato, vasto quadrilatero, formato dall’edifizio, in cui fummo, dalla cappella che gli è paralella e dalle officine poste ai due lati, sopra delle quali sono le celle e i vasti corridoi che vi conducono.

II.

Colpo d’occhio generale. – L’alta e bassa pegre. – Il sourineur. – Una tigre a forme umane. – L’escarpe. – L’ipocrita. – Il devoto di santa Filomena. – L’uomo che ha due padrini. – Speculatori e speculati. – Un falso padre. – Il Fourline (borsaiolo). – Un pentito. – Sua storia. – Lo scrivano pubblico. – L’infermeria. – Presagio d’un gran delitto.

Ecco il solo sito in cui si veggono riuniti tutti insieme, senza categorie obbligate, senza divisione legale, tutti questi uomini, che la società ha rigettato dal suo seno, e che per istrade differenti son venuti ad urtarsi, ad affollarsi qui, come le acque dei diversi fiumi che si uniscono e si confondono nello stesso oceano.
Sono cinquecento, ed aggiransi intorno alla fontana posta nel centro del circolo che descrivono col loro pittoresco passeggio.
Due volte per giorno i condannati godono di un riposo fisico spesso ben funesto al loro benessere morale. – È sul gran prato, nelle loro circolari passeggiate, che discorrono più liberamente dei delitti commessi o di quelli che stanno meditando; è là chè comunicansi a bell’agio il veleno della più infame depravazione.
Impossibile formarsi un’idea del cinismo dei loro discorsi. Che orribile frasario! che mescolanza ributtante.
Sono ivi degli uomini così degradati, che nulla più lor rimane a perdere di libertà, d’onore, poichè sono stati condannati in vita, sono stati avvinti al palo dell’ignominia. Un vile interesse, l’infame desiderio di aver più complici, gli ha resi apostoli, apologisti del delitto, propagatori di tutte le idee le più assurde, le più feroci, le più opposte alla felicità dell’individuo, della famiglia, della società.
— E non di meno, tra que’grandi colpevoli, bisogna dirlo, si trovano degli uomini condannati soltanto ad un anno di prigione, per un mancamento derivato da un impeto di collera, che non lasciava all’intelligenza il tempo di giudicare del valore morale d’un’azione; degli uomini, i quali sino allora avevano vissuto onorevolmente in mezzo alla società; delle giovani menti di diciott’anni, colpevoli, è vero, ma ancora accessibili al sentimento del buono e dell’onesto, suscettibili ancora di ricevere le migliori impressioni della virtù.
— E bisogna pur dire che vi si trovano degl’innocenti, vittime infelici degli errori della giustizia umana; ben rari, è vero, ma peraltro certi ai nostri occhi.
— Ecco il miserando assembramento che si aggira sul gran prato e che nello stile di prigione si chiama la pegre. La pegre si divide in due generi, alta e bassa. Al primo genere appartengono i gran malfattori, al secondo i meno colpevoli e i ladri malaccorti. Questi due generi si suddividono in ispecialità designati coi nomi singolari di surineurs, d’escarpes, di carroubleurs, di fourline, di correur, di grinche e di fourgue (1).

Venite, vi mostreremo dei tipi di tutti questi generi. Fortunatamente non vedrete un gran numero di sourineurs, così chiamati dalla parola surin, che nel linguaggio degli assassini significa coltello. Il sourineur prima uccide, poi ruba. Attende con sangue freddo la sua vittima, l’atterra senza pietà, poi la svaligia, la fruga, la spoglia a suo bell’agio. Ve ne mostreremo alcuni nelle segrete dei condannati a morte; ma intanto . . . . vedete là quell’uomo livido, dai lineamenti acuti, dallo sguardo sinistro, che si tiene in piedi presso il muro? La sua testa va e viene come quella della jena nella gabbia . . . . . Sapete ciò che spia in tal modo da ogni parte? Egli cerca dei detenuti alle prese; e quando ha la fortuna di scorgerne due che si querelino, che si battano, allora balza dal suo posto, corre verso di loro, si getta sul più debole e con un sorriso diabolico, lo colpisce, l’ucciderebbe se non lo si togliesse al suo furore. Occorrono tre uomini per trascinarlo alla segreta, e vi și reca gridando: Che peccato! io stava per demolirlo (storico). È il tipo della crudeltà.
Nella segreta, una di queste bestie feroci diceva al cappellano che l’esortava alla pazienza e che, vedendo che i suoi gesti convulsivi, gli domandava: Che avete, amico mio? – Allontanatevi! Ho del rispetto per voi; ebbene! Sento non pertanto che potrei farvi del male. – Quale natura!

(1) Abbiamo dovuto conservare questi nomi francesi, perché intraducibili . D’altronde nella descrizione delle singole individualità viene successivamente detta la spiegazione dei medesimi.

L’escarpe vuole dapprima appropriarsi la borsa; comincia più politamente e la domanda; poi tenta di toglierla a viva forza; ma se l’assalito oppone resistenza, se si difende, allora l’uccide. Si è veduto alla Roquette il capo d’una banda di costoro, Fourier, giustiziato alcuni anni sono. Quando lor si domandava cosa facessero delle loro vittime, rispondevano con un crudele sangue freddo: Le posavamo nel canale.
Si crederebbe che appunto in questa categoria d’uomini abbominevoli, si manifesta più di frequente il vizio vergognoso dell’ipocrisia?

Vedete quell’uomo che si avvicina al cappellano, con la testa modestamente piegata; i suoi sguardi sono rivolti obbliquamente al terreno; con una mano tiene il berretto, con l’altra, dappoichè la falsità ha d’uopo di nascondersi sotto un’apparenza d’imbarazzo, torce in tutti i sensi il fiocco del medesimo; e dice con voce meliflua:
— Signore! . . .
— Che volete, mio caro?
— Potreste voi procurarmi il libro di santa Filomena?
— Come? Il libro di santa Filomena?
— Mia madre mi ha raccomandato di aver sempre una grande divozione per questa santa, e vorrei leggerne la vita.
— Non è questo che voi volete da me; parlatemi senza rigiri; sapete che con me bisogna esser franchi . . . .
— Oh! signore; la nostra santa religione . . . .
— Basta, basta, vi conosco . . . . la devozione a santa Filomena è una cosa buona, ma prima d’avere questi dettagli di pietà, bisogna esser cristiano, uomo; e voi non siete nè l’uno nè l’altro.
Fa d’uopo dapprima costruire l’edifizio della nostra morale, e solo dappoi lo adorneremo col candore e con le altre virtù di santa Filomena. Vediamo; questo non è il nostro portamento abituale; . . . sollevate lo sguardo . . . . guardatemi in faccia . . . . che la vostra voce si animi, e ditemi francamente ciò che volete.
Egli era smascherato; e un cambiamento totale manifestossi in lui; e articolò con forza queste parole:
— Potreste evitarmi l’andata alla centrale? si dice siate voi che avete ottenuto la grazia di Daniele, il condannato a morte?
— Alla buon’ora; adesso c’intendiamo . . . . pentitevi dei vostri delitti, siate sincero e venite a parlarmi da qui a qualche giorno.
Un altro verrà a domandare di esser battezzato. A suo dire è Israelita; ma le informazioni fanno invece conoscere che si è fatto già ribattezzare in tal modo due altre volte, locchè gli procurava due padrini e due matrine, i quali si sono fatti suoi protettori in diversi luoghi e gli hanno dato del denaro; ch’egli ama assai più dei loro consigli e dell’acqua del battesimo.
Fra quest’ipocriti, collocar puossi un certo genere di prigionieri, cui daremo il nome di speculatori.
Han essi di già rappresentata questa parte nel seno della società, e più d’un povero idiota subiva una condanna per aver aiutato questi uomini scaltri a commettere un delitto, di cui il solo speculatore ha approfittato; e se alla fine fu preso e condannato, continua ad esercitare i suoi talenti nel luogo in cui subisce la pena.

Un povero giovane avea raccontato a tutti sul gran prato, che suo padre aveva abbandonato la famiglia quand’egli era ancor bambino, e che quindi non l’aveva mai conosciuto.
Fu questo un raggio di luce per uno degli speculatori di cui parliamo. Aveva egli un appetito straordinario, la sua razione di pane non gli bastava mai. Va dunque a trovare il giovane imbecille e gli dice:
« Quindici anni fa ebbi la sventura di commettere un latrocinio; fui preso e condannato a cinqu’anni di prigione; ma pervenni a fuggire. Io dimorava a Tours quando commisi questo delitto…
— To’! io pure sono di Tours!
— Mia moglie restò nella casa che abitavamo presso la chiesa di San Francesco.
È là che dimore mia madre.
— Giovanna Lareau.?
È il suo nome.
— Oh! caro ragazzo, tu sei mio figlio!
— Come! siete voi che siete mio padre?
— Si; fui colto di nuovo or ha un mese; e sono qui ben infelice; la fame mi divora, non ho di che andare alla cantina.
— Povero padre! avrò cura di voi.
E da quel giorno quel povero ingannato divideva col preteso suo padre, il suo pane, la sua carne, i suoi fagiuoli, e gli altri commestibili, finchè i sorveglianti che ben conoscevano la genealogia di quel furbo, gli fecero infliggere una pena disciplinare per punirlo della sua trufferia.

Nell’alta pegre bisogna mettere un altro genere di ma fattori, chiamato lo sforza porte, il ladro con rottura (carroubleur).
La sua specialità consiste nello scegliere tale o tal altra abitazione di persona facoltosa, nel prendere esatta conoscenza dei luoghi, e, dopo d’aver maturato un progetto di furto per interi mesi, nel metterlo ad esecuzione con un’abilità straordinaria. Questo genere di furto è stato portato alla più alta perfezione dai ladri che, alcuni anni sono, hanno esercitata la loro destrezza in tutto il sobborgo San Germano.
La loro condotta si appoggia ad una teoria, sviluppata nel seguente modo da uno di loro, con una sfacciataggine incredibile.
« Io ho in orrore il sangue, diceva egli; la morte d’un uomo è
» a’miei occhi il più nero dei delitti. Ma rubare è ben altra cosa;
» ciò che si prende a proprio rischio e pericolo, è proprietà del
» pubblico; tanto peggio per colui che non sa custodire il suo….
» Ecco la mia morale; chi non ne vuol sapere la lasci; in quanto
» a me, ne uso. »
Chi non crederebbe, all’udirlo, che quest’uomo non sia il seguace d’una scuola, i cui discepoli non temono di parlare ad alta voce ed in pubblico, com’egli parla bassamente e sotto i catenacci?

Vedete sul prato quel piccolo mariuolo ancor giovane. Ei passa rapidamente da un luogo all’altro; il suo sguardo è vivace, facili i gesti; la mano si muove destramente in tutti i sensi. Cerchiamo di arrestarlo nella rapida sua corsa. E un fourline (borsaiuolo).
— Giovinotto, una parola?
— Che volete?
— Avete un sì bell’aspetto, un portamento sì grazioso, che reca sorpresa vedervi qui. Come ci veniste?
— Ah! ve lo dirò . . . . Io sono di quelli che frugano nelle saccoccie, che fanno sparire gli orologi, i fazzoletti di seta, che sollevano di qualche peso i passanti, gli allocchi . . . . Noi travagliamo sui bastioni, sulla porta dell’opera, nel palazzo reale . . . . nazionale . . . . . scusate, è abitudine nell’orto botanico, nei campi elisi, nelle chiese, ecc.
La sua parola era viva e presta come la mano. Lo lascieremo raccontare a suo modo la disavventura che lo condusse in prigione.

— Un giovedì, era una bellissima giornata di giugno, si lanciava per aria un pallone all’Ippodromo. Tutti gli sguardi erano rivolti al cielo, o piuttosto al pallone; la metà delle mani indicava la sua corsa, e per conseguenza poche ve n’erano nelle saccoccie. Buono! dissi tra me; vi ha folla; bisogna avvicinarsi; ciò viene molto a proposito poichè sono a secco. Mi avvicino e travaglio con molta fortuna; era già arrivato al terzo fazzoletto di seta, e mentre stava frugando in una saccoccia per avere il quarto, una guardia mi afferra, mi cattura e mi mette al coperto; il meg (giudice) mi regala due anni, ed eccomi qui…
Ma c’è la sua parte comica in questo avvenimento; voi sapete che, secondo il proverbio, quando un ladro ruba ad un altro ladro, il diavolo ne ride; ebbene! sembra che quella guardia non fosse punto il diavolo, poichè prese la cosa sul serio, mentre se lo fosse stato avrebbe dovuto ridere, poichè il secondo fazzoletto apparteneva ad un borsaiuolo più fino di me, il quale si era attribuiti tre orologi e due borse, mentr’io gli faceva sparire il fazzoletto . . . Tenete! eccolo là in fondo . . . domandate a lui, se non è vero; e prova ne sia che quando mi vide il suo fazzoletto al collo me l’ha ripescato, dopochè siamo tutti due in gabbia, –

Ecco il tipo del fourline: ed è raro che la prigione lo corregga, poichè in questa classe trovasi il maggior numero di recidivi.
Il fourgue (manutengolo) è l’uomo necessario ai ladri, il protettore di tutti que’birbanti; egli acquista a prezzo vile gli oggetti rubati, li snatura, ne riempie i suoi magazzini, e li rivende poscia con le più minuziose precauzioni. Utile ai ladri, è peraltro da loro detestato, perchè non vuol mai dar loro il prezzo che desiderano, e perchè specula sulla pericolosa lor posizione.
Tra tutti que’passeggianti del gran prato, così vili, così spregievoli, così degradati, vi sono tuttavolta alcune buone nature, alcuni infelici più degni di compassione che di censura. Avviciniamoci a quell’uomo triste e pensieroso che tiene un libro ed è assiso sul margine della fontana.
— Che leggete di bello, amico mio?
— Florian.
— Questa lettura vi trattiene, vi fa bene.
— Non so . . . la novella di Cardenio mi ha rammentata la mia sciagura; cupi pensieri hanno rattristata la mia anima.
Una carta scritta col toccalapis, cade dal libro.
— Ah! scrivete anche?
— Sì, sono come Cardenio, io pure avea dei progetti di suicidio. Per distrarmi ho tracciato queste due righe, pensando a mia moglie e alla mi povera bambina.
— Mi permette di leggere?
— Ben di buon grado.
— «Oppresso dal suo dolore, Cardenio voleva morire; ma Dio, nella sua misericordia ha posto un termine alla sua miseria, e gli ridonò la felicità e la gioia. – Il suo esempio ti rassicuri quando stai per cedere alla tentazione del suicidio. – La morte è irreparabile. – Ed è si dolce cosa, nella natura, esser due e vivere ancora…. Quando la provvidenza mi avrà ricondotto nelle tue braccia, obbliar potremo nel reciproco amplesso le passate sventure. – E sarem lieti di non aver soggiacciuto al dolore, di aver resistito alle lusinghe della morte. – E vivremo per la nostra figlia, di null’altro occupandoci d’accordo che della sua felicità. – E Dio benedirà la nostra famiglia, e . . . Ma per far questo bisogna vivere.»

— Brav’uomo, voi sembrate buon marito, buon padre; che mai ha potuto condurvi in questo triste soggiorno?
— La crudeltà del marito di mia madre, e più ancora una fatale ambizione. A otto anni perdetti il padre, e qual tenero padre! Mia madre sposavasi ad uomo ricco, che per me non ebbe mai alcuna affezione. Dieci anni dopo, io aveva un fratello, unico oggetto della sua tenerezza: egli andava al collegio, era ben vestito, accarezzato; io era posto come garzone presso un muratore, il quale mi attaccava alla sua carruola per trascinare del cemento e gli stromenti del suo mestiere.
Io soccombeva alla pena ed alla fatica. Un sentimento di pietà più che di paterno amore lo determinò a cangiare la mia posizione, e divenni incisore . . . Ma mio fratello era ricco; aveva carrozza e cavalli; io aveva sposata una donna eccellente, un angelo; il cielo mi aveva concessa una graziosa bambina, e avrei potuto esser felice coi 10 franchi per giorno che mi dava la mia professione, se la gelosia non mi avesse mostrato mio fratello in una posizione che mi avviliva. Volli divenir ricco io pure; la mia industria me ne offri sventuratamente facile mezzo; fabbricai per 60,000 franchi di moneta falsa; ma il delitto non si confaceva col mio carattere, e fui scoperto. Allora confessai tutto, mio Dio, tutto consegnai, e denaro e istromenti di fabbricazione . . . Mi sono pentito; la mia pena di vent’anni di lavori forzati è stata commutata . . . Io soffro ; ma spero. Pregate per me.

In mezzo a quel gruppo, in atto d’ascoltare con interesse, vedete quell’oratore che declama, ad alta voce e intelligibile, dandosi un’aria d’importanza? E lo scrivano pubblico della prigione; lo potete riconoscere dalla penna che porta sull’orecchio. Queste funzioni sono disimpegnate alternativamente da finanzieri, da istitutori, da falliti fraudolenti; ma non è raro veder il posto di questi dotti usurpato da uomini che s’immaginino basti mettere una penna sull’orecchio per avere dello spirito; e allora le corrispondenze, le petizioni, divengano monumenti curiosi, produzioni grottesche, di cui vi daressimo volentieri qualche saggio; se non temessimo d’essere indiscreti.

Gettate un ultimo sguardo su quel triste assembramento del gran prato; deplorate la sorte di quegli sciagurati infetti dalla lebbra del vizio. La loro malattia morale non gli esenta dai mali fisici che affliggono l’umanità; e la prigione ha quindi delle sale d’infermeria che ora andremo a visitare.

Queste sale sono vaste, spaziose, ventilate, e ben riscaldate nell’inverno. Il medico della casa vi fa una visita giornaliera, e i condannati che più si sono distinti con la loro buona condotta, sostengono l’incarico d’infermieri.


Il viatico all’infermeria della Roquette.

Una grave malattia moralizza più presto il più profondo scellerato, che nol facciano dieci anni di bagno, i più saggi consigli, gli sforzi più assidui delle persone incaricate di prestare le loro cure ai detenuti.
Infatti, dacchè quegli uomini si veggono abbandonati alle loro proprie forze, accolgono con avidità la parola della religione che li fortifica; si manifesta in essi un salutare cambiamento; ridivengano cristiani, cattolici e domandano spontaneamente di essere iniziati ai dettagli della pietà. È allora che il santo ministero esercita una vera influenza.

Spettacolo ben commovente è quello che offre una delle sale dell’infermeria dei condannati, quando uno di loro ha meritato il favore di nutrirsi del pane dei forti, dell’augusto viatico, con l’assistenza del quale intraprende il gran viaggio delle eterne regioni. Havvi qualche cosa d’imponente, di solenne in quel profondo silenzio, non interrotto che dal romore dei catenacci, delle serrature, delle porte, che si aprono dinanzi al Dio, morto fra due condannati . . . il Salvatore di tutti i colpevoli che viene a recar soccorso, assistenza, protezione a un miserabile pentito, che la giustizia umana colpiva.

Tutti quegli sfortunati sono vivamente commossi; e sotto le influenze della fede, onde sono impressionati in tale circostanza, quelli, cui bastano le forze, si levano spontaneamente, si gettano in ginocchio, e, la testa appoggiata sul letto di dolore, sembrano sotto l’impero d’una vivissima emozione. Quelli, cui la debolezza ha quasi paralizzate le membra, sollevano la mano tremante, si scoprono il capo con rispetto, ascoltano attentamente la parola di pace e di consolazione rivolta al moribondo, e rispondono insieme alla voce del sacerdote che lor domanda per lui una preghiera.
Da sette anni, non un solo dei condannati ricusava il soccorso della religione in quel supremo momento, e molti morivano animati da sentimenti di viva fede, di toccante pietà.

La prigione destinata a racchiudere i grandi colpevoli fu talvolta il teatro di delitti più atroci di quelli commessi all’esterno. L’infermeria è stata, or ha qualche tempo, testimonio d’un dramma orribile, che appena osiamo raccontare, ma che pur racconteremo, affine di mostrare fin dove giunger possa la perversità dell’uomo che ha abbandonato il cammino dell’onore e della virtù, affine di provare quanto sien gravi i mali cagionati dall’assenza d’ogni sentimento religioso, e d’insegnare altresì che la reminiscenza d’una lettura pericolosa può ispirare dettagli di crudeltà che fanno orrore.

III.

Scena notturna nell’infermeria. – Una imitazione dei misteri di Parigi. – Assassinio. – Un appiccato. – Un buon padre malato di affanno. – Una musa cambiata in infermiere. – Pensieri filosofici di un tisico. – Un malato di buon umore. – Suoi presentimenti. – Sua morte. – Sala dei vecchi. – Sala dei suonatori. – Le celle. – Il poeta misantropo. – Un lupo cambiato in agnello. – Le segrete. – Una tigre. – Le officine. – Il fabbro che piange sul ferro arroventato. – Ancora il buon padre.

L’infermeria è l’arena, il campo di battaglia tra la scienza e il mal fisico. Si prendono ivi corpo a corpo; talvolta la scienza trionfa; più sovente la malattia riporta vittoria e sua figlia, la morte, le decreta la corona. E pure il teatro della lotta tra il zelo del moralista e il mal morale. La forza fisica che se ne va, lascia più libero l’accesso ai buoni consigli; le illusioni che svaniscono con l’energia vitale, aprono il passo alla verità; e la luce sorviene e soventi volte il colpevole che ci vede più chiaro, diviene pentito . . . Il suo dolore e i suoi rimorsi lo sottraggono ai pericoli di un tremendo avvenire. Tuttavolta vi sono delle orribili eccezioni . . . . Bisogna farle conoscere, e abbiam già detto perchè. Venite.

Vedete quell’uomo pallido e scarno . . ? I suoi lineamenti si contraggono come quelli d’un moribondo; gli occhi infossati nella loro orbita, il mortale pallore, l’affannosa respirazione, tutto manifesta un tisico polmonare, all’ultimo periodo di questa terribile malattia. Ebbene! Questo miserabile, la notte trascorsa, ha occupato un’ora ad aguzzare la punta ricurva d’un istromento destinato a lavori di tappezzeria . . . E si è alzato . . . e al debole chiarore della lampada, appoggiandosi ad ogni mobile, vacillando ad ogni passo, è giunto presso quel letto che vedete là nel fondo della sala a ridosso del muro.
Ivi dormiva l’infermiere, detenuto di buona condotta.
Quello spettro ambulante porta la disseccata sua mano sul di lui volto. – Grido orribile. – Secondo colpo. – I prigionieri si svegliano, girando lo sguardo inquieto . . . il colpevole solo è in piedi, e ritorna al suo letto e si ricorica dicendo: sono riuscito.

Ecco il mostro che avete sotto gli occhi. Avviciniamoci. Ha gli occhi semiaperti e getta uno sguardo obbliquo sul cappellano.
— Io non voleva ucciderlo.
— E questi colpi di stiletto?
— Per cavargli gli occhi. E poi non gliene ho cavato che uno. Si è mosso al primo colpo, ed al secondo non ho mirato giusto.
— Carnefice! Tu hai letto Eugenio Sue; ma tu non avevi a fare col maestro di scuola.
— Era un tiranno . . . l’infermiere. Jeri mi ha fatto attendere più d’un quarto d’ora prima di venire a medicarmi il vescicante.
— Dio attende te stesso, scellerato. T’inspiri egli il pentimento. Ascoltalo… verrò stassera a vederti.


Un condannato che pianta un chiodo negli occhi di un infermiere.

Due giorni dopo, un denso fumo usciva dalle finestre d’una sala in cui era stato rinchiuso questo mostro. Si corre, si sfonda la porta . . . Egli aveva ammonticchiati i paglioni e vi aveva posto il fuoco, tentando così d’incendiare la casa.
Lo si pone in una delle secrete destinate ai condannati a morte: gli si mette la camiciuola di forza. -Sembra allora sommesso, pentito; ma ad ingannar non giunge l’occhio esercitato del cappellano, che raccomanda ai custodi di non fidarsi.
Egli avea detto: Ne voglio uccider due prima di morire.
Un mattino si trovò appeso alle spranghe di ferro della segreta, nella quale era stato rinchiuso l’ultimo condannato a morte, un cadavere freddo e inanimato; era quello dell’assassino. La sua magrezza gli avea permesso di levarsi la camiciuola di forza; si era servito della corda legata intorno ai suoi fianchi e si era inflitta da sè stesso la pena riservata all’omicida. Possa egli, nelle ultime lotte contro la morte, aver invocata l’infinita misericordia di Dio!
La sua povera vittima moriva, due mesi dopo, dalle conseguenze delle sue ferite.
Ed ecco i risultamenti della lettura di ciò che si chiama oggidì Romanzi… scene di costumi (1).

Una seconda visita all’infermeria offrirà un quadro più aggradevole ai nostri sguardi. Vedete, là, precisamente in faccia del letto, un dì occupato dal mostro, quell’uomo che piange?… egli è ammalato di affanno. – Venitegli presso.
— Buon giorno, signor cappellano. Ebbene, l’avete trovata ?
— Non ancora.
— Mio Dio! povera bambina! non potrò dunque più rivederti! . . . Ella è forse morta, signore! voi non volete dirmelo.
— Perchè non lo credo, mio caro. Dopo la vostra condanna, la vostra piccola figlia priva della madre è stata collocata nel deposito degli orfanelli, poi mandata a balia. Ho fatto, secondo i vostri desiderii, molte indagini per sapere ove sia, ma sinora le mie corse sono state infruttuose.
— Quanto soffro! Eppure, voi lo sapete signore, alcuni caratteri di tipografia, portati in mia casa dal mio piccolo garzone, mi hanno fatto creder colpevole del latrocinio commesso alla tipografia medesima, e sono stato crudelmente condannato a un anno di prigione; mi si tolse la mia bambina. Pietà di me, signor cappellano!
— Coraggio, amico. Il figlio di Dio ha subita egli pure un’ingiusta condanna. A rivederci fra breve.
Troveremo di nuovo quest’uomo all’officina e allora saprete la sua storia.

Eccoci ora presso la finestra che s’apre sul piccolo giardino. Quel giovane che vi si appoggia soffre d’una malattia di petto; jer l’altro ricevette gli ultimi conforti della religione; ora sta un po’meglio. Parliamogli.
— Il bel tempo vi rianima, mio caro, e la vista del giardino vi rallegra.
— Non molto; le piante si rivestono di verdura e germogliano ed io men vado! . . . I fiori sbucciano; cadranno è vero, ma-

(1) Non vediamo, a dir vero in qual modo la scena dei Misteri di Parigi, cui allude, censurando, l’autore di questa descrizione, possa suggerire un fatto cosi atroce. Rodolfo, accecando il maestro di scuola, non commette un atto di vendetta, bensì uno di giustizia, ne da quindi esempio perverso. Qualunque esser possano i difetti del celebre libro di Sue, nessuno al certo potrà accusarlo d’essere scuola di delitto. D’altronde, se il narrare atroci fatti dir si potesse cosa immorale, locchè non è, questi stessi articoli sulla Roquette più d’uno ne narrano.

-la natura non muore, s’addormenta, per ridestarsi più bella e vestita a festa; ed io!…
— E voi?. . . che vi ho io detto due giorni fa?
— Oh! è vero, creder non debbo a una morte completa . . . La morte, con l’agghiacciato suo alito non soffia sull’anima, non l’estingue come il vento estingue la lampada; ella non ha diritti che su ciò che alla terra appartiene e stringer non può, per soffocare, con le scarne sue braccia, ciò che viene dal cielo!
— E l’anima ne viene, non è vero?
— Sì; ma quando io non sarò più sulla terra, voi consolerete mia madre e mia sorella . . .
— Vi sorprenderete di udire questo linguaggio in una prigione; ma ve l’ho detto, l’infermeria cambia il condannato.
Ma non la lascieremo senza ch’io v’abbia raccontata una scena che rallegrerà un poco questo cupo quadro.
La scienza ne trarrà forse qualche profitto, e la filosofia vi troverà un altro fatto da aggiungere a tutti quelli che sono stati detti sui presentimenti.
Circa quattr’anni sono, in quel letto che vedete là a dritta e che porta il n.° 16, giaceva un povero prigioniero, non molto colpevole. Ora stava male, ora meglio, subendo tutte le influenze di una malattia cronica. Il suo carattere gaio, amabile gli conciliava l’amicizia di tutti i suoi compagni di sventura. Egli andava di letto in letto lanciando qua uno scherzo, là un frizzo; faceva ridere e lo si amava. Egli solo co’suoi motti, con le sue novelle, aveva la potenza di rasserenare la fronte severa del padre Leonardo . . . un vecchio della vecchia . . . prigione di Bicetre, sorvegliante e cameriere dell’infermeria. Era il rallegratore di quell’infausto luogo. Da qualche tempo aveva spessi colloqui col cappellano, ch’egli chiamava il ministro dell’interno.
Una sera che sembrava più in vena del solito, interrompe ad un tratto la conversazione e dice in tuono molto singolare: Amici miei, io credo che farò vela ben presto; bisogna ch’io faccia il mio testamento.
— Non ischerziamo con questi argomenti, disse uno degl’interlocutori.
— Padre Leonardo, mandate a cercare il cappellano; bisogna ch’ei segni il mio passaporto; sono deciso a partire.
— A monte questi scherzi, o la finisce male . . .
— Giorgio, ti dono la mia cravatta turchina; Piede nero, tu prenderai le mie pantofole. Padre Leonardo, fate dunque venire il cappellano.
— Se non la terminate, vi faccio mettere all’ombra.
— Ebbene! Ed io vi dono la mia pipa, e vado a coricarmi.
Si mise a letto: ciascuno crede che scherzi . . .
— Non volete chiamarmi il cappellano?. . . Ebbene, farò i miei affari da me solo.
Prende il suo libro, recita alcune preghiere . . . Un’ora trascorre, nè più lo si ode . . . Si avvicinano . . . era morto.
L’indomani il cappellano se ne lagnò; ma tutti erano stati indotti in errore dal tuono e dalle maniere di quel pover’uomo.

Traversiamo rapidamente la sala dei vecchi . . . In qualunque altro luogo la vista dei capelli canuti inspira rispetto; qui appena la pietà. La più parte di questi miserabili ha invecchiato nel delitto, ed è dopo d’aver trascinata la loro esistenza di prigione in prigione, dopo d’aver passati lunghi anni ai bagni, che nuovi delitti gli hanno condotti in questo luogo.
Se sono separati dagli altri detenuti, è solamente perchè i più si manifestarono come abilissimi professori di delitto.
Contigua alla loro è la sala dei separati, che in istile di prigione si chiamano i suonatori. Nel dizionario delle carceri suonare significa denunciare, rivelare. Se uno di codesti suonatori comparisse un istante sul gran prato, subirebbe probabilmente la stessa sorte, che avrebbe a temere uno sfortunato cadendo nella fossa degli orsi al giardino botanico.
È per questo che tutti i delatori si tengono a parte. Essi non valgono più degli altri. Non è lo zelo pegl’interessi della società che li ha determinati a far conoscere i loro complici, ma solamente la speranza di diminuirsi la pena, e, soventi volte, anche uno spirito di vendetta. Pure, bisogna confessarlo, che col favorire un poco i delatori, si ottenne di rendere più rare le riunioni e le bande associate pel delitto.

Avvi alla Roquette un’altra specie di separati: son quelli che vivono abitualmente nelle lor celle; poichè tutti non sono soggetti al sistema cellulario, come si crederebbe leggendo le descrizioni delle prigioni, i Conduttori dello straniero in Parigi, e altre opere che fabbricano novelle! noi fabbrichiamo della storia. La Roquette non è una prigione cellularia; il sistema d’isolamento non è osservato che durante la notte; di giorno, tutti vivono in comune, eccetto quelli che chiamiamo separati che ora insieme visiteremo.

La cella è un rettangolo parallelogramo, lungo 3 metri e largo 1 metro, 80 cent. Una finestra, munita d’enormi spranghe di ferro, permette il passaggio dell’aria e interdice la uscita del prigioniero. La sua lettiera di ferro contiene un materasso, un lenzuolo ed una coperta. Entriamo in questa e vi troveremo un poeta. Alcuni peccatucci contro il regolamento della prigione e il suo gusto particolare lo ritengono nell’isolamento. E un’immaginazione bollente, un giovane pieno d’ardore, più colpevole per la perversità dei sentimenti che l’animavano quando qui venne, che nol sia pel piccolo furto, in causa del quale fu condannato ad un anno di prigione. Infatti, sarebbe difficile trovare un odio più profondo per la società, maggior ferocia, più forte desiderio di crudele vendetta, che non si scorga nei versi creati dalla sua musa allorchè giunse in prigione.
Ne giudicherete… Entriamo.
— Buon giorno, Francesco.
— Quanto mi è grato vedervi, signore.
— Avete un aspetto molto agitato . . . Eravate salito sul Pegaso?
— E andava di galoppo . . . Stava traducendo un salmo; poiché voi avete santificata la mia musa, sì empia sì immorale. Udite, vi leggerò . . .
— Oh! Non adesso, leggeteci prima i versi che mi avete indirizzati la prima volta; i versi del giorno di san Matteo.
— Ah! Volete farmi espiare i miei falli . . . me la merito questa umiliazione, e mi vi sottometto . . . Eccoli questi versi; leggeteli voi stesso, poichè io non ne ho il coraggio.

– Vorrei abbandonare il sentiero su cui mi trovo,
– Per lodare Jehovah, quegli che dice: Io sono;
– Ma il precetto santo di questo Moderatore supremo
– Ordina di amar l’uomo come sè stesso.
– E io lo maledico l’uomo. Mi ha fatto tanto soffrire.
– E l’odio… e l’odio, e morir vorrei,
– Lacerandogli il cuore, aprendogli le viscere,
– E ridere come un dannato sui suoi funerali,
– Soffocando fra le mie mani l’ultimo dei mortali.
– Satana vieni a vendicarmi di questi esseri crudeli.
– Sarò per sempre, in vita, in morte
– Nell’amore, nella felicità, nel delitto, nell’infamia,
– Il tuo servo fedele. Addio, Satana, ho detto
– E mi soscrivo senza spavento: Gabriele il maledetto.
— Oh! signore, voi sapete come il mio cuore sia cambiato, quante lagrime sieno scorse da’miei occhi! Dio mi ha perdonato, io spero.
-— Povero giovane! leggeteci l’ultimo vostro lavoro.
— È un’imitazione del salmo Benedicam, Domino, in omni tempore.
– O musa, prendi la tua lira, e i dolci suoi accordi
– Annuncino ai mortal, oppressi dai rimorsi,
– Le pure voluttà che procura il pentimento
– A quelli di cui la virtù fa rinverdire la corona . . .

Il buon Francesco, un tempo così misantropo, è uscito di prigione; si è maritato, rende felice la sua famiglia; egli ha mantenuto la sua parola.
Vedete che non vi sono nella nostra prigione soltanto quadri cupi e schifosi, tuttavolta non vi date a credere che sia popolata unicamente da buone genti. Andremo ora a visitare de’luoghi, nei quali non si trovano punto virtù.
Seguitemi nelle segrete. Non vi spaventi questa parola, poichè le secrete non sono qui come le fanno i nostri romanzieri; non troverete nè cupi sotterranei, nè catene attaccate ai muri, nè cerchi di ferro, no; ma peraltro non sono un soggiorno aggradevole.
Il condannato vi è rinchiuso in uno spazio lungo due metri e largo uno; l’aria ed il giorno non vi penetrano immediatamente dal cielo, ma vi passano per un angusto corridoio, sul quale si aprono queste celle di punizione.
Il pavimento, senza paglia nè coperta serve di letto al colpevole; egli è nutrito di pane ed acqua. Quando vi entra gli si tolgono il fazzoletto e la cravatta; misura questa resa necessaria da molti tentativi di suicidio; e, ad onta di siffatte precauzioni, molti miserabili sono riusciti a procurarsi la morte.
Durante l’inverno, le segrete sono temute, ma d’estate i prigionieri vi ci vanno con indifferenza. È la punizione che s’infligge per insubordinazioni, per furti, per minaccie, talora anche per delitti.

Udite quel forsennato che corre qua e là nella sua segreta, facendo tanto romore coi ferri che bisognò mettergli ai piedi? Egli schiuma di rabbia, bestemmia, perchè gli fu tolto un utensile, con cui voleva, dic’egli, uccidere un sorvegliante qualunque. Quattro giorni sono, nel salire alla sua cella ordinaria, preceduto e seguito dagli altri prigionieri, questo mostro, afferrando con la mano una delle spranghe d’una porta di ferro per darsi maggior forza, colpiva col piede armato di enorme zoccolo un povero giovane, che ha ricevuto il colpo nel mezzo del petto, e ne moriva ieri, la vigilia del giorno in cui tornare doveva in libertà. Abbandoniamo questi luoghi d’orrore e rechiamoci alle officine.

La sala più vasta è destinata alla fabbricazione di calzature di feltrelli; è un mestiere che si apprende facilmente, e siccome la più parte dei detenuti, abbandonati dai loro parenti, dediti ad una vita oziosa e nomada, non hanno imparata alcun’arte, così li si occupa in codesto lavoro, divisi in due sezioni; l’una che apparecchia il tessuto, l’altra che vi cuce le suole. La tessitura si fa col mezzo d’un ago ricurvo, il quale soventi volte divenne nelle prigioni lo stromento d’un delitto, non ostanti le cautele prese per impedire che i detenuti portino seco i loro utensili quando escono dall’officina. Sopprimerli, sarebbe lo stesso che sopprimere il lavoro, e l’esperienza ha dimostrato che l’ozio nelle prigioni è causa d’inconvenienti ancor più gravi.
Quel vecchio dai capelli bianchi che vedete tra i fabbri, ha ucciso il proprio figlio. Condannato dapprima a morte, l’avanzata sua età e il suo pentimento, gli meritarono una commutazione di pena. Ei piange continuamente e vi assicuro che è difficile superare una profonda emozione, quando una lagrima cadente da suoi occhi fa gridare il ferro arroventato che tiene in mano.
Ecco gli ebanisti. Riconoscete quell’uomo che travaglia con tanto ardore a lucidare quella graziosa scatoletta? L’avete già veduto all’infermeria; è quello ch’era malato d’affanno.
Ebbene, mio caro, la campana vi chiama nella corte, i vostri compagni escono, e voi non abbandonate il lavoro?
— Signore, ho ottenuto la permissione di lavorare anche in quest’ora; la ricreazione della sera mi basta; pel tal modo mi guadagno tre soldi al giorno in più, e dopo che avete ritrovata la mia bambina sono così contento di poter rimettervi per lei il prodotto delle mie fatiche! Sta ella bene, signore?
— La vedrete ben presto, mio caro.
— Ancore tre mesi! . .
— Forse prima, continuate a ben condurvi; Dio accorcierà la vostra pena.

Questo povero padre consegna ogni settimana due franchi per la sua piccola figlia. Eppure i detenuti non hanno certo abbondanza di denaro. I più laboriosi guadagnano 1 fr. 50 c, al giorno; di questa somma lor spetta la metà, ma non ne ricevono che il quarto, mentre l’altro quarto forma una massa che vien loro consegnata quando escono di prigione.

IV.

La cappella. – Curiosa leggenda. – Un quadro di mano maestra. – Canti dei prigionieri. – I frutti di un sermone. – Nuova specie di carta da lettere. – L’antro di una megera. – Ancora un appiccato. – Rinascita. – Storia interessante d’un giovane liberato. – Il barbiere della prigione. – La Lingerie. – La biancheria.
– La veste di Deianira, o la camicia d’un leone.

Nel centro dell’edifizio, teatro in cui si rappresentano tante scene d’immoralità, sorge, come contrasto a tanti orrori, la cappella, che ha per unico ornamento il suo altare e sopra di questo un magnifico quadro di Chammartin. Il soggetto fu tratto dalla seguente leggenda.

San Giovanni l’Evangelista s’avvenne, negli ultimi anni della sua vita, in un orfanello. I suoi viaggi apostolici non gli consentivano d’incaricarsi della sua educazione, e quindi la confidava ad un vescovo, il quale ebbe soverchia condiscendenza pel suo allievo. Dei cattivi amici lo trascinarono in ogni sorta di disordini, e ben presto, sordo ad ogni sentimento d’onore, divenne il capo d’una banda di ladroni che spargevano lo spavento nelle vicinanze della città.
Alcuni anni dopo, san Giovanni domanda al vescovo il deposito che gli aveva confidato. Il prelato abbassa gli occhi e gli fa conoscere la condotta del giovane. – Il buon vecchio percorre allora il deserto ed è arrestato dai ladroni. – Conducetemi al vostro capo, dic’egli. — Questo assassino mezzo nudo, scorge il suo antico protettore e si getta nelle sue braccia; un pugnale attaccato alla sua cintura cade a terra. — San Giovanni l’abbraccia e lo converte. È questa la scena rappresentata dal quadro del celebre pittore.

La cappella! ivi ogni domenica i detenuti assistono ai santi misteri; e vi si recano spontaneamente. Il regolamento della prigione, la cui popolazione è composta di cattolici, d’israeliti, di protestanti, talvolta anche di musulmani, non obbliga alcuno ad assistere agli esercizii del culto; eppure vi ci vengono quasi tutti e stanno in una positura decente come lo esige la santità del luogo. I malati ascoltano la messa da una tribuna contigua all’infermeria; e nella stessa tribuna si mettono anche i condannati a morte.
Intorno l’altare sta un certo numero di detenuti, le cui voci saggiamente esercitate fanno udire dei cori eseguiti con insieme e precisioni sufficienti; talvolta l’ultimo verso è ripetuto da tutti gli astanti. L’anima è vivamente commossa all’udire più di quattrocento di questi uomini, le cui voci intuonano un cantico religioso.
È facile vedere che in quel momento i loro cuori sono più calmi e quasi estranei al loro stato morale. I loro volti, ordinariamente duri e feroci, assumono un’espressione più dolce e più dignitosa. Il loro spirito, quasi preparato da questi canti, si lascia più facilmente convincere dalle parole che lor rivolge il ministro del Vangelo. Commoverli non è facile, ve l’assicuro, eppure qualche volta vi si riesce.

Un giorno fu lor parlato della pietà filiale, del colpo atroce ond’erano state colpite le loro madri all’udire la lor condanna, e il giorno medesimo, il cappellano riceveva più lettere, in cui molti dei detenuti lo pregavano di procacciar loro un colloquio con le loro madri. Uno di essi, cui la mania di scrivere giorno e notte nella cella, nel dormitorio, nelle officine, dappertutto, aveva fatto interdire l’uso della carta, s’immaginò di tracciare queste parole col toccalapis sopra un lembo della sua camícia. (Noi possiamo far vedere l’originale).
« Quanto soffrir deve mia madre! Da tre mesi ella ignora
» completamente che sia di me. Oh ! signore, prima della notte,
» ve ne scongiuro, andate ad annunciarle che sono ancora al
» mondo . . . »
Trista missione! . . dire ad una madre: Vostro figlio è trovato ma, . . . dieci anni di lavori forzati vi separano da lui. Povero cappellano! egli compiè la sua missione e udrete come ne fosse ricompensato.

Erano le otto della sera, quando arrivò all’ingresso d’una vecchia abitazione posta sulla riva del canale San Martino. Ascende e percorre a tentone tutta la lunghezza d’un oscuro corridoio. – Picchia, o piuttosto dà il capo in una porta. – Viene aperto ed una donna scarmigliata, cogli occhi rossi, col volto avvinato, gli dice con voce rauca e brusco tuono: Che volete? . . . A questa interpellazione non sapeva se dire: Signora, figlia mia, o mia cara. Credo che nel suo imbarazzo usasse di tutte tre le espressioni, ed entrò in una stanza ove un fanciullo, pressochè nudo, giaceva in terra sopra un po’ di paglia.
Sarebbe stato difficile decidere se avesse ricevuto il giorno sulle coste della Guinea, anzichè nella prima città d’Europa, tanto era nero; ma un secondo sguardo mostrava siffatto colore esser cagionato dalla negligenza materna. La donna si affretta nascondere dietro una sudicia cortina un piatto ed alcune bottiglie vuote, e viene interrotta ne’suoi movimenti precipitati da queste parole d’una fanciulletta di cinqu’anni: Mamma, dammi dell’altro prosciutto! La risposta fu: Che volete dunque, signore? parole espresse in tuono duro e rivolte al cappellano.
— Sono questi tutti i vostri figli?
— Ah! vi capisco. Volete infastidirmi con le indegnità di Guglielmo. Ma, vel dico schiettamente, non vo’ saperne.
— Guglielmo è stato colpevole; ma è pentito, desidera vedere sua madre e chiederle perdono.
— Ditegli ch’è uno sciocco; che non doveva lasciarsi cogliere. Non ho forse letto il giornale? egli ha confessato tutto; si è fatto condannare alle galere. Che bel ragazzo di spirito!
— Egli è determinato a ben condursi; venitelo a vedere.
— Ditegli che sua madre è per lui come una straniera.
— Questo linguaggio mi fa supporre che voi non siate forse straniera ai suoi falli. Addio.

E il povero cappellano, per non allarmare soverchiamente Guglielmo, fu costretto a dirgli che nel luogo indicatogli avea bensì trovata una donna, ma non sua madre.
Non importa! il prigioniero era stato vivamente commosso; ha preso delle buone risoluzioni. Ora è a Rochefort, e non si dispera di farne un onest’uomo.

Altro esempio. Il cappellano arriva un giorno al cancello.
— Oh! signore, quale sventura? – Che mai? – Un uomo si è appiccato! – Ov’è? – Alla farmacia.
— Steso sopra una poltrona giaceva un miserabile, respirante appena, cogli occhi spenti, il collo circondato da un cerchio, livido, sintomo della strangolazione, il volto violetto . . . ecco lo spettacolo che gli si offerse.
A destra il medico, a sinistra il direttore, sul terreno una corda fabbricata con le striscie d’una camicia.
— Sciagurato, son io, il cappellano!..
— Gli occhi del morente si aprono e si richiudono di nuovo.
— Dottore, l’asfissia non sarà completa?
— No, se prende alcune goccie d’acqua.
— Oh! fallo, mio caro, fallo per me. (Segno negativo.)
— Sfortunato! lo so, siete condannato in vita; ma il tempo della terra non è nulla in confronto dell’eternità, ai tormenti della quale vi condannate voi stesso. (Segno negativo.)
— Amico! tre giorni sono tu mi hai chiesto un servigio, io te l’ho reso. Ti chiamerò ingrato se ricusi ancora di compiacermi.
E la mano tremante del cappellano appressava al naso, alle labbra del moribondo.
Egli aprì gli occhi, e bevette finalmente, e respirò!
Ora gode di perfetta salute, ed ha sovente ringraziato il cappellano d’aver riaccesa la sua candela.
Questi risultati compensano un poco le pene del cappellano; ma convenite ch’egli ha dei terribili quarti d’ora da passare.
Tuttavolta si può far del bene alla Roquette, e il pregiudizio più nocivo all’azione di quegli che si fosse dedicato a migliorare la morale dei detenuti, sarebbe il disperante pensiero dell’inutilità de’suoi sforzi. Sì, appena entrato in questa nobile carriera, egli incontra degli uomini, i quali con un sorriso di compassione gli dicono: Che sperate voi fare? Incontrerete ostacoli insormontabili; apprenderete che uomini, i quali hanno subita l’onta d’una condanna, hanno vizii di costituzione che si oppongono alla riforma che voi meditate; il veleno è stato inoculato, come impedire te che invada l’intelligenza ed il cuore?

Voi tutti che leggete queste pagine, e potete più o meno concorrere al bene morale della società, non vi lasciate scoraggiare da queste desolanti parole; credete ad un’esperienza di sette anni, e prestate ascolto a ciò ch’ella vi dice:
In codesti esseri degradati havvi ancora dell’intelligenza, della memoria, della volontà, dell’amore . . . vi ha l’uomo insomma . . . Innanzi a noi non istà un cadavere, ma una vita, e finchè vi ha vita morale, vi ha pur speranza di morale miglioramento. Disperare del ritorno alla virtù, è accusare la parola del medico supremo, che disse doversi perdonare mai sempre; è uccidere il zelo della carità, e la più grande sciagura dell’uomo colpevole è di udir una perfida voce che gli annuncia impossibile ogni reabilitazione: allora ei perde la stima di sè stesso, e quando l’uomo ha cessato di stimarsi, si vende per ben poco, si dà per nulla.
Eccovi un fatto che dimostra all’evidenza il pericolo di dire ad un uomo ch’egli non ha più alcun valore morale.

Un giovanotto di debole carattere, trascinato da viziosi amici ad un latrocinio, subiva la pena di due anni di prigione. Una sera udì un’orribile conversazione, che si teneva da alcuni compagni di carcere alla Roquette; e non potè trattenersi dal fare un gesto esprimente l’orrore destato in lui dai feroci motti.
— Tu fai il difficile, disse uno di quegli scellerati; noi pure abbiam cominciato come tu facesti, e tu finirai come noi.
— Oh! no; io spero di rientrare nella società, e meritare di vivervi.
— La società! ella non vuol saperne nè di te, nè di noi; la guerra è dichiarata: se gli uomini ti rendono la libertà, non ti renderanno mai la loro stima.
L’idea d’esser condannato per sempre all’obbrobrio afflisse grandemente quell’infelice. L’indomane era giorno di parlatorio; sua madre ci venne, come al solito, e lo trovò con le lagrime agli occhi.
— Quale affanno ti crucia, figlio mio?
— Cara madre, ti ho espresso molte volte il mio pentimento; dimmi, ho io perduto la tua stima, l’amor tuo?
— Ti ho perdonato, il sai.
— Odo dirmi che tutto è perduto per me, che non potrò mai riacquistare la stima degli uomini; alcuni scellerati m’invitano ad unirmi a loro.

La povera madre desolata gli fece comprendere, che non dovea prestar fede a parole sentite da bocche avvezze alla menzogna. La sua agitazione cessò, ma non l’influenza del terribile presagio; durante il lavoro, nel mezzo della notte, pensieri disperanti lo perseguitavano. Questo stato d’irritazione gli fece commettere un errore, ond’ebbe severo rimprovero da uno de’sorveglianti; l’offeso suo amor proprio gli dettò una replica forsetroppo acerba, alla quale fu risposto con queste parole che lo immersero in profonda tristezza: – Questi farà come gli altri.
— Che volete dire?
— Tu monti la scala: i giovani detenuti, la Roquette, il bagno, e più tardi la scala della barriera san Giacomo.
— Io sono condannato all’infamia, disse tra sé; non vi ha più speranza.
E lagrime abbondanti scorrevano da’suoi occhi, e voleva nasconderle agli altrui sguardi. Il cappellano, traversa il prato per recarsi alla cappella; ei lo segue.
— Voi m’avete confortato tante volte, gli disse; oh!soccorretemi, ve ne prego.
— Chi vi avvenne? Disse il cappellano, serrandogli affettuosamente la mano.
— Son disprezzato da tutti! Voi m’avevate fatto credere alla possibilità di riabilitarmi, e vedo che ciò è impossibile. Dinanzi a me il delitto, il bagno, il patibolo.
— Tra voi e il delitto e le funeste sue conseguenze vi ha il pentimento, una condotta onorevole, la stima de’buoni. Presto sarete libero; avete meritato la simpatia di chi s’interessa per voi; avete espiato il vostro fallo; la vostra condotta nel carcere è un buon presagio per l’avvenire . . . . coraggio!
E il coraggio rivisse nel cuore di quell’infelice; e ne avea d’uopo, poiché sua madre mori prima della sua liberazione. Non gli restava che uno zio, cui venne uscendo dalla prigione, e quest’uomo ridestò in lui tutti i suoi funesti pensieri di disperazione, dicendogli: – Hai vent’anni; puoi bastare a te stesso; d’altronde la tua vita è macchiata; che vuoi tu ch’io ti faccia?
Son condannato all’infamia! ripetè quel misero. E la stessa sera avea cercato un asilo presso alcuni scellerati, conoscenti di prigione, i quali lo posero sulla via del delitto, destinandolo l’indomane come esploratore durante la perpetrazione dei loro misfatti.

Mentre si recava ad eseguire un incarico da essi ricevuto; passò per la piazza del Palazzo di giustizia, e giunse nel momento in cui cinque condannati subivano la pena dell’esposizione…. S’arresta, vacilla; la sua immaginazione si esalta; crede di veder compiersi la predizione del sorvegliante; si vede già in mezzo a que’miserabili. La dimora del cappellano era ivi presso; vola da lui, si getta nelle sue braccia e gli confessa i colpevoli suoi passi.
Il cappellano cerca la causa del male, la scopre, vi mette rimedio; gli promette la sua stima, la considerazione degli uomini; lo colloca presso un buon capo d’officina, che gli procura un onesto lavoro e gl’ispira l’amor della vita. – Due anni dopo quel giovane, stimato dal suo padrone, amato da tutti che il conoscevano, dichiarava altamente la più funesta tentazione al delitto, essere quella di riguardare la virtù e la considerazione degli uomini, come inaccessibile a chi abbia avuta la sciagura di commettere un fallo.

Traversiamo rapidamente il cancello centrale, ove scorgete dei letti da campo. Ivi alcuni soldati del posto passano la notte coi sorveglianti per la sicurezza dello stabilimento; ed ivi il barbiere della prigione esercita la sua arte. È un prigioniero; il rasoio fu adoperato per dieci anni da un assassino; la sua buona condotta, il suo pentimento parlarono in suo favore; è rimasto alla Roquette, e la sua pena fu commutata. Il barbiere della Roquette riceve dall’amministrazione sei franchi al mese per radere i prigionieri che non pagano; chi paga 5 centes, ha una salvietta. Sono colà dei fashionables, cui il cancello centrale può suggerire utili riflessioni, ove confrontino il suo piccolo specchio da 20 centesimi coi grandi specchi a cornice dorata della strada Vivienne.

Quest’idea ci conduce naturalmente alla stanza del bucato. A noi non parrà forse che aver vi possa un’intima relazione tra il bucato della Roquette e la morale dei detenuti! . . . Leggete.

Un giovane damerino, abitante del bastione degl’Italiani, spese un po’ troppo presto la somma che ogni anno gl’inviavano i suoi parenti per vivere a Parigi. I piaceri, le passioni esigevano di più, e nulla gli rimaneva. Una piccola trufferia gli valse del denaro, ma in pari tempo un processo criminale, e il nostro elegante venne a passar un anno alla Roquette. Lo credereste? la privazione della libertà, i grossolani alimenti, la vita della prigione non erano le pene più gravi per lui; l’accessorio la vince talora sul principale.
Otto giorni dopo il suo arrivo bisognava combiarsi di biancheria; gli fu data una camicia . . . . nettissima, bianchissima . . . . ma non era certo di tela battista; e ben penserete che il fabbricatore di camicie reale o nazionale della strada Richelieu non aveva presieduto nè al taglio, nè alla cucitura. Il nostro amico la guarda, la volge, la rivolge . . . . Che rozzo tessuto! e poi qua e là qualche soluzione di continuità . . . . il cuore gli si serrava . . . . Mà bisognò indossarla. Ecco la sera; impossibile di dormire, quella grossa tela non armonizzava con la pelle delicata; e poi un cupo pensiero gli sorse nella mente . . . . Questa camicia ha servito . . . . a chi?…. forse a un forzato . . . . a un assassino . . . . a un condannato a morte! . . . Orrore! . . . . Io! . . . . E questa scena si ripeteva ad ogni cambiamento di camicia.
Il giovanotto tornò in libertà; adesso è saggio, e diceva ultimamente: – Quando i miei falsi amici vogliono trarmi in quei luoghi che mi condussero alla mia perdita, penso alla camicia della Roquette; un sentimento d’orripilazione mi percorre tutto il corpo, e volo a’miei doveri.
Ecco la morale del bucato.

V.

Le segrete dei condannati a morte. – Tristi emozioni d’un buon cuore. – L’assassino senza energia. – L’ignoranza, causa del delitto. – L’orgoglio di Posimano. – Sua ferocia. – La sua Luigia. – Sua morte. – I condannati si succedono ma non si rassomigliano. – Il padre d’un condannato. – Una conversazione sotto i castagni. – Una pistola carica che non ucciderà alcuno. – Speranza delusa. – Scena straziante.
– Una delle strade che conducono al patibolo.

Pochi passi, e siamo nella parte più sinistra della prigione. Vedete quell’enorme porta di quercia munita di serrature e di catenacci? si apre sopra angusto vestibolo, e lascia vedere tre altre porte egualmente cariche di ferro. Sono le tre segrete dei condannati a morte.
Quando il giudice ha pronunciato la terribile formola: Condannato alla pena di morte, quello sciagurato vien condotto alla Roquette, iscritto nel registro di consegna, posto nella segreta. Siccome non deve abitarla solo, quel luogo non ha un aspetto così terribile, come forse supponete; l’aria e la luce vi penetrano da una larga finestra a due metri dal suolo; a dritta un letto, a sinistra una stufa, tra esse una tavola e tre sedie, una pel sorvegliante, una pel soldato di fazione, la terza pel condannato.
Gli si mette la camiciuola di forza, specie di giubba a maniche, le cui estremità son cucite e la cui azione sta nell’inceppare i movimenti delle braccia, e neutralizzare quella delle mani; precauzione questa indispensabile a prevenire gli eccessi di quegli sciagurati, sia contro i custodi, sia contro sè medesimi.

Il condannato che si è appellato in cassazione, rimane talvolta due mesi in codesto luogo.
Le relazioni coi condannati a morte fanno passar l’anima per le situazioni più estreme, pei sentimenti più opposti. Per primo, l’orrore . . . . Vi vedete dinanzi un vile assassino; quella mano che ha brandito il pugnale, che avvelenava gli alimenti dati alla sua vittima . . . . Voi siete il suo solo appoggio, il solo essere che possa commuoverlo; ei stende la mano tinta di sangue; la vostra si ritrae con movimento involontario . . . . Il suo sguardo diviene quasi supplicante; la compassione v’intenerisce; Dio vi aiuta; la vostra mano si avvicina alla sua, ei tenta di stringerla attraverso alla tela della camiciuola. S’egli si pente, se piange, le vostre lagrime si mescolano alle sue; si opera in voi una trasformazione involontaria; il delitto scompare dietro il velo della pietà; vi sentite soggiogato dalla situazione, v’identificate alla sciagura, nè altro più desiderate che la grazia di quel miserabile.
Sino al momento dell’esecuzione, voi provate i suoi timori, le sue speranze, e quando la scure ha separata la testa dal busto, vi sembra ch’ell’abbia colpito un amico. Eccovi ancora di quelle emozioni che durano talvolta due mesi, e vengono ad assalire il cuor vostro tre o quattro volte per anno.

Le relazioni coi condannati a morte offrono i mezzi di esaminare dei problemi, la cui soluzione sarebbe di grande giovamento morale. Per quali gradi è disceso quell’uomo ad uno stato eccezionale di mostruosa perversità? Per quali vie il pentimento toccò la sua anima? o invece, perchè rimase insensibile al grido della sua coscienza, e perseverò nell’induramento e nell’impenitenza?
Ci permetterete di esporre al vostro sguardo i tipi più saglienti di questi uomini degradati, e lo possiam fare senza tema d’indiscrezione, poichè sinora lo zelo del venerabile abate Montes, cappellano della Conciergierie, ove altra volta racchiudevansi i condannati a morte, lo spinge a continuare il suo ammirabile ministero anche alla Roquette, ad onta de’suoi 87 anni. A lui spettano tutte le relazioni coi condannati che reclamano il secreto; le cose che noi diremo sono succedute in presenza di testimoni, e sono quindi proprietà del pubblico.

Entrate ora in questa secreta ed osservate quell’uomo dalla fronte deppressa, dall’occhio vitreo, dalla fisonomia senza espressione; tutto manifesta in essolui un temperamento linfatico. Sembra, in generale, essere indispensabile una dose di energia per commettere un assassinio, ma non lo è sempre. Questi si trovava nel bosco di Vincennes con uno de’suoi compagni di lavoro; voleva entrare a Parigi, ma non aveva le carte necessarie; il suo compagno s’addormenta sull’erba, egli lo uccide e s’impadronisce del suo portafoglio. Interrogatelo, e vi dirà freddamente: – Mi occorrevano delle carte, l’ho ucciso per averne.
— Vi pentite di quest’orribile delitto?
— Sì.
— Avete d’uopo di qualche cosa?
— No; solamente non dormo bene, non so il perché.
Tutto in essolui manifesta l’indifferenza e la freddezza più completa.

Un carattere diametralmente opposto si è manifestato in Poulmann, famoso pe’suoi delitti. Ha temperamento sanguigno pronunciatissimo, forme erculee, figura colossale, costituzione piena d’energia fisica e morale, tutto il lui favoriva lo sviluppo di un orgoglio che non l’ha mai abbandonato, e che lo tenne irremovibile nell’idea espressa con le terribile parole: Non si dirà mai che un Poulmann ha cambiato!
Giunge alla prigione; si vuol mettergli la camiciola di forza; ei grida, bestemmia; che mi uccidano! Non mi sono appellato; voglio morire; ma non tollero questi dettagli. – Il direttore gli dice con bontà, che bisogna adattarsi, che la sua forza sarebbe stata inutile; che lo si avrebbe trattato con riguardo.
— Mi hanno ingannato; ho creduto che non appellandomi sarei stato giustiziato immediatamente; ma infine legatemi . . . . voi non siete che vili stromenti, non vi condanno.
Ancora dell’orgoglio. Lo si conduce nella segreta; gli si annuncia la visita del cappellano.
— Non voglio vederlo.
— Ei verrà.
— Gli fracasserò la testa! Andate a dirglielo.
Il cappellano fu di ciò avvertito, e rispose: – Ditegli che oggi farò la visita di tutta la prigione, e andrò anche da lui.
— Ma in tal caso, osservò il direttore, gli farò legare i piedi.
— Oh! Non occorre, non ho paura.
Il direttore annuncia al condannato che il cappellano vuol visitarlo quando pure. Poulmann ne fu colpito, ma, fedele al suo orgoglio: – Avvertitelo allora di non venire come cappellano; non voglio preti.
Quando lo vide entrare, balzò dal suo letto come una tigre, gridando:
— Che volete qui?
— Adempiere al mio ministero.
È tristo il vostro ministero.
— Sta in voi renderlo meno penoso.
— Ho messo per condizione che non sareste venuto come cappellano.
— Mi pare che scherziate: in tal caso, permettete a me porre uno scherzo; il cappellano l’ho lasciato alla porta, non sono che il vostro amico.

Non credo più all’amicizia; non credo a nulla; ho creduto in Dio sino alla sentenza che colpì la mia Luigia. Non vi ha Dio, dacchè Luigia è stata condannata; ell’era innocente, lo so io; poichè mi disapprovava quando con la mia spranga di ferro ho fracassato il capo a quell’infame ostiere che mi faceva una frittata con tre uova, quando io ne pagava cinque. Ella non era colpevole, e fu condannata alla reclusione! No, Dio non è giusto.
— L’amate dunque la vostra Luigia?
— Se l’amo! Per lei il mio sangue, la mia vita. Ella è buona la mia Luigia, mi seguitò per debolezza; ma non è colpevole. I mostri! . . .
— Ma sciagurato, la sua condanna è una provvidenza. Dichiarata innocente, ella si sarebbe perduta. Nella sua prigione troverà amiche, sorelle che ravviveranno in lei onesti sentimenti. Ella ritornerà alla virtù. E voi, Poulmann, avvelenerete i suoi giorni . . . . voi ricusate i soccorsi della religione; ebbene! la nuova più terribile per Luigia sarà quella dell’impenitenza dell’uomo, pel quale ella ha sacrificato l’onore e la vita. Ella è stata vostra complice, voi sarete il suo carnefice.…
— Io! il carnefice di Luigia!
Il sacerdote avea toccata la corda sensibile. Continuò le più calde esortazioni, poi disse:
— Poulmann, ho conosciuto in Bretagna un uomo del vostro nome; era grande come voi, forte, vigoroso.
— Ah! . . . . era mio fratello.
— Ebbene, lo rivedrò; rivedrò vostra madre.
Qui la tigre divenne men feroce, e disse:
— Allora, prestatemi un servigio; dite a mia madre che se non ho domandata la cassazione, fu per risparmiarle tre colpi di pugnale che le avrebbero portati gl’indiscreti giornali, dicendo a tutti: Poulmann si è appellato per cassazione; la sua domanda è stata rigettata; Poulmann è stato giustiziato . . . . Ditele questo, promettetemelo, e vi permetto di tornar a vedermi.
— Ve lo prometto, e spero che avrò ad annunciarle alcuna cosa più consolante. Ma pur troppo, l’ora dell’esecuzione giunse sì presto che la nuova visita fu impossibile. Poulmann non volle umiliarsi; il suo orgoglio l’accompagnò sino al patibolo. — Una natura così energica, diretta al bene, sottomessa alle leggi della morale e della religione, ne avrebbe fatto un eroe: tutta quella forza fisica e morale si esaurì inutilmente, si macchiò di orribili misfatti, e la morte, come la vita di Poulmann, fu quella di uno scellerato.
Qual contrasto tra questo colosso del delitto, il suo feroce vigore, e il volto giovanile, quasi femmineo, la dolce fisonomia e modesta dell’assassino di 19 anni che fu il successore di Poulmann nella segreta! Egli avea strozzata la sua vittima, il miserabile, una donna, i cui bianchi capelli dovevano ispirargli rispetto e compassione . . . . E perchè? il saprete più tardi. Per ora non vi occupate che del colpevole, delle sue lagrime, del suo dolore. Tutto il tempo che passò nella segreta fu da lui diviso tra le esigenze della sua coscienza e i doveri di pietà filiale. Suo padre, antico soldato, commosso dal suo pentimento, cercava ispirargli qualche barlume di speranza.
Povero padre! ben di sovente veniva a sollevarsi il cuore ulcerato presso il cappellano della prigione. Questo sacerdote comprendeva il suo dolore, e per distrarlo, per condurlo alla fonte delle vere consolazioni, si recava spesso a passeggiare con lui, parlandogli dei doveri religiosi.

Una bella mattina di primavera percorrevano insieme il giardino delle Tuileries. Il castagno del venti marzo era già coperto di foglie.
— Questa verdura mi piace, disse il povero padre; ah! se mio figlio potesse rivivere come la natura! ma egli è colpito a morte.
— Coraggio! speriamo; la domanda di grazia è stata fortemente appoggiata.
— Se sapeste quanto io l’amo! Non sono solamente il padre suo; gli ho servito di madre, poichè aveva appena tre mesi quand’ella morì; e allora ho posto la sua piccola culla presso il mio letto; e quando piangeva, povero bambino, gli dava a bere del latte che asciugava le sue lagrime . . . . Più tardi, aveva allora dieci anni, quando la via che conduceva alla scuola era umida, io lo portava in braccio; temeva per lui un semplice raffreddore, e adesso . . . . il patibolo! . . . . Il giorno dell’esecuzione di mio figlio sarà quello della mia morte; tengo una pistola carica a quest’effetto . . . .
— E sareste allora separato per sempre dal figlio vostro; il suo pentimento gli meriterà il paradiso, e il vostro suicidio . . . .
— Con questi discorsi erano giunti alla vecchia basilica.
— Io entro qui a dir la messa, disse il cappellano; offrirò per voi e pel figlio vostro il santo sacrifizio.
— Verrò io pure.
— E ben farete; ciò vi sarà di consolazione.
Il pentimento del condannato, la sua gioventù, la posizione onorevole de’suoi protettori, tutto faceva sperare una commutazione di pena; una parola venuta dal ministero della giustizia accresceva questa speranza; il padre ed il cappellano si recarono a visitare il prigioniero, e si congedarono quella sera lasciandolo pieno di speranza.
Ma, verso dieci ore, il cappellano fu avvertito che il procuratore generale desiderava egli si recasse l’indomane presso il padre, mentre il buon abate Montes avrebbe condotto il figlio al patibolo.
A sei ore, quel pover’uomo era ancora a letto.
— Bisogna, gli disse il cappellano, che ci rechiamo subito dal vostro amico della strada Mazzarino.
Egli vi avea pranzato il giorno innanzi, ed aveva ivi udito buone nuove sul conto di suo figlio.
— Mi alzo tosto.
Ed era ben tempo. Bisognava traversare la strada san Giacomo, e i curiosi, avidi di emozioni, correvano a procurarsi un posto alla barriera. Entrato nella casa dell’amico, l’agitazione che vi regnava, aperse gli occhi al povero padre. Ah! ben lo vedo, avete una triste nuova a darmi; il ricorso per grazia è stato rigettato, e forse domani . . . .
La moglie dell’amico suo lo prende per mano; le sue lagrime scorrono abbondanti. Coraggio! gli dic’ella.
— Oh! è dunque veramente domani!
L’orologio batteva ott’ore.
— Il figlio vostro, . . . non è più, o piuttosto, egli è in cielo.
Il vecchio cadde in ginocchio: – Mio Dio! Pietà di me, pietà di mio figlio! Signor cappellano, voi mi avete risparmiato un suicidio. Ora un’ultima grazia! Deh! Fate che mi si accordi il suo cadavere.
Ma era troppo tardi . . . .
Ed ora, volete sapere la cuasa di tanta sciagura? Lo stesso paziente ci ha pregata di farla conoscere . . . .
«Vorrei, diceva, scrivere sulla prima pagina d’un gran numero di libri, che si leggono troppo: Questo libro è causa della morte della mia vittima, e della mia.»
E parlava di que’romanzi che accostumavano l’anima a troppe forti emozioni, che la mettono senza posa sotto l’impero d’un’esaltazione funesta.

VI.

Due condannati in una volta. – Curiosa conversazione. – Fourier, capo d’assassini, muore pentito. – La maschera di pece. – Esecuzione al bagno. – L’album di un condannato a morte. – Lettera scritta da una tomba . – Discorso d’un morente. – Bella morte di un giustiziato. – I quaranta giorni d’agonia. – Ricorso rigettato. – Il paziente nella cappella. – Sua comunione. – Lettere di grazia. – Un morto uscito dal sepolcro. – Lettere di morte. – Avvertimento crudele. Momenti tragici. – Ultima visita alla cappella. – Ancora la segreta. – I carnefici. – L’abbigliamento. – Refezione sull’orlo della tomba. – Il patibolo. – Morale di tutto questo.

Nel 1845 erano simultaneamente alla Rouquette due condannati a morte. Fourier, capo d’una banda d’assassini, quegli che si vantava di conoscere l’anatomia e d’aver colpito la sua vittima con tanta precisione, che il pugnale doveva arrestarsi a due millimetri dal cuore. E Chevreuil, il quale asfissiando sua moglie col carbone, e vedendo che soffriva troppo a lungo, le applicò una maschera di pece per metter fine alle sue sofferenze.
Questi due uomini domandarono di stare alcun tempo insieme in presenza dei custodi – Ci annoieremo meno diceva Fourier; e ottennero la permissione.
Fourier dava saggi consigli al suo collega: – Io sarò giustiziato, me l’aspetto, e spero Iddio mi perdonerà! Ma siamo due qui . . . . e, mia mercè, ti si commuterà la pena. Guardati bene; il bagno è molto pericoloso; se tu vi ti condurrai a dovere, sei ancor giovane, potrai uscire, e vivere da onest’uomo.
Chevreuil ascoltava attentamente codesti consigli; ma la sua perfida fisonomia mostrava che non gli avrebbe seguiti. Compose una canzone, spirante cinica indifferenza, e la diede a Fourier, dicendo che se fossero giustiziati insieme, l’avrebbero cantata recandosi al supplizio. Quasi per ischerno, avea scelto il motivo d’un cantico religioso.
Fourier fu giustiziato pochi giorni dopo; ei non pensò alla canzone, e morì da buon cristiano. Il suo miserabile compagno non seguì i suoi consigli; era uno de’più insubordinati al bagno, cui lo si condannava in commutazione della pena di morte; e finalmente, avendo assassinato un guardaciurme, venne giustiziato in presenza di tutti i forzati.
Termineremo questa lista di morte col racconto degli ultimi momenti dell’uomo, cui la religione diede una energia morale, e tali sentimenti di compunzione, che certo gli avrà meritato il perdono.

Quest’uomo fu sedotto da una di quelle creature che vendono il delitto, e la cui vista fa male agli occhi ed al cuore. Dopo una cena con lei, ella gli fe’vedere dell’oro. Fu il vino, che avesse turbata la sua mente? Fu la tentazione del denaro? Nol sappiamo; ma è certo che la trafisse di più colpi, dai quali però non morì. Arrestato, condannato a morte, condotto alla Roquette, manifestò il più sincero pentimento, Il tempo che non passava in preghiere, lo dedicava a disegnare ora paesaggi, ora edifizii; ma sempre vi era congiunto un soggetto religioso. Un giorno, certo pensando al supplizio che lo attendeva, fece una testa di s. Giovanni Battista, la quale, com’è noto, suole rappresentarsi tagliata sopra un bacino, come la si portò al crudele Erode. La sua sentenza fu cassata, e lo si rinviò dinanzi la corte di Versaglia; ma la sua vittima, quasi guarita, venne a deporre contro di lui, e fu di nuovo condannato.

Di tempo in tempo, il cappellano della Roquette lo visitava nella prigione di Versaglia; all’ultima visita lo sfortunato gli donò un album contenente alcuni disegni che avea fatti per lui, gli domandò la permissione di abbracciarlo. Il cappellano se lo strinse commosso al petto.
— Qualche cosa mi annuncia che non vi vedrò più, diceva quell’infelice.
E, infatti, due giorni dopo, gli si annunciò, che l’ultima sua ora era venuta.
— Mi vi era preparato, diss’egli; eppure è un gran colpo. Si confessa di nuovo, e prega gli si accordino cinque minuti; gli impiega a scrivere al cappellano della Roquette, e possiam assicurarvi che la sua lettera, scritta con ferma mano, fa prova del massimo coraggio.
Suggella questa lettera a nero; parte pel supplizio; monta con passo sicuro la terribile scala, e parla con fuoco per alcuni minuti, esprimendo il suo pentimento, e chiedendo agli astanti di pregare per lui . . . La sua testa cade . . . certo Iddio gli ha perdonato.
Ecco le circostanze più rimarchevoli, più caratteristiche che si manifestarono nella situazione dei venti condannati che da sett’anni hanno abitato le segrete.
Ve n’ha inoltre di comuni a tutti. Vi descriveremo rapidamente le scene ordinarie, ma ben lugubri, di quell’orribile dramma che si svolge nel corso dei quaranta o cinquanta giorni che precedono il momento fatale.
Le prime visite del cappellano tendono a stabilire tra lui ed il condannato una certa simpatia, a renderlo accessibile ai suoi consigli ed alla benefica influenza del suo ministero. Alcune parole affettuose, alcun miglioramento nel regime, pochi chilogrammi di tabacco, conducono facilmente a questo risultato. Allora ei procede all’istruzione religiosa, poichè molti ne ignorano financo le verità prime, molti non sanno leggere.
Di giorno il condannato conversa col sorvegliante e con la sentinella, ch’è di fazione nella sua cella. Questi poveri soldati sono spesso vivamente commossi: un Bretone, diceva da ultimo: «Sono stato ferito in Algeria, ho veduto la morte dappresso, e non sentii timore; qui la vista di quest’uomo mi agita e mi commove sino al fondo delle viscere.»

Quando il gravame per cassazione è stato rigettato, il venerabile abate Montes si reca presso il condannato, che ignora questa circostanza, e gli fa comprendere che i grandi mali vogliono grandi rimedii. Lo si conduce alla cappella, assiste alla messa, e, se veramente pentito, riceve la communione. Quale spettacolo! l’altare, il sacrifizio, il sacerdote, il condannato in ginocchio; stretto dalla sua camiciuola di forza. E il Calvario, su cui il Salvatore del mondo, immolandosi pegli uomini, dice al condannato pentito: «Oggi sarai meco in paradiso.» Hodie mecum eris in paradiso. Dopo la ceremonia, lo si riconduce nella secreta. Ogni giorno passeggia un’ora sul piccolo prato tra due guardiani, può contemplare la volta del cielo, e questa vista rende in lui più intenso, più vivo il desiderio di salirvi.

Quando giungono al cancello lettere di grazia, o meglio, di commutazione di pena; il direttore si affretta a comunicare la lieta nuova al condannato. La sua fisonomia si anima; lagrime di gioia scorrono sulle sue guancie; gli si leva la camiciuola di forza, gli si aprono le porte della segreta, corre sul gran prato; è un morto che sorge dalla tomba. La passeggiata circolare si arresta per un istante; si applaude alla sua fortuna; egli si unisce ad uno di que’gruppi; ahimè! questo movimento è spesso fatale per lui; il suo pentimento avea assicurata la salute della sua anima, ora l’attendono i lavori in vita, e ivi cattivi consigli, esempi ancor più cattivi. La nuova vita, di cui gli si fece dono, sarà ella macchiata di nuovi delitti; la sua grazia sarà ella seguita da un saggio avvenire? . . . .
Bisogna pure che, terminando, vi descriviamo la scena più cupa e più sinistra di codesta triste dimora.
Una lettera, partita dall’ufficio del procuratore generale, è giunta al direttore; ella non contiene che queste parole laconiche; ma la cui significazione è tremenda: Il condannato tale è avvertito, che il suo gravame per cassazione è stato rigettato, e che non è stata accolta la sua domanda per grazia; locchè può tradursi con quest’altre parole: Tra pochi istanti il carnefice verrà alla prigione, intimando al direttore di consegnargli il condannato per condurlo al supplizio.
Il direttore fa conoscere l’avviso ricevuto a quell’infelice. Talora questi piomba allora in uno stupore, in un’atonia che lo priva quasi dell’uso della ragione; un altro è colpito da un sentimento d’orrore che si manifesta con atti convulsi e moti nervosi; i più ritornano in sè stessi, e domandano a Dio la forza e la rassegnazione, di cui hanno d’uopo in sì fatale momento.
Cambiate le vesti della prigione in quelle che portavano all’entrarvi, li si conduce alla cappella. Momento supremo! il sacerdote, profondamente commosso, abbraccia colui ch’ei chiama suo figlio; s’inginocchia con esso dinanzi all’altare, poi, rialzandosi, stende la mano su quel capo che sta per cadere, lo benedice, lo assolve . . . .
Se il paziente lo desidera, gli si porge qualche alimento (i più accettano un po’ di vino) e ritorna alla segreta.
Ivi i carnefici s’impadroniscono di lui, gli legano i piedi, gli attaccano le mani dietro la schiena, e procedono al fatale apparecchio.
Seduto sul suo letto, ei sente le forbici sfiorargli la pelle, e, tagliando il collo della camicia, render più libera l’azione della mannaia che sta per colpirlo.
Poulmann si fece quest’operazione da sè stesso.
Il paziente, accommiatatosi con dolci parole dai sorveglianti, monta la carretta col venerabile ministro, che per via rianima il suo coraggio, mostrandogli l’immagine del Giusto morto su infame patibolo per la salute del mondo.
Giungono al luogo del supplizio; traversano a stento la moltitudine curiosa che si serra intorno al patibolo. Il condannato discende; s’inginocchia sotto la mano del sacerdote, che lo benedice ancora e risale nella vettura.
Un sordo romore annuncia che la spada della giustizia ha colpito un malfattore. Possa il suo pentimento aprirgli le porte del cielo.
Possa inoltre il miglioramento dei nostri costumi rendere sempre più rare le esecuzioni capitali! La deportazione, che s’introduce nelle nostre leggi, ci permette di sperarlo in un vicino avvenire. Allora forse, in luogo di prendere il cammino della barriera san Giacomo, d’onde non si ritorna più, il condannato sarà diretto verso i portoni di Brest o di Tolone, d’onde andrà a rigenerarsi in una società lontana.
Per tal modo, lettori, siete stati iniziati a tutti i misteri della prigione che vi abbiamo descritta; l’avete veduta piena di colpevoli; vedetela piena di utili insegnamenti. Sulle sue porte scritto:
« Le vie che qui conducono, sono: l’ignoranza delle ve-
» rità morali e religiose, la debolezza e la condiscendenza verso
» perfidi amici, la sete insaziabile dell’oro, l’invidia, l’ambizio-
ne, la brama di soddisfare passioni sfrenate. »

Che la fiamma del cattolicismo brilli a tutti gli sguardi; che il sacro suo codice sia la regola di condotta dei possenti e dei deboli; e questa fatale dimora diverrà per sempre deserta.

(L’ABATE TOUZE.)

Articolo tratto da: L’Emporeo artistico-letterario, ossia Raccolta di amene lettere, novità …
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