Il dì dei morti

Di Carlo D’Ormeville

A nessuno certo de’ lettori suonerà sgradevole questo titolo. Il 2 novembre è giorno sacro per tutti; il dì dei morti ha per tutti un particolare interesse. Quella funebre squilla che fende mestamente l’aria co’suoi lenti rintocchi non isfugge a nessuno.
Essa è una parola generale, che assume per ciascuno un senso individuale, e che ogni cuore comprende e si ripercuote in ogni petto. La campana mortuaria di questo giorno solenne è una personificazione del dolore di tutto il genere umano: è la voce delle tombe entro cui le fredde ossa si scuotono e le mute ceneri si rianimano. In queste fuggevoli ore di ricordo annuale una malinconia profonda, che sbuccia nell’anima come una pallida viola del pensiero, sorge in noi a far le veci di volontà con un dolcissimo impero.
Messe infatti da un lato tutte quante le solite faccende, tutte quante le consuete abitudini, tutti gli affari e tutti gli studi, amore e necessità della vostra vita; noi usciamo soletti, disadorni e silenziosi da casa nostra e sentiamo il bisogno di recarci colà, dove dormono già tanti e dove un giorno dormiremo anche noi.
E mi ricorda di un anno in cui, protratta fino a mezzo novembre la più dilettevole delle mie villeggiature in una amenissima campagna di Lombardia, io mi recai nel giorno dei morti a visitare il cimitero del piccolo villaggio che mi ospitava.
Quando giunsi al mesto recinto, il sole impallidiva precipitando al tramonto, ed il cielo nebuloso parea coperto di un velo di malinconia indefinita. Entrai: il luogo mi parve deserto. Era un breve campo circondato da mura di mediocre altezza e sparso di croci e di monumenti tanto più solennemente grandiosi quanto più umilmente modesti. Salici e cipressi, cespi, di rose e di gigli, profumi di viole e d’incenso poetizzavano fantasticamente quella casa degli estinti e diffondevano intorno una placida calma, che faceva amare la morte. Oh! come allora mi parvero vane le pompe ed il fasto, che la boria di un illustre casato profonde ogni giorno nei superbi mausolei cittadini!… Oh! come nobili e commoventi mi parvero invece quei sepolcri semplici e nudi, che l’amore aveva eretto a sincera testimonianza di memoria indelebile!…
Assorto in queste e simili meditazioni, rimasi a lungo sulla porta del cimitero, di me stesso dimentico e di tutti. Il canto flebile e cadenzato di un vetturale, che passava al di fuori sulla strada maestra col suo birroccio, mi scosse da quella specie di estasi e m’inoltrai.
Avevo fatto appena dieci passi, quando la grave a severa figura di un uomo, inginocchiato dinanzi ad una tomba ed immobile tanto da parere la statua del dolore messa là per decorazione di quel sepolcro, mi colpì stranamente la fantasia.


Proseguii, rimirandolo sempre, ed ebbi cura di non turbare menomamente quell’infelice; ma più io mi avvicinava e più l’aspetto della sua angoscia profonda mi commoveva ogni fibra. L’incognito non si scosse; io mi fermai a pochi passi da lui; mi prostrai presso una tomba e pregai con una fede, che mai per lo innanzi avevo sentito in me così viva, nè mai più forse mi avverrà di sentire nell’avvenire.
Io unii coll’intenzione la mia preghiera a quella dello sconosciuto, ed invocai sovr’esso dal cielo una di quelle consolazioni, che nessuna parola umana può dare. Un’ora circa trascorse, e chi sa in quell’ora quanti dolori si rinnovarono nella memoria di quell’uomo, cui, sebbene a me affatto ignoto, mi legava già un affetto che non saprei definire.
Finalmente egli si alzò; io era a lui vicinissimo, ma nascosto dietro un cippo funerario, che mi sottraeva al suo sguardo. Dal mio posto per tanto lo vidi mandare un ultimo bacio a quella tomba diletta, e proferire un – addio, Giannina – che mi strappò, mio malgrado, dal ciglio lacrime sincere e soavi.
Dopo quel bacio e quel saluto si avviò per uscire, ed allora soltanto, passandomi dinanzi, si avvide di me. Il mio aspetto e le mie lacrime lo colpirono, si fermò, mi guardo lungamente con un piglio dolce e severo ad un tempo, poi mi stese la mano e mi disse! – addio, fratello. – Ma questa parola – addio non significa sempre un toglier congedo; spesso anzi è l’esordio di un lungo discorso, il principio di un dialogo, il punto di partenza di un racconto. E cosi fu difatti in quel caso. Io strinsi commosso la mano ch’egli mi porse, la trattenni nelle mie, e rispose cortesemente: – addio, – signore. –
Seguirono alcuni momenti di silenzio: l’incognito (che era un uomo sui cinquanta, piuttosto alto e magro, di fisionomia intelligente e leale, e di apparenze oneste e cortesi) lo ruppe per il primo dicendo:
– Avete qui qualche sacra memoria anche voi?…
– No, risposi, io sono forestiero.
– E perché dunque veniste?… Soggiunse aggottando alquanto le ciglia e lasciando andare la mia mano: i cimiteri sono sacri non lo sapete?
– Oh! Lo so.
– Andate dunque a passeggiare altrove, e lasciate in pace coloro che sono qui tratti da ben altro motivo che non sia quello di una gita o di una curiosità.
– Ma io non ci venni, soggiunsi tosto dolcemente ma con fermezza, né per l’una né per l’altra di queste due cause.
– E perché dunque?…
– Perchè una visita al cimitero in questo giorno solenne è un sacro dovere che io compio fin dall’età di dieci anni… età in cui la morte rapì mio padre.
– Ma esso non è qui sepolto?
– No, ma le case dei morti si rassomigliano tutte, e si prega per un’anima cara in qualunque cimitero, come si prega Dio in qualunque chiesa.
– Questa risposta parve tornargli gradita, poi che il suo sembiante si rassegnò e la sua mano strinse di nuovo la mia.
– Quando io vi passai dappresso, continuò poi, avevate delle lacrime agli occhi. Mi sono forse ingannato?…
– No, signore.
– E piangevate pensando a vostro padre?…
– Credo che farei meglio a rispondervi di sì, ma non direi il vero.
– E per chi dunque piangevate, se la mia domanda non è importuna?…
– Per la vostra Giannina, o signore.
– Che?… La conoscete voi?… Che ne sapete?… Chi vi ha detto?…
– Quel poco che ne so me lo diceste or ora voi stesso. Vi vidi assorto in preghiera presso quella tomba e fui commosso dal vostro dolore. M’inginocchiai qui e pregai io pure unendo ai vostri i miei voti. Quando finalmente vi alzaste, sclamando commosso – addio, Giannina – mi sentii le ciglia gonfiarsi di lacrime, senza saperne spiegare il perché.
– Ma chi fosse colei lo sapete?…
– No davvero.
– Mia figlia!… sclamò, e mi strinse fra le sue braccia baciandomi, come un fratello di quella sua povera morta.
Calmato alquanto da quella nuova e più violenta emozione, si assise poco dopo sopra un banco di pietra, mi fe’ cenno di fare altrettanto, e riprese:
– È una breve e semplice istoria la sua che vuo’narrarvi, poiché quelle lacrime sparse per lei ve ne danno il diritto.
Mi posi a sedere vicino a lui in religioso silenzio ed attesi. L’aria intanto s’era fatta buia, la nebbia dileguata quasi del tutto, e la luna sorta ad illuminare mestamente quella patetica scena.
– La mia Giannina, incominciò sospirando quel padre desolato, era una vispa giovinetta di sedici anni, bella e buona, come un cherubino del paradiso. Sua madre, santa donna, che ho adorata con tutto l’entusiasmo de’miei venticinque anni, mi lasciò nel darla alla luce.
Tutto l’amore, tutta la speranza, tutte le gioie della mio vita io avea dunque concentrate in lei sola, nella mia unica figlia, che cresceva in virtù ed in bellezza, formando l’ammirazione di tutti gli amici e conoscenti, e l’invidia di tutti i padri e di tutte le madri. Dirvi con quanta cura e con quanto affetto io mi venissi educando quel tenero fiorellino, sarebbe cosa impossibile: io non viveva che per lei, l’anima mia era sospesa alle sue pupille, la mia esistenza pendeva da una parola di quelle labbra innocenti.
Una sola idea, un solo pensiero mi conturbava di tratto in tratto… l’idea e il pensiero del suo avvenire; ma quando essa, la mia cara bambina, mi vedeva meditabondo e malinconico, correva a me tutta lieta, mi saltava sulle ginocchia, mi carezzava con quelle sue manine gentili, mi baciava gli occhi e la fronte, ed ogni nube di malinconia spariva dal mio volto come per incanto.
Come ero felice!… Oh! mio Dio, come ero felice! La nostra dimora a que’ tempi era in Venezia; mia patria, e tutto andò senza guai fino al 1859.
Ma quando cominciarono per tutta Italia i movimenti politici, che tanta scossa di affetti e di speranze destarono anche fra noi, la scena intima che fin qui vi ho descritta si cangiò interamente, e ai giorni beati di felicità e di allegria successero giorni di angoscia e di spasimi, che andarono, come vedete, a finir là in quella tomba.
I nostri sguardi si volsero instintivamente su quella croce inghirlandata di fiori e baciata da un pallido raggio di luna, e la contemplammo insieme per qualche istante senza far motto.
– Nè vi aspettate, riprese quindi il narratore, uno dei soliti romanzi, in cui l’amore e la politica producono un dramma a grandi effetti e come si degnavano chiamarci, con larghe impromesse di promozioni e di danaro a chi, fiutando i nostri segreti, giungesse a porci addosso le zanne. Pensate voi lo zelo di quei birri, la maggior parte dei quali erano italiani al servizio dello straniero! Un indizio, un sospetto qualunque bastava per perquisire una casa ponendola tutta a soqquadro, e menar prigione un individuo malmenandolo e bistrattandolo con ogni sorta di villanie.
La buona Giannina, che aveva indovinato il mio segreto e che era di un carattere eccessivamente impressionabile, viveva in un continuo terrore. Era mesta sempre e pallidissima e dimagriva visibilmente ogni giorno. Invano io tentava rassicurarla; essa si sforzava di sorridermi, ma quel sorriso celava una indomabile angoscia. Nè aveva torto la poverina. Una notte – oh! che notte d’inferno fu quella! – una tempesta di colpi furiosi venne a percuotere la nostra porta. Giannina, che aveva allora quindici anni, si destò di soprassalto, balzò dal letto, si gettò addosso in fretta in fretta un vestito, corse nella mia camera esterrefatta, e con quella preveggenza dell’amore che non s’inganna mai, – papà… papà mio… gridò, vengono a prenderti… salvati per carità!… – Io non pensai che a salvare i miei compagni, distruggendo le molte carte che erano in mio potere, ed ebbi appena il tempo di farlo, poichè la porta scassinata cadde sotto i colpi violenti di dieci gendarmi dell’impero.
Colto da un tremito convulso e da un mortale deliquio, la mia povera Giannina cadde a terra; io corsi a rialzarla, la deposi sopra il suo letto, e strappato brutalmente dalle sue già braccia fui rinchiuso in una segreta delle prigioni di Stato. Per sei lunghi mesi non mi fu data vederla, nè aver notizie di lei, e ciò che in quei mesi ho sofferto nessuno al mondo potrebbe indovinare e comprendere.
– Povero padre!… sclamai io,
– Povera figlia!… aggiungete, rispose il mio incognito. Distrutte le carte, non altra prova esisteva contro di me che l’asserzione di un infame delatore. Fui interrogato, ma negai tutto; si tentò di lusingarmi, ma invano: si ricorse alle minaccie, ma invano ancora. La rabbia del governo, che anelava di abbrancare i miei amici del Comitato, si volse in furia decisa, e Giannina, la buona, fu citata a comparire negli uffici segreti della polizia tedesca.
Ivi le si disse senza riguardi che una condanna di prigionia perpetua e forse di morte pendeva sul mio capo, e che il solo mezzo di salvarmi era lo svelare i miei complici. Questo annunzio fu un colpo di fulmine per la poveretta. Nulla sapendo, nulla potè dire; ma questo silenzio fu creduto una scusa e le fu dato tempo a riflettere. E questo tempo durò sei mesi… sei lunghi mesi!… Invano essa giurò piangendo di non saper nulla di complotti o di trame; invano supplicò per la Madonna e per tutti i santi di rivedermi un solo istante.
Passarono quasi duecento giorni senza che quella sventurata sapesse di me altro che la condanna di galera in vita o di morte era probabilissima e forse vicina. Istruito però finalmente il processo, e mancando affatto le basi per una seria condanna, mi si applicarono senza alcuna ragione legale otto anni di carcere e potei rivedere mia figlia. Ma in quale stato, mio Dio!… L’ombra sua lo rividi e non più lei!… Povera Giannina, tu eri già scomparsa del tutto… Persone altamente influenti mi procurarono la commutazione della pena di carcere in quella di esilio, e qui mi ritrassi in una mia possessione con quella cara già moribonda.
– E nulla valse a salvarla?…
– Nulla!… nulla!… Quell’anima così sensibile, scossa violentemente da tanti colpi improvvisi e fatali, non ebbe forza a resistere. Una lenta febbre continua s’impossessò di lei, divorando giorno per giorno, ora per ora, la sua esistenza, e dopo quattro mesi dal nostro arrivo in questo villaggio, in una notte di autunno simile a questa, io me la vidi spirare fra le braccia benedicendo il mio nome e non maledicendo a nessuno.
Questo racconto fu un balsamo per quel povero padre, poi che quel suo dolore cupo, muto, profondo, sollevato alquanto da quello sfogo, si sciolse in lacrime ed al suo pianto io congiunsi anche il mio.
Quando ci muovemmo dal cimitero per far ritorno al villaggio, era notte già alta, e nell’uscire dal sacro recinto un nuovo – addio, Giannina – echeggiò per quelle aure tranquille, ma non proferito, siccome prima, da una voce soltanto.

Carlo D’Ormeville

Articolo da: L’Illustrazione popolare, Volumi 5-6 – 1872 –
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Carlo d’Ormeville (nato il 24 aprile 1840 a Roma e morto il 26 luglio 1924 a Milano) è stato un drammaturgo, librettista, critico musicale e impresario italiano. (Wiki)