Il FUOCO FATUO

E. AUGUSTO BERTA

Ne ho visto un solo in tutta la mia vita. È uno spettacolo strano, molto strano.
Esser soli, di notte, per una strada; vedersi passare accanto un cane nero, ossuto, sfiancato, che annusa e fugge ringhiando sordamente; sentirsi un pipistrello che viene a dare una capata nella nostra faccia; sentire una civetta che c’insegue col suo stridere insistente, sinistro, malaugurato; evocare uno ad uno i più orrendi e mostruosi fantasmi che si possano immaginare, tutto ciò è nulla in paragone dell’incontro d’un fuoco fatuo.
Il fuoco fatuo è un abitatore del buio; abitatore muto, silenzioso, che va… Va… va sempre.
Dove?… E perché ?…
Il buio è spaventoso di per sé. Rischiarato da quella luce errabonda, diventa terribile.
È come un occhio di fuoco che dalle infinite profondità di quell’ignoto che è il buio, si sbarra sopra di noi.
Una luce rossastra, fioca, scialba, che pare animata da una volontà. Non ha nessuna forma ed ha tutte le forme. Se incontra qualche sul suo cammino, non devia, non cede il passo. Il corpo si trova avviluppato da essa. Si direbbe che la luce voglia penetrare il corpo; invece è questo che entra nella luce. È un fantasma per cui non esiste proprietà di spazio. Pare che voglia sostituirsi a tutto ciò che incontra sul suo passaggio.
È uno spettacolo di luce. Ma, Dio mio, qual luce!
La luce è gaia. Questa è tetra. Si direbbe una massa luminosa passata in un bagno di latte e di mistero. È un enorme lucciolone. Solo che la lucciola è una vita; pel suo addome che ora s’illumina, ora s’abbuia, sembra scorrere un palpito; la lucciola ama. Nel fuoco fatuo invece vi è nulla…

E chi lo dice che v’ha nulla?
Un vecchio soldato che ha fatte le campagne di Napoleone, e che nelle lunghe sere d’inverno intrattiene la numerosa sua discendenza col racconto delle sue avventure; che parla del rombo del cannone colla stessa compiacenza con cui noi si parlerebbe di un bel gorgheggio d’una prima donna, o di una battuta di valzer, al sentirsi dire che avevo incontrato un fuoco fatuo per istrada, spalancò tanto d’occhi, come un bimbo pauroso che ascolti la storia del mago delle sette teste, si scoperse il capo e biascicò non so quale giaculatoria facendosi un segno di croce. Per lui, figlio d’un altro secolo, d’un secolo meno ateo e meno materialista del nostro, quel fuoco rappresentava un intero ordine di fatti, un ordine non classificabile da mente umana: il soprannaturale.
Quella luce errante pel buio è la dimora, la forma sensibile, visibile d’un’anima.
I morti dalle loro scure abitazioni di terra, dai letti dei loro ruscelli mormoranti misteriosamente fra i legni delle bare e le radici dei fiori abbarbicate alle ossa spolpate e bianche, escono pel mondo. – Ed escono silenziosi come il mistero.
E vanno pel mondo, e dicono ai vivi cose stranissime, che non s’intendono perchè sono cose dell’altro mondo. Una cosa però si capisce: ed è che essi sono infelici, che son dannati, che errano per iscontare le colpe commesse in vita.
Questo è il significato che la superstizione dà all’apparire di questi fuochi, chiamati anime suffraganti.
E la superstizione s’impone.
La sera ch’io vidi quel fuoco fatuo avevano portato in cimitero una povera fanciulla morta d’etisia.
Era una povera è buona fanciulla. Aveva capelli biondi e lunghissimi. Aveva quel carnato leggermente roseo, quasi diafano, che hanno gli etici. Oltre la tubercolosi, soffriva un’altra malattia: il mal d’amore. Un amore che dava ai suoi lineamenti un’impronta strana, tra l’addolorato ed il beffardo. Pareva che con quella sua aria beffarda volesse nascondere ciò che soffriva.
E soffriva molto la poveretta! Perchè lui – un birbone qualunque, come ce n’è tanti al mondo – dopo averla amata per qualche tempo, l’aveva abbandonata… Madre, disprezzata e fuggita da tutti. Ed ella se ne accorò tanto che finì per morirne.
Io ne avevo piena la mente; ed in quel fuoco fatuo che non aveva forma, e che pure aveva tutte le forme, giunsi perfino a scoprire la fisonomia tra l’addolorato ed il beffardo della povera morta, che scontava forse la sua colpa… di avere amato.

Quantunque in me non ci fosse superstizione.
Sul nostro orizzonte avvenne una grande battaglia. Un mostro contro un genio. Un mostro di tenebra contro un genio di luce. Il mostro – la superstizione – aveva le ali di pipistrello; il genio – la scienza – aveva l’aureola fulgentissima del cherubino. L’esito della lotta fu la fuga del pipistrello nel buio, nel nulla; il trionfo del genio in un turbinio di atomi luminosi.
Abbiamo ucciso la superstizione.
Essa si è ritirata co’ suoi fantasmi, colle sue ridde di streghe, co’ suoi paurosi sabba, colle sue scricchiolanti danze macabre, colla sua minacciosa immagine d’un Dio forte, prepotente e geloso, colle sue macerazioni, co’ suoi digiuni, co’ suoi terrori mistici, si è ritirata nei petti delle femminucce, sui vertici delle montagne abitati da pochi ed ignoranti mandriani. Alle sue nenie fatidiche, alle sue ballate terribili si è sostituito un inno santo e sereno: l’inno della vita, del lavoro.
Nei profondi burroni delle montagne si sentono ancora dei rantoli e dei gemiti. Sono le streghe moribonde; sono gli Elfi, i Giganti, i Gnomi, tutta una falange di defunti caduti sotto la spada fiammeggiante di quel genio che si chiama Scienza.
Il campo di battaglia fu il mondo intero. I duellanti, due principii: Ignoranza e Scienza.
Una battaglia nelle tenebre che lasciò una splendida striscia di luce.
E la scienza entrò nei cimiteri. Guardò i fuochi fatui, errabondi tra le arche, i cippi, gli steli di marmo; vide la moltitudine dei tremanti in faccia a quelle apparizioni e rise.
Il suo riso fu tacciato di cinico. Era la distruzione di una vecchia credenza. Era il ghigno di Mefistofele in faccia all’umanità religiosa e timorata. Negare l’essenza soprannaturale quelle fiammelle vagabonde era un distruggere la timida e paurosa religione di mille generazioni. Eppure il genio della Scienza osò gettare in faccia al mondo, come una manata di fango, la gran parola: Ignoranti!

Da quel giorno il fuoco fatuo fu ridotto ad una meschinissima cosa. Un’emanazione gassosa.
Ecco tutto. Chi ha paura di un po’ di gas? Non lo vediamo noi ardere, splendere nei nostri conviti, nelle sale da ballo, nei teatri? Dunque, perchè la religione, il misticismo, il soprannaturale in queste fiammelle? Che cosa sono le anime purganti dannate a errar pel mondo? Fole! Dissoluzione! Combustione ! Ecco il fuoco fatuo.
Un fenomeno naturalissimo.
Ridotto alla forma naturale, borghese, di fenomeno chimico, il povero fuoco fatuo perdette il suo regno, e corse a precipitarsi nelle fosse e nei feretri. Quivi certamente narró ai morti non ancora completamente disfatti, che il cinismo, l’irreligione, l’ateismo ha invaso il mondo.
Da quel giorno erra ancora pel mondo, ma modesto ed umiliato. E preferisce le notti d’estate, o d’autunno, che tengono dietro alle giornatr d’afa ed un po’ umide.
Il mondo lo guarda colla ragione.
Tuttavia, rannodando nell’apparizione di quella luce morta, scialba, silenziosa e foscia le tradizioni delle vecchie generazioni, uno non può schermirsi da un certo senso misterioso, indefinito. Non è paura. È un’eco mistica della paura che fino a ieri invase il mondo in faccia a quell’apparizione.
E se in una discussione accademica se ne ride, di notte, soli, per una strada, non se ne ride più. Forse si teme, ridendo, di fare uno sfregio alle generazioni che per tanto tempo vi hanno creduto.
Ed il fuoco fatuo passa e va, silenzioso e fosco come un re che abbia perduto la corona, va a nascondersi sotto terra.
E qualche volta, quand’esso s’interra, il gallo canta. Il gallo, questo innocente complice della superstizione!

EDMONDO AUGUSTO BERTA.

Da: Gazzetta letteraria
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