Il Ponte di Rialto a Venezia

Le due parti di Venezia, che restano divise dal gran canale, non avevano tra loro communicazione che per mezzo delle barche sino a che, nella seconda metà del secolo duodecimo furono unite da un ponte appoggiato su barche dall’ingegnere Barattieri nel luogo dove ammiriamo il presente; e solo quasi un secolo dopo se ne fece uno sullo stile, rotto poi nella ritirata del 1310 fatta in Rialto dai congiurati di Boemondo Tiepolo. Alla metà del secolo decimo quinto rovinò ancora in occasione di estrema calca, nel passaggio della sposa del Marchese di Ferrara, ovvero forse nell’entrata di Federico III.
Se ne costrusse allora uno più ampio fiancheggiato da botteghe come vediamo nel miracolo del Sacramento di Giambellino. Caduto in parte anch’esso nel 1523 si pensò dal Governo ad erigerne uno di pietra. Non se ne fece però nulla in allora. E siccome appunto era svanito anche nel principio del secolo decimo sesto un simile divisamento promosso da Fra Giocondo; ed al modo stesso che non aveva avuto esecuzione intorno a trent’anni dopo ne meno il progetto di Michelangelo, così restò anche quella volta di legno per oltre a settanta anni, chè tanti in circa ne corsero prima della erezione del grande arco attuale.

Il ponte sontuosissimo che dal Palladio si pubblicava vent’anni prima della fabbrica di questo, credesi a ragione ideato anch’esso per Venezia. Ma non lo fu forse per la medesima situazione; giacchè a primo avviso non sembrerebbe credibile che ad un tanto artista potesse accadere di proporre quello che realmente non si avesse potuto mettere convenientemente in esecuzione, come il professore Selva ha dimostrato in addietro. Nondimeno considerando per altra parte che niun altro sito fuori di Rialto, specialmente a quel tempo, avrebbe offerto maggiore convenienza e comodità, e che niun’altro più ne abbisognava, è forza, nel convenire con la comune opinione, osservare che i maggiori abbagli non sono quelli dei quali più vada esente il gran genio; e che agli uomini i più sommi occorre più facilmente perdersi nei più grossolani errori.

Nè questi architetti soltanto produssero i loro pensieri per tale lavoro: ma il Vignola, ed il Sansovino, e lo Scamozzi concorsero anch’essi con vari progetti; essendo quella occasione luminosa tanto da non doversi trascurare da niuno che mirasse a gloria nell’arte.
Qualunque poi fosse il motivo che a preferenza di tutti e specialmente a confronto dei progetti dello Scamozzi, il quale più di tutti brigava e più di tutti aveva brigatori, venisse scelto il modello offerto da Antonio da Ponte, egli è certo che ad architetto di esperimentato valore nella solidità si offeriva una impresa importantissima principalmente per questa parte. Essendosi egli di fresco procurato fama di valentissimo pratico, ed avendo reso un gran servigio al cittadino decoro col suo magistrale ristauro del palazzo Ducale, per la conservazione del quale dobbiamo chiamarci debitori ad esso ben meritava per tal conto un così onorevole incarico.

Non mancò per altro che questa sua sorprendentissima costruzione corresse pericolo di non avere compimento. Gettatene le fondamenta nel 1588, si sparse un tale cicalio di derisioni, di accuse alla condotta del Da Ponte in murarle, che dubitandone forte della da chi gli presiedeva, gliene fu sospeso il proseguimento. Vinto però, o la fatuità, o la malignità delle accuse, fu condotta l’opera a termine con tanta accurata capacità, che su di un fondo periglioso, come questo di Venezia, non ebbe mai ad avvallare di un pelo. E tanta opera venne a termine nello spazio di soli tre anni.
La luce dell’arco di questo ponte veramente maraviglioso è di piedi 84, il rigoglio, o sia l’altezza sopra il comune dell’acqua é piedi 20, la grossezza piedi 4, la larghezza sul dorso del ponte è di piedi 68. Questa latitudine è ripartita in cinque spazii; cioè in tre strade, e due ordini ossian file di botteghe fra le strade medesime. La via più larga è quella di mezzo: Le due minori sono sui lati verso il canale.
Quella è larga piedi 19, e queste piedi 9, per ciascheduna. La latitudine delle botteghe e di piedi 18. Queste sono ventiquattro; sei per parte, sia nell’ascesa, che nella discesa. Nel mezzo del ponte vi sono due archi che congiungono le testate delle botteghe, con pilastri alla dorica, sopra ornato e frontoni che torreggiano sopra le stesse.

Un maestoso cornicione ricorre su ambedue i lati del ponte, con nobile balaustrata che fa sponda a cadauna delle due vie minori. Altre discese vi sono con balaustrata a destra ed a sinistra, tanto verso i Camerlinghi e la riva del vino, come verso il fondaco e la riva del ferro. Sulle coscie dell’arco verso S. Luca c’è da lato Nostra Donna di mezzo rilievo, e dall’altro l’angelo e nel serraglio la colomba, che accennano il mistero dell’ Incarnazione. Sul fianco verso SS. Apostoli vi sono pure di rilievo S. Marco e s. Teodoro, protettori della nostra città. Sono opere di Girolamo Campagna scultor veronese.
Tutta questa macchina è di pietra d’Istria, Scrive il canonico Stringa, come testimonio di veduta, che tanta fu la copia delle delle pietre vive murate in questa mole, che prima di lavorarle, tutte le piazze di Rialto ed i luoghi vicini n’erano pieni. Ammirabile è il meccanismo di questa grande opera; e vuolsi tenere per cosa assai singolare il non essersi mai avvallata, nè mossa di un pelo. Per memoria della edificazione di questo ponte fu scolpita in marmo la seguente iscrizione.

PASCALE . CICONIA . VENETIARUM . DVCE
ANNO . CHRISTI . MDXCI . VRBIS . CONDITAE . MCLXX
CVRANTIBVS . ALOYSIO . GEORGIO . PROC.
M. ANTONIO . BARBARO . EQ . ET . PROC.
JACOPO. FOSCARENO . EQ. ET . PROC.

Il ponte di pietra di Rialto

Le due ali di botteghe le quali corrono lungo il dosso di questo grande arco sono in vero di cosi pesante conformazione e n’è cosi goffo lo stile da meritare giustamente al Da Ponte le censure che per tal parte furono sempre fatte a questa sua degna opera.
Nondimeno il ponte, propriamente detto, prescindendo anco dalla imponenza della sua mole e del pregio di una maravigliosa solidità, è tale anco dal lato della convenienza e del decoro, cosi nel tutto come nelle parti, da doversi considerare, non solo come uno dei più distinti monumenti dell’arte, ma altresì quale esempio di simili costruzioni.
Non mancò per altro chi lo chiamasse un progetto meschino, una informe congerie di sassi. Niente altro! È da credere che un tale giudizio preciso sarà derivato da una riposata analisi su tutte le parti costituenti questo classico monumento, considerato sotto i vari aspetti della convenienza, del bello, in relazione colle esigenze del luogo e delle circostanze.
E forse che un giorno si potrà, dietro una precisa dimostrazione di chi pronunziò una tale crudele sentenza, convenire colla opinione di lui. E forse che potrà l’autore di essa far cambiare con ragioni di fatto dedotte da principj incontrastabili la opinione europea, la quale ben lontana dal considerare il ponte di Rialto come un meschino progetto lo ammira anzi come una delle più stimabili cose che rechino onore all’ingegno umano.
Ma frattanto si resterà nella dubitativa credenza: essere estremamente pericoloso nella imperizia dei principii radicali di una scienza o di un’arte qualsiasi il discorrerne troppo, e più pericoloso ancora il giudicarne in troppo definitiva maniera.
Al qual caso sembra appunto essere, relativamente alla architettura considerata, o come scienza, o come arte, chi credette bene chiamar questo ponte una informe congerie di sassi, non potento tollerare che il meschino progetto di esso venisse anteposto alla grande idea di Fra Giocondo.
Certo che a chi giudicò a questa guisa sarà nota questa grande idea ed ogni particolare di essa, giacchè ne parla con tanta sicurezza; ma non cosi a me. Posso dunque dir solo che non saprei disprezzare tanto l’opera del Da Ponte nė meno dopo aver ammirato il progetto sublime del grande Palladio, al quale oso dubitare che non sarà superiore quello del celebre Fra Giocondo; almeno per quanto è concesso dedurre dagli indizj delle altre sue opere conosciute.
E dico poi che per esaltare tanto Fra Giocondo, non era necessario vilipendere un meritissimo uomo, che se non poteva forse uguagliarlo nella dottrina, non gli era al certo inferiore (a dir poco e giudicando dalle opere e non dalle ciarle) nell’esercizio dell’arte sua.

Lo Scamozzi intanto, ad onta della meschinità di quest’opera, pienissimo come era di vanità, se ne attribuì il merito dicendola sua con tanta precisione da indurre quasi in sospetto di un qualche abbaglio degli storici, o di errore nei documenti: essendo persino incredibile che potesse un uomo valente spingere cosi avanti la impudenza e il ciarlatanesimo.
E qui un fatalista direbbe essere stato contrario il destino al Da Ponte, e in vita, e in morte. – Sì, se nella indigenza andava al sepolcro, ove non fosse stato sovvenuto dal governo; prova di onestà dopo la condotta di più opere pubbliche. – Si, se la oscurità nasconderebbe il suo nome senza le cure di un qualche biografo, e se finalmente non sono ancora terminate le vicende della sua gloria!

Alcuno direbbe forse che è pur utile alle volte un poca di ciarlataneria! Chi la possede si goda. E chi non vuol saperne . . . . suo danno.

Articolo tratto da: Cosmorama pittorico – 1835
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