LA FESTA DEI MORTI

(COSTUMI SICILIANI)

Checchè se ne dica, certe abitudini sono così inveterate nelle fantasie dei popoli, che si tramandano di padre in figlio con una semplicissima legge d’eredità, con un semplicissimo meccanismo d’imitazione. A scovarne l’origine ci si perde la testa; a farne l’analisi e la sintesi riesce tanto difficile quanto dovette essere difficile per Lavoisier analizzare con piccoli strumenti di canna vegetale la composizione chimica dell’acqua. Qual’è l’origine, l’analisi, la sintesi della festa della Befana? Chi fu il primo a far scendere per la cappa del camino la Vecchia fata ricca di giocattoli e di gingilli? Mistero. Chi fu il primo, qui in Sicilia, a far risvegliare i poveri morti delle chiese e dei cimiteri per farli diventar ladri – sissignore, ladri! – e poi farli accostare ai lettucci dei bimbi per riempire canestri, panieri, vassoi di dolci, di frutti, di regali? Mistero. Eppure il fatto esiste. Qui, in Sicilia, poi – per quella fantasia naturale dei nostri babbi e delle nostre mamme – il fatto accenna a moltiplicarsi, sicchè la festa dei morti è festa generale che ascende al palazzo incantato dell’ aristocratico per discendere, la stessa notte, la stessa ora nella povera stamberga dell’operaio. È quistione di mezzi, quistione di vistosità regalizia: ma del resto il canavaccio su cui intrecciasi il ricamo della leggenda, della fola, del mistero – chiamatela come vi garba meglio – è identico per gli uni e per gli altri e i bambini del povero sono felici e contenti come i bambini del ricco.

In che consiste la festa dei morti? Ascoltate.

La leggenda è questa: nella notte della vigilia di Tutti i Santi ed in quella che precede la giornata del 2 novembre, i morti lasciano le loro tombe, le loro fosse, le chiese (chè anticamente i morti erano seppelliti nelle chiese), le nicchie, i camposanti, e si mettono a vagare – anime erranti – per la città. Lo scopo dei morti è questo: rubare dalle vetrine e dalle botteghe dei gioiellieri, dei bazar, dei dolcieri, dei fruttivendoli la roba bastevole per premiare la virtù di figliuoletti, nipotini, pronipotini lasciati nel mondo dei corpi.
I bambini sanno che per trecentosessantatre giorni i morti vigilano le loro opere e che i buoni saranno fatti segno a tante ricompense, nel mentre i cattivi non avranno nulla, oppure – i morti sono spesso crudeli – avranno delle scarpe vecchie, delle bucce d’arancio, dei torsi di cavolo, delle cipolle fradice e del carbone…

Questa la leggenda nuda e cruda: la festa, nella quale – vedi stranezza – il timore ha la parte migliore, è assai caratteristica. Per narrarvene qualche cosa non debbo far altro che ricordare… ricordare i lontani giorni della mia fanciullezza, quando anch’io aspettavo i beati morti, e dicevo anch’io il rosario per placare – chi sa mai! – le anime desolate di qualche mia scappatella biricchina o di qualche peccatuccio veniale.

La sera del 31 ottobre era attesa da tutti noi bambini col più vivo interesse. Tutta la mattina, messi dietro una porta o seduti in un angolo della stanza pensavamo a preparare i vassoi, o come si chiamano da noi, ‘i guanteri, specie di piatti rettangolari di ferro rivestiti di un sottilissimo strato di smalto nero tutto rabescato di fiori… antidiluviani.
I preparativi consistevano nel coprire il vassoio d’un foglio di carta-fiori tutta intagliata: era una specie di gara fra tutti noi nel preparare una carta magnifica – benchè si sapesse a priori che i morti non facevano parzialità e dividevano le cose con somma giustizia. Appena la vicina parrocchia suonava i nove colpi del l’Ave Maria, un sentimento di paura s’impossessava di noi. La nonna o la mamma ci facevano sedere in cerchio attorno a loro e ci facevano una specie di sermoncino pauroso.

– Fate silenzio, ora si comincia il rosario per le anime dei poveri morti…
E noi, tutti a coro:
– Verranno i morti stanotte?
– Fate silenzio, io non ne so niente… ma vi raccomando di dormire… i morti sanno tutto ciò che voi fate, e prima di mettervi i regali, vi solleticheranno i piedi con le unghie.

Un fremito di terrore percorreva le nostre piccole fibre: ma ognuno di noi, quella notte, era certo di dormire il sonno più paurosamente profondo di tutti i sonni dell’anno. Figuratevi, con quella prospettiva del solletico funebre, gli occhi si chiudevano soli, per paura. E si cominciava il rosario.
Fuori, nella via, spesso pioveva, più spesso fischiava il vento e lampeggiava: le burrasche autunnali sono le più ricche di vento e di fulmini. Tutto questo rendeva tetro l’ambiente, più tetro di quanto necessariamente doveva essere, visto e considerato che i morti stavano per lasciare le loro umide case sotterra.

Spesso, nel mentre si recitava il rosario, saliva dalla strada un coro di ragazzacci:
– Biati i morti, stasira c’i mintemu arreti i porti! (Beati i morti, stasera li metteremo dietro le porte).
– Che cosa? – mi chiedete voi.
Ecco qua: è un costume incivile, incivilissimo, ma non c’è che fare: l’hanno compatito, lo compatiscono e lo compatiranno. Nelle ore pomeridiane del 31 ottobre i ragazzi del popolo vanno su per le nostre campagne e cominciano a tagliare pali di fichi d’India (chiappi di ficarazzi) che legano ad una corda e che trascinano per le vie della città nelle prime ore della sera e che a notte avanzata legano dietro le porte della gente del popolo. Immaginate un po’ il brutto muso che fa la comare appena apre la porta: è una catasta di pali infangati che le sbarrano il passo e che le fanno esclamare il più delle volte:

– Non ci li putivu mentiri arreti i porti di vostri… frati? (Non potevate metterli dietro le porte dei vostri… fratelli?) Ma… parla col muro, nel mentre le comari del vicinato ridono sotto i baffi che non hanno.

La notte è profonda: i bambini dormono e sognano bianche larve che passano per gli spiragli delle finestre con le braccia piene di morti. « Morto » in questo caso assume il valore di regalo: è quistione di gusti, ed i gusti sono figli della pazzia. Dormono, dunque, i bimbi, ma vegliano i genitori – vegliano e si danno un gran da fare per mettere a posto i desiderati regali.

Chi poteva sospettarlo? Chi poteva mai credere, in quella beata età dell’innocenza, che i morti, i terribili morti, i fantasmi solleticatori erano l’adorata mamma e l’amato papà, i quali – stretti in un vincolo d’affettuoso pensiero, non dormivano la notte per prepararci la gioia della dimane? Noi si dormiva della grossa, certi che stando svegli si aveva una grattatina ai piedi e si perdeva i regali, non c’era santi! Figuratevi che sonno!

Quando tutto era a posto, quando i nostri genitori erano ben certi che la divisione era matematicamente esatta, che nessuna recriminazione poteva nascere sull’amministrazione della giustizia del mondo di là, andavano a dormire felici ed orgogliosi d’aver compita un’opera buona!…

All’alba s’era tutti svegli, ed alle volte anche prima, molto prima: paura dei morti non ce n’era più, e si saltava giù dal letto in camicia per impossessarsi dei regali notturni. Dio degli dei! I vassoi non erano più al loro posto, ma erano sparpagliati per la stanza, uno sul canterano, uno sotto il letto, uno sopra una mensola… Morti birboni! Avevano perduta la memoria e ci facevano disperare.
Alla fin fine ognuno pigliava la sua « guantera ».

Un’altra caratteristica siciliana della commemorazione dei defunti sta nella novena. Di novene, in Sicilia, ce ne sono un’infinità, anzi, si può dire senza tema di errare che tutti i trecentosessantacinque giorni dell’anno siano una continua novena. Da quella caratteristica di Natale fatta con l’antichissima cornamusa, alle comunissime d’ogni giorno fatte con violini, chitarre, arpe ed « azzarino » (triangolo d’acciaio suonato con una verghetta di ferro) se ne hanno di tutti i generi, per tutti i gusti. Il suono è accompagnato dal canto il più delle volte; certe altre è musica sola e… che soavità di musica! L’organo guerrazziano delle gatte ha spesse volte più melodia. I novenari sono, per la massima parte, ciechi; ma ve ne sono pure di giovani forti e robusti i quali, allettati dal guadagno fatto con poca fatica, preferiscono cantare e suonar la novena, anzichè rivolgersi a lavori più pesanti e più lucrativi. Questa categoria di « novenari » ha finito per rovinare la novena così detta classica – la quale era tessuta su poche note il più delle volte melanconiche – e vi ha sostituita una novena sui generis: niente di più facile, per esempio, che davanti al presepio o all’immagine di Maria, si suonino le canzonette napoletane più in voga, storpiate come quel soldato di Napoleone che di suo non aveva che mezzo scheletro.

È naturale, quindi, che un popolo fantasioso e fantastico come il nostro non si potesse accontentare dei dolci e dei pali di fichi d’India: la religione dei sepolcri ha i suoi vincoli e questi vincoli non potevano estrinsecarsi in ghirlande, lampade e… paura soltanto. Il misticismo doveva necessariamente trovare la sua novena e l’ha trovata. Si è detto: giacchè attorno ai tumuli disponiamo con tanto amore candele, lampade, fiori, nastri, tappeti fotografie; giacchè l’estetica funebre è completa, pensiamo alla morale: le messe pro defunctis non bastano, ci vuole qualche cosa di più popolare, di più democraticamente religioso: la novena. E la novena è diventata oramai patrimonio popolare; le donnicciuole la fanno cantare per le anime dei loro poveri morti e pagano la rendita annua di venticinque… centesimi al novenaro! Non è molto, come si vede, ma è sempre qualche cosa: e le anime del purgatorio si contentano di tutto pur di lasciare la loro mesta dimora per il regno paradisiaco.

In molti paesi dura ancora l’abitudine di visitare le catacombe dei Cappuccini e le sepolture scoperte. Sono delle visite, ne convengo, che fanno venir male a la testa – una volta tanto bisogna farle per cavarsi la curiosità maledetta di vedere i nostri antiqui parenti ritti, impalati nelle così dette nicchie o stecchiti nelle casse con il coperchio di cristallo o di vetro. Il popolo è curioso: agli spettacoli emozionali accorre come ad una festa – quindi, l’affluenza di visitatori nelle chiese è considerevole. Non vi descriverò una catacomba, nè una sepoltura scoperta: i viaggiatori che hanno illustrata la Sicilia ne parlano con minuziose particolarità. Vi parlerò piuttosto delle visite che vi si fanno da uomini, donne, vecchi, bambini, ricchi e poveri il giorno dei morti.

Appena la campana della chiesa (non tutte le chiese hanno una catacomba) suona a mortorio – è l’alba – comincia il pellegrinaggio. A quattro, a cinque le donne del popolo si avviano per gli androni sotterranei: hanno la precauzione di tenersi per mano, temendo da un momento all’altro un assalto diabolico di quei brutti ceffi messi all’impiedi e legati per la gola e pei fianchi.
Certe volte non è raro il caso che l’aria mossa o qualche ragazzaccio facciano cadere un teschio di monaco: il teschio batte per terra con rumore di brocca spezzata, fa un paio di capitomboli e si ferma. Le donne emettono un grido di spavento e fanno quattro passi indietro; il solito ragazzaccio allora si avanza ridendo e con una canna alza il teschio da terra e lo mette a giacere fra i piedi del monaco più vicino.
Le donne lo sgridano; il birboncello si vendica sfiorando con la canna gli abiti di qualche comare (Dio ci liberi, la canna con cui ha toccato il teschio!) e poi scappa all’aperto. Le donne si fanno coraggio: qualche uomo s’è unito a loro, cominciano a venire altre comitive; i discorsi s’incrociano; le spiegazioni umoristiche non si contano. Quel teschio è mafioso! Quell’ altro guarda di sbieco! Quel terzo pare che dorma!

La visita continua più allegra che mai. Siamo arrivati alle sepolture scoperte. Qui non ci sono più monaci ma dei feretri: alcuni senza coperchio, altri che si possono scoprire, il resto coperti da lastre di vetro o di cristallo: sono gli antichi aristocratici, fuori dal profano contatto del volgo, che mostrano ancora la faccia, le mani incartapecorite e gli abiti di lusso, quelli che indossavano nelle grandi occasioni. Tutti i feretri coperti dal cristallo – o quasi tutti – contengono dei corpi imbalsamati.
Una volta che mi recai per visitare la mia avola materna mi fu dato di vedere nel feretro accanto una giovinetta imbalsamata meravigliosamente; la faccia e le mani erano candide come l’alabastro, le labbra e le unghie quasi rosee; indossava un vestito bianco ricamato d’oro e portava delle scarpettine minuscole di raso giallo; se fosse stata tolta da quella cassa e posta a dormire su d’un letto, l’avreste detta una povera fanciulla svenuta prima di andare a nozze. Eppure quella morta riposava in pace da mezzo secolo!

Davanti a questi feretri tace il riso ed un senso di meraviglia s’impossessa di tutti. Si visitano le casse una per una; qualche vecchio ha si gran pratica di quei luoghi che ripete partitamente i nomi di quei poveri morti. Qualche volta anche i fanciulli sono informati di nomi e di storie: storie confuse il più delle volte ma sempre tristamente paurose. Ricordo che un giorno un ragazzo del popolo messo accanto ad un feretro narrava ad un crocchio di persone il dramma del morto: e avea negli occhi, nella bocca, nelle mani dei movimenti convulsi d’un’efficacia meravigliosa. Si trattava d’un malandrino ucciso dai suoi compagni per non so più quale rivelazione: il morto – uno degli ultimi messi nella catacomba – aveva il cranio fasciato con un fazzoletto bianco tutto lordo di sangue: la storia doveva essere autentica…
Immaginate un po’ lo spavento delle donnicciuole!
Ma è uno spavento passeggero: ben presto ripigliano la loro visita ai morti delle nicchie i quali sembrano stanchi di tante profanazioni…
Già: che volete! a me sembrano delle profanazioni belle e buone. Bisognerebbe pigliar cura di quei cadaveri o vietarne l’accesso al pubblico: così come stanno le cose, non è civile che vadano più oltre. Perchè non ci pensano le autorità competenti?…
Ma… torniamo alla visita. Le donne del popolo, dopo essersi saziate, vanno via e cominciano a venire le signorine – l’uso però va perdendosi – accompagnate da cavalieri vestiti a lutto: è una visita che si fa ai parenti, nient’altro: si dice una preghiera e poi si esce…

La campana suona ancora a mortorio; ma è già tardi e la chiesa si chiude.

V. Saccà

Tratto da: Rivista delle tradizioni popolari italiane, Volume 1
a cura di Angelo De Gubernatis.
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