Charun il Caronte Etrusco

Charun è uno spaventevole demone infernale; è a capo d’un gruppo d’altri demoni, armati come lui di qualche strumento, in compagnia dei quali per lo più si trova rappresentato nei monumenti dell’arte etrusca. Egli à famiglia, à la sua Carontessa, che corrisponde in certo modo alla Xapóντioσa dei Greci moderni.
Charun non è traghettatore di anime, ne è conduttore: rare volte si vede col remo; e ciò si deve, io credo, alla notizia del nocchiero d’Averno pervenuta a qualche artista, e non al volgo: Charun, pur essendo un servo di Mantus (Dio dell’oltretomba) è molto più libero. Non solo conduce nel cieco regno i defunti, ma accorre presso di loro, quando stanno per morire, e aspetta con sorriso maligno che muoiano per condurli con sè, e tormentarli anche.
Qualche somiglianza adunque si scorge piuttosto con Hermes psicopompo o col eάvatos o con l’Hades, il rapitore dei morti, colui che percorre la terra abbattendo le vittime, che rapisce la vergine o il fanciullo…; forse meglio ancora col diavolo. Per queste ragioni e per quanto diremo in appresso, Charun deve ritenersi ne’ suoi tratti essenziali una divinità etrusca; non è improbabile che la sua culla si abbia a ricercare tra i Pelasgi; I. A. Ambrosch, pur credendo che non vi sia quasi alcuna analogia fra Charun e Xápwv, assegna loro una comune origine egiziana, tra la trentesima e la quarantesima olimpiade. E. Braun invece è d’opinione che esso venga dal misterioso culto dei Cabiri; il Gerhard infine che sia d’origine nordica, e nota la somiglianza col dio Thor.
Charun è per lo più un vecchio scarno, livido e spaventoso, con occhi fiammeggianti e con aspetto selvaggio. Talvolta à faccia di color nero con labbra sporgenti e naso schiacciato, avendo sulla testa una corona di due serpenti dalla lingua biforcata; le sue orecchie sono asinine, la barba aguzza, e le mani convertite in zampe di leone con grossi unghioni. Tal’ altra poi à faccia satiresca, con capelli e barba lunghi e incolti: un’immagine bruttissima nel suo complesso.
Alle volte à le ali, sulle quali si scorgono degli occhi, simbolo d’ un’intelligenza e d’un potere sovrano; alle volte à brevi corna, facendo così pensare al diavolo. Ora egli appare nudo, ora vestito o d’una corta tunica o d’un lungo chitone; in qualche rappresentazione si vede col berretto in testa, la kavoía (cappello) di Caronte.
Si distingue generalmente pel suo martello; però anche altri demoni lo impugnano: il martello, come suppose il Braun, fu piuttosto un segno di riconoscimento e di dignità che un mezzo di tortura. Ma non sempre Charun si mostra così armato; altre volte viene riconosciuto o per una spada o per una face (fiaccola), la quale è propria delle Furie, o per una specie di páẞdos (palo, pertica) o, infine, per un remo o timone.
Non possiamo finora con molta esattezza e sicurezza ricostruire, per mezzo dei monumenti che ci restano, il mondo sotterraneo di questo antico popolo (Etruria) noi dovremmo per farcene un’idea precisa conoscere almeno, per così dire, i suoi libri Acheruntici. Tuttavia con l’aiuto di quanto si è trovato nelle tombe, ci è dato formarcene un concetto. Non è poi a noi facile distinguere ciò che è proprio della credenza popolare e ciò che fu importato dall’imitazione degli artisti locali, specialmente dai Greci.
Gli Etruschi, i cui riti funebri ànno una certa affinità con quelli degli Egiziani, ebbero, naturalmente, pur essi un mondo sotterraneo, dove le anime dovevano recarsi per ricevere un premio o una pena. Sovrani di questo mondo erano Mantus e Mania, da cui dipendeva Charun con la sua frotta e altre divinità.
Appena una persona sulla terra moriva, Charun accorreva, direi, al letto del defunto, e prendeva subito possesso dell’anima per condurla al suo signore, non senza sbigottirla e tormentarla anche.
È lui, per esempio, che riconosciamo in un vaso dipinto, rappresentante il suicidio di Ajace: dell’anima del quale per impadronirsi esso è là aspettando.
Questo viaggio verso l’eterna dimora, dalla quale però era concesso ai defunti di tornare sulla terra solo in tre giorni dell’anno (24 agosto, 5 ottobre e 8 novembre), uscendo da un’apertura detta mundus per rivedere, invisibili, i loro parenti e per ricevere da costoro i doni e le preghiere, è sovente rappresentato nelle tombe, come abbiamo visto presso gli antichi Egiziani.
Portato il cadavere nel sepolcro, incominciava immediatamente pel defunto una nuova esistenza, simile alla vita sulla terra. Ed è per questo che le camere sepolcrali, scavate sino a otto e a dieci metri sotterra, venivano più o meno riccamente ornate di pitture, di armi e perfino di oggetti di lusso.
Si sono trovate in esse anche delle provviste alimentari, e avanzi di cavalli o di cani: gli animali certamente preferiti dal defunto in vita e col suo corpo seppelliti vivi.
Alle volte il morto viene portato all’inferno sopra un cavallo, come in un’urna di Volterra, dove Charun ci si mostra alato e fornito del martello e anche della spada, dietro al cavallo, che è tirato a capezza da una donna, pur essa alata, la quale à in una mano una fiaccola capovolta.
Però in un’altra bella urna, di Volterra pur essa, si vede la nostra divinità infernale innanzi al defunto che è a cavallo e avvolto in un lungo manto: essa rivolta verso l’ombra, afferra i freni con la sinistra ed è inclinata un po’ indietro come chi faccia uno sforzo grande per far camminare una pigra bestia da soma. Veste una tunica che le arriva sino ai ginocchi e brandisce con la destra il noto martello, quasi appuntato da una parte: il suo aspetto, d’uomo tarchiato e rozzo, à un’espressione di crudeltà; le sue orecchie sono quasi asinine e sulla fronte s’innalzano come tre brevi corna.
Altre volte invece il defunto è portato nel mondo sotterraneo dentro un carro, ora a due, ora a quattro ruote, e tirato da due cavalli o muli; in un vaso scoperto a Corneto si vede un carro, a cui sono legati due cani. Tanto l’Ambrosch che il Braun furono d’opinione che qui si trattasse piuttosto di pompe funebri, una specie di mascherate teatrali, che a quei tempi si solevano fare nella ricorrenza delle feste bacchiche.
Talvolta, infine, tanto il defunto quanto il ministro infernale se ne discendono a piedi nei tenebrosi regni del dio Mantus. Durante la discesa l’anima è sottoposta al capriccio di Charun, che può liberamente tormentarla, fino a che non giungano alla porta dell’Orco, custodito da un tricipite Cerbero dalla coda di serpente. Quivi arrivati, viene subito loro incontro, ritto sopra un carro tirato da dragoni, il nero signore delle ombre, con diadema e scettro, e con la clamide sulle spalle: egli viene a prendere possesso della nuova anima, calata e a condurla seco.
Charun, che ora si identifica quasi, come non è restio ad ammettere il Müller, con Mantus stesso, e ora invece è un suo servo, non è figura ben distinta, isolata, ma fa parte d’una turba di demoni d’ambo i sessi, a capo dei quali è forse posto e ai quali somiglia tanto che con essi si confonde.
Il Müller e il Platner ànno rilevato una certa somiglianza tra il Caronte di Michelangelo nella Cappella Sistina e il Charun etrusco. Del quale una certa rassomiglianza si riconosce pure coi diavoli, e anche con ô κùρ’ Xáρog dei Greci moderni.
Prima di finire, ci pare meriti d’essere ricordata la notizia di Tertulliano, che cioè uno schiavo vestito da Plutone e armato di martello entrava negli anfiteatri e trascinava fuori dell’arena i cadaveri dei gladiatori.
« Mais – dice il Pottier – il n’est pas probable que ce fût une allusion à une croyance religieuse de l’époque: on peut y voir plutôt le souvenir de l’ancienne légende italienne, ressuscitée par quelque ingénieux entrepreneur de spectacles et employée comme une mise en scène mythologique ».

Articolo da: Il mito di Caronte nell’arte e nella letteratura
Di Serafino Rocco
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