I.
Il forzato.
Io mi trovava a Tolone verso il mese di maggio 1835.
Dimorava in una casa di campagna concessami da un amico a mio bell’agio.
Questa casa giaceva a cinquanta passi dal forte Lamalgue, precisamente in faccia al famoso ridotto che vide sorgere, nel 1793, la fortuna alata del giovane ufficiale d’artiglieria, che divenne poi il generale Bonaparte, e, in appresso, l’imperatore Napoleone.
Io mi vi era raccolto nella intenzione lodevole di darmi al lavoro. Aveva in testa un dramma intimo, tetro, terribile, e voleva farlo passare dalla mia mente in sulla carta.
Questo terribile dramma era il Capitano Paolo.
Ma considerai una cosa: e fu, che pel lavoro intenso ed assiduo convengono stanze ristrette, colle pareti vicine, e illuminate da una luce modesta attraverso persiane di bruno colore. I vasti orizzonti, il mare interminato, le gigantesche montagne, specialmente allorquando queste cose sono inondate dall’aria pura e dorata del mezzogiorno, tutto conduce alla contemplazione, e null’altro più che la contemplazione distoglie dal lavorare.
Ne venne che in vece di dar mano al Paul Jones, io immaginai Don Juan de Marana.
La realtà andava a terminare nel sogno, e il dramma nella metafisica.
Io adunque non lavorava, almeno durante il giorno.
Io stava immerso in meditazioni: e, il confesso, quel Mediterraneo d’azzurro, colle sue striscie d’oro, quelle montagne gigantesche, belle di lor terribile nudità, quel cielo profondo e tetro, per essere sempre limpido; tutto ciò sembravami più bello a vedersi, che non mi sembrasse curioso a leggersi quanto avess’io potuto comporre.
Egli è vero che la notte, allorchè io mi provava di chiudere le mie sportella ai raggi tentatori della luna, allorchè io mi provava a stornare gli occhi miei da quel cielo scintillante di stelle, allorchè poteva rendermi solo col mio pensiero, riprendeva qualche impero su me medesimo. Ma, come uno specchio, il mio spirito aveva conservato l’imagine delle sue preoccupazioni del giorno, e, come il dissi, non erano più umani quegli enti che mi attraversavano la fantasia; erano vaghi angeli, che, acenno di Dio, attraversavano con un leggero movimento dell’ali quelle distanze infinite; erano demoni proscritti e schernitori, che, assisi su qualche roccia, minacciavano la terra, ell’era, a dirlo schietto, un’opera quale la Divina Commedia, come il Paradiso perduto, o come Faust, che domandava di produrre null’altro che un lavoro, come Angèle o come Antony. Per mala sorte io non era nè Dante, nè Milton, nè Goethe. E poi, al contrario di Penelope, nel giorno io distruggeva quanto aveva fatto la notte. Giungeva il mattino, veniva desto da un colpo di cannone, e balzava dal letto. Apriva la finestra; torrenti di luce invadevano la mia stanza, scacciando innanzi a sè le misere larve de’sogni miei, spaventato da quel bagliore. Allora io vedeva avanzarsi maestosamente lontano dalla rada qualche magnifico vascello, a tre ponti, il Tritone od il Mongibello, il quale precisamente rimpetto alla mia abitazione campestre, come per darmi quel passatempo, veniva a far manovrare l’equipaggio, o a far esercizii di artiglieria. Poi v’erano i giorni burrascosi, i giorni ai quali il cielo così puro si velava di cupe nubi, in cui quell’azzurro Mediterraneo diveniva cinereo, in cui quell’auretta leggera si cangiava nell’uragano. Allora l’ampio specchio del cielo si corrugava, e quella calma superficie del mare cominciava a bollire, siccome al foco d’una sotterranea fornace. Le placide onde facevansi cavalloni; i cavalloni montagne. La bionda e dolce Anfitrite, come un gigante ribelle, sembrava voler dare la scalata ai cieli, avvolgendo le braccia nelle nubi, e mandando quella voce tremenda, che, udita una volta, non si scorda giammai.
Sicchè il mio dramma se ne andava ognor più a squarci, a bocconi.
Io mi doleva un giorno di questa influenza degli oggetti esteriori sulla mia immaginazione conversando col comandante del porto, e gli dichiarava che mi sentiva affatto sṭanco di reagire contro queste impressioni, dichiarandomi vinto, e che, a cominciare dal giorno seguente, io mi era determinato a darmi interamente alla vita contemplativa per tutto il tempo che rimanessi a Tolone.
In conseguenza, gli chiesi a chi potessi rivolgermi per aver a nolo una barca; essendochè una barca era la cosa di prima necessità che lo spirito, dopo la sua vittoria sulla materia, mi costringeva ad usare.
Il comandante del porto risposemi ch’egli avrebbe cercato di soddisfare la mia domanda.
La mattina seguente, nell’aprire le imposte, vidi a venti passi sotto di me, cullarsi sull’onde presso alla mia riva una bellissima barca, la quale poteva andare a remi ed a vela, e fornita di dodici forzati.
Pensava fra me che quella appunto sarebbe stata una barca che mi avesse convenuto perfettamente, allorchè colui che guardava la ciurma, fece accostare lo scafo, balzò sulla riva, e si diresse alla porta della mia casa.
Io corsi incontro all’onorevole visitatore.
Egli trasse un biglietto da tasca e mel porse.
Io lessi queste parole:
« Caro il mio metafisico.
« Siccome non è possibile stornare i poeti dalla loro vocazione, e siccome, a quanto sembra, finora voi non avete fatto gran conto della vostra, io vi mando la barca che avevate desiderato. Potrete valervene tutto il tempo che rimarrete in Tolone dall’apertura fino alla chiusura del porto.
« Se talvolta i vostri occhi, stanchi da guardare il cielo, volessero pur ridiscendere sulla terra, troverete innanzi a voi dodici galantuomini che vi ricondurranno assai facilmente, e col solo vederli, dall’ideale alla realtà.
« Non giova dirvi che non è a far pompa sui loro occhi nè di gemme, nè di danaro.
«La carne è fragile, come sapete, e dice un vecchio proverbio: – Non conviene tentare Iddio; adunque a più forte ragione, non conviene tentar l’uomo, specialmente quando quest’uomo ha ceduto una volta alla tentazione.»
Chiamai Jadin, e gli dissi la nostra fortuna. Con mia grande sorpresa egli non ricevette l’annuncio con quell’entusiasmo che io mi aspettava. La società colla quale noi dovevamo convivere gli sembrava troppo confusa.
Tuttavia, data un’occhiata alla barca ed all’equipaggio, scorse sotto i berretti rossi qualche testa caratteristica, ond’egli si appigliò con molta filosofia al suo partito, e facendo segno a’nostri nuovi servitori di non muoversi, portò una sedia sulla riva, e presa carta e matita, cominciò uno sbozzo della barca e del terribile suo equipaggio.
Di fatto, que’dodici uomini che stavano là tranquilli, obbedienti, attendendo i nostri comandi, e cercando di prevenirli, ognuno aveva commesso un delitto.
Gli uni erano ladri;
Altri incendiarii;
Altri omicidi.
La giustizia umana aveva pesato sovr’essi. Erano enti degradati, sprezzati, divisi dal mondo. Non erano più uomini, erano cose; non avevano più un nome; erano null’altro che numeri.
Riuniti formavano un totale: questo totale era quella cosa infame che dicesi il Bagno.
Il comandante del porto mi aveva fatto su questo proposito un quadro assai singolare.
E tuttavia io non provava ribrezzo di vedermi vicini quegli uomini, il cui titolo solo, pronunciato in un crocchio, mette spavento.
Io mi accostai ad essi, ed essi alzaronsi tutti, e si levarono prontamente i loro berretti.
Questa loro umiltà fu sentita da me.
«Amici, io dissi loro, sapete che il comandante del porto vi ha posto a mio servizio per tutto il tempo che rimarrò a Tolone?»
Niuno mi rispose, nè con cenno, nè con parola.
Avrebbesi detto ch’io parlassi ad uomini di pietra.
«Spero, continuai, che io rimarrò contento di voi: quanto a voi, state tranquilli che rimarrete contenti di me.»
Lo stesso silenzio.
Compresi che questa era una cosa di disciplina.
Trassi di tasca qualche moneta, che offersi loro per bere alla mia salute; ma niuno stese la mano a riceverla.
« Ѐ loro vietato di ricevere cosa alcuna, mi disse allora il guardiano.
― E perché io chiesi.
― Non possono aver denaro in lor proprietà.
― Ma voi, io dissi, non potete permettere loro di bere un bicchier di vino, mentre ci aspettano?
― In ciò io non ho nulla in contrario.
― Adunque fate portar dall’osteria del forte, ed io pagherò.
― Ah! L’aveva io ben detto al comandante che voi me li viziereste, rispose il guardiano, movendo contemporaneamente le spalle e la testa.
― Ma finalmente, dacchè sono al vostro servizio, bisogna che facciamo quello che voi comandate.
― Via, Gabriele… un salto al forte Lamalgue… Pane, vino, e un boccon di formaggio.
― Io sto al bagno per i lavori, e non per far i vostri comandi, rispose colui, cui l’ordine era stato diretto.
― Ah! È vero, mi scordava che tu eri troppo signore per queste cose; ma siccome trattavasi non più d’altrui che della tua merenda,…
― Ho mangiato la mia zuppa, e non ho fame, rispose il forzato.
― Scusate…
― Rossignol non sarà tanto altero… Va tu, Rossignol, figlio mio.
E di fatto la predizione del venerabile comito si verificò. Quegli, cui rivolse la parola, il quale senza dubbio doveva il suo nome all’abuso dello strumento ingegnoso, che fa la vece di chiave (1), s’alzò e, traendosi dietro il suo camerata, poichè, come ognun sa, i forzati stanno incatenati a due a due, si avviò all’osteria che aveva l’onore di darci da mangiare.
Frattanto gettai uno sguardo sul forzato ricalcitrante, la cui risposta poco rispettosa non produceva, con mia grande sorpresa, alcuna sinistra conseguenza; ma ei teneva la testa rivolta dall’altro lato, e siccome vi rimase con una perseveranza che pareva il risultamento d’un partito già preso, non potei vederlo.
Però lo notai da’capelli biondi e dalla barba rossa. Entrai in casa, riservandomi a guardarlo un’altra volta.
Confesso che la curiosità, la quale provai circa colui che sì aveva risposto, mi fece affrettare la mia colazione.
Pressai Jadin, il quale nulla intendeva della mia impazienza, e tornai sulla riva del mare.
I nostri servitori ci erano rimasti indietro. Il vino del forte Lamalgue, pane bianco e formaggio erano per essi qualche cosa d’inusitato, e prolungavano la loro colazione, assaporandola. Rossignol e il suo compagno specialmente sembravano apprezzare al maggior segno questa buona fortuna.
Aggiungiamo che il comito s’era fatto umano a tal segno di fare altrettanto che i suoi subordinati; se non che i suoi subordinati avevano una bottiglia per due, ed egli aveva due bottiglie per uno.
Quanto a colui che il comito aveva indicato sotto il nome poetico di Gabriele, certamente il suo compagno di ferri, il quale non avrà voluto rinunciare al posto, l’avea indotto a sedersi cogli altri; ma sempre in preda al suo accesso di misantropia, egli li guardava sdegnosamente, mentre mangiavano senza nulla assaggiare.
Vedendomi, tutti i forzati si alzarono, abbenchè, come già dissi, il loro pasto non fosse ancor terminato; ma io feci lor segno di terminare quello che avevano così ben cominciato, ch’io era ben disposto di attendere.
Così venne tolto a colui di sottrarsi a’miei sguardi.
Potei adunque osservarlo a tutto bell’agio, abbenchè egli avesse abbassato il suo berretto fino in sugli occhi per sottrarsi al mio esame.
Egli era un uomo da 28 a 30 anni appena. Al contrario de’suoi compagni, sulla cui rozza faccia facilmente leggevasi quali passioni gli avessero condotti là ove trovavansi, egli aveva una di quelle faccie confuse, delle quali, a breve distanza, non si scorge alcun lineamento.
La barba, lasciata da lui crescere liberamente in tutta la sua lunghezza, ma rara, e d’un colore sbiadato, non dava alla sua faccia carattere alcuno.
Gli occhi, bigi pallidi, erravano vagamente da un oggetto all’altro, senza animarsi di alcuna espressione; i suoi gracili membri sembravano non destinati dalla natura ad alcuna fatica; il corpo, al quale stavano uniti, sembrava incapace d’ogni fisica energia.
Finalmente, fra i sette peccati capitali, che vanno facendo reclute sulla terra a nome del nemico del genere umano, quello sotto la cui bandiera pareva ch’egli si fosse arruolato, era evidentemente l’accidia.
Avrei dunque tolto lo sguardo da quell’uomo, il quale, io n’era certo, non poteva offerirmi allo studio che un delinquente di secondo ordine, se una vaga ricordanza non mi avesse mormorato alla memoria ch’io non vedeva costui per la prima volta.
(1) Rossignol, grimaldello.
Dissi già, ch’ell’era una fisionomia, che nulla aveva in sè stessa, tale, che senza circostanze particolari, non poteva produrre vedendola alcuna impressione.
Così credendo d’aver già veduto quel volto, e viemmaggiormente persuaso della sua ostinatezza a sottrarsi al mio sguardo, mi era tuttavia impossibile rammentarmi, ove e quando l’avessi veduto.
M’accostai adunque al comito, e gli domandai, come si chiamasse colui che faceva così poco onore al mio banchetto.
Ei si chiama Gabriele Lambert.
Questo nome non giovava per nulla alla mia memoria. Era la prima volta che l’udiva pronunciare.
Credetti d’avermi ingannato; e, siccome frattanto Jadin comparve sulla soglia della nostra casa, gli andai incontro.
Jadin portava i nostri due schioppi, non avendo altro scopo quel giorno che di far la caccia agli uccelli marini.
Cangiai poche parole con Jadin, dicendogli di esaminare attentamente colui ch’era l’oggetto della mia curiosità.
Ma Jadin non si risovveniva meglio di me d’averlo veduto; e questo nome di Gabriele Lambert eragli affatto ignoto.
Frattanto i forzati terminarono la colazione, e si alzavano per ripigliar i lor posti nella barca; noi vi ci accostammo egualmente.
E siccome per arrivarvi bisognava saltare da sasso a sasso, il comito fece un cenno a quegli infelici, i quali tosto entrarono nel mare fino a’ginocchi per assisterci nel nostro tragitto.
Ma io osservai una cosa, e fu, che invece di porgerci la mano come sostegno, siccome avrebbero fatto marinari di professione, essi ci porsero il gomito.
Era questo un ordine ricevuto?
O forse era il loro convincimento d’esser indegni di toccare con mano la mano dell’uomo onesto?
Quanto a Gabriele Lambert, egli stava già nella barca col suo compagno, al suo posto, posando la mano sul remo.
II.
Enrico di Faverne.
Partimmo; ma benchè fosse grande la quantità di gabbiani e d’altri uccelli marittimi, la mia attenzione non veniva distolta da un solo scopo. Più che io guardava quell’uomo, più mi sembrava aver avuto a far seco in qualche azione della mia vita, nè in tempo molto discosto.
Ma il come, il quando, io non poteva risovvenirmi.
Due o tre ore trascorsero ed io rimasi ostinatamente in questa ricerca colla mia memoria, senza venirne a capo.
Da canto suo, il forzato appariva tanto sollecito di evitare il mio sguardo, che cominciai a temere non gli dessi soverchia pena, onde provai di pensare a tutt’altra cosa.
Ma ognuno conosce la esigenza dell’animo quand’egli si attacca ad un uomo. Mio malgrado io tornava sempre sullo stesso soggetto.
Ciò che mi confermava nel mio convincimento si era, che ogni qualvolta io distoglieva lo sguardo da lui fissandolo su altro oggetto, nel volgermi nuovamente verso di lui trovava lui pure intento a guardarmi.
Così passò la giornata. Due o tre volte prendemmo terra. In quel tempo attendeva a porre in ordine gli ultimi avvenimenti della vita di Murat, e una parte di questi avvenimenti accaddero nei luoghi stessi ne’quali ci trovavamo. Ora indicava a Jadin di prendere il tal disegno, ora null’altro faceva che riconoscere i luoghi.
Ogni qualvolta io mi accostava al comito, voleva interrogarlo, ma lo sguardo di Gabriele Lambert era tanto umiliato e supplichevole, che rimisi ad altro momento averne lo schiarimento.
Fummo di ritorno a cinque ore dopo mezzogiorno.
Il resto della giornata dovendosi spendere nel pranzo e nel lavoro, licenziai il comito e la sua ciurma, indicandogli d’esser pronto per la mattina seguente a otto ore.
Mio malgrado non potei pensare ad altra cosa che a quell’uomo. Ad ognuno avviene talvolta di cercare nella sua memoria un nome che non si può rinvenire, e tuttavia questo nome lo si conobbe perfettamente. Questo nome fugge, per così dire, innanzi alla memoria, ad ogni momento si è sull’atto di proferirlo; questo nome suona all’orecchio, la sua imagine sta nel pensiero; quando una luce rapida lo rischiara, e finalmente esce dalla nostra bocca con una esclamazione, quindi lo si smarrisce di nuovo, s’approfonda in una buia notte, e scomparisce del tutto; e allora si domanda a sè stesso se forse in sogno s’è udito proferire quel nome, e sembra che, ostinandosi ulteriormente a rintracciarlo, la mente vada essa stessa a perdersi nelle tenebre, e toccare i limiti della follia.
Così m’avvenne nel restante del giorno e per uņa parte della notte.
Se non che, cosa ancora più strana! non era più un nome, vale a dire, una cosa che non ha consistenza, un suono privo di corpo, ciò che mi andava sfuggendo: egli era un uomo ch’ebbi in sugli occhi per cinque o sei ore, che fu da me interrogato collo sguardo, che avrei potuto toccare con mano.
Così io non poteva metterlo in dubbio: egli non era un sogno fatto da me, nè una larva che mi fosse apparita.
Era sicuro della realtà.
Aspettava il mattino con impazienza.
A sett’ore stava al balcone attendendo la barca.
La scorsi uscir dal porto simile a un punto nero, quindi a misura che si avanzava la sua forma facevasi più distinta.
Prese dapprima l’aspetto d’un gran pesce nuotante alla superficie del mare; ben tosto i remi cominciarono a farsi visibili, e il mostro parve camminare sull’acqua mercè le sue dodici zampe.
Quindi si scorsero le dodici persone; quindi le loro faccie.
Ma, giunti a tal vicinanza, indarno cercai ravvisare Gabriele Lambert egli non v’era, e due nuovi forzati stavano in vece sua e del suo compagno.
Corsi alla riva.
I forzati credettero che avessi fretta d’entrare in barca, e balzarono nell’acqua per far la catena; ma io feci cenno al loro guardiano che voleva parlargli.
Egli venne ed io gli chiesi perchè Gabriele Lambert non fosse venuto cogli altri.
Ei mi rispose, che, sopraffatto la notte da una febbre violente, aveva domandato di venire esonerato dal servigio, lo che, dietro certificato del medico, gli venne accordato. Mentre parlava al comito, sopra la spalla del quale io poteva vedere la ciurma, uno de’forzati trasse di tasca una lettera e me la mostrò. Costui era quello che si chiamava Rossignol. Compresi che Gabriele aveva trovato il mezzo di scrivermi; e che Rossignol aveva assunto d’essere il suo messaggero. Gli risposi con cenno di ringraziamento al cenno ch’egli mi aveva fatto, e già lasciava il guardiano. «Signore, amereste parlargli, egli mi chiese; in tal caso, malato, o no, lo farò venire domani.
― No, risposi, solo il suo aspetto mi aveva fatto impressione, e non vedendolo oggi fra’suoi camerati, amava sapere la cagione della sua assenza. Sembrami che quell’uomo sia d’una condizione più degna di quelli coi quali sta unito.
― Sì, sì, disse il guardiano, egli è un signore; ma per quanto egli cerchi svisarsi, lo si conosce a primo tratto.» Stava per domandare al bravo aguzzino che cosa egli volesse intendere per un signore, allorchè vidi Rossignol che traendosi seco il suo compagno di catena, alzava una pietra, e nascondeva la lettera sotto di quella. Da quel momento io non ebbi che un desiderio soltanto, quello di avere la lettera. Accomiatai il guardiano, indicandogli con un cenno del capo, che non aveva altro a dirgli, e andai a sedermi vicino alla pietra. Egli andò a prendere il suo posto a prua della barca. In quel mentre alzai la pietra, presi la lettera, e, cosa strana, non senza una certa emozione. Rientrai in casa. Questa lettera era scritta in carta grossolana, ma decentemente piegata e con una certa eleganza. La scrittura era minuta, fina, e d’un carattere che avrebbe fatto onore ad uno scrittore di professione.
Portava scritto:
« Al signore Aless. Dumas.
Adunque colui mi aveva egli pur conosciuto.
Apersi prestamente la lettera e lessi quanto segue.
« Jeri osservai il desiderio da voi dimostrato di conoscermi, e voi pure vedeste quanto io fecci per non venir conosciuto.
« Comprendete come fra tutte le umiliazioni da noi provate, una delle più forti è trovarci, degradati come siam noi, innanzi a persona che si conobbe già nel bel mondo.
« Adunque mi son fatto venir la febbre per sottrarmi oggi a questa umiliazione.
« Frattanto, signore, se vi rimane qualche pietà per uno sciagurato, il quale ben sa di non aver più diritto ad alcuna pietà, non vogliate esigere che io rimanga al vostro servigio. Oserei anzi chiedervi ancora più: non fate ricerca alcuna riguardo mio. In contraccambio di questa grazia, che vi supplico umilmente di accordarmi, io vi do la mia parola d’onore, che prima della vostra partensa da Tolone vi farò conoscere il nome col quale già mi aveste a conoscere; con quel nome voi potrete saper di me quanto più bramerete.
« Degnatevi accogliere la preghiera di collui che non osa chiamarsi
Vostro umile servitore
GABRIELE LAMBERT. »
La lettera, come l’indirizzo, era scritto nella più bella scrittura inglese che possa vedersi; essa indicava una certa abitudine di scrivere, abbenchè i tre errori d’ortografia facessero conoscere la mancanza di ogni educazione.
La sottoscrizione era ornata da una complicatissima cifra, quali ora non se ne veggono più che sotto il nome di certi notai di campagna.
Il tutto era un misto di origine volgare e di eleganza acquisita.
Questa lettera nulla dicevami pel presente; ma promettevami per l’avvenire quant’io desiderava sapere.
Inoltre io mi sentiva tocco per quell’uomo d’indole più elevata, o, come si vedrà, più abbietta d’ogni altra.
Non rimaneva un avanzo di grandezza nella sua umiliazione?
Mi determinai adunque accordargli quant’egli mi domandava.
Dissi al comito che io non desiderava per nulla che mi venisse rimandato Gabriele Lambert, e che anzi io aveva desiderato che venisse cangiato quell’uomo, il cui aspetto non mi piaceva.Dopo ciò non ne feci più motto, ned altri me ne parlò.
Rimasi ancora per quindici giorni a Tolone, e per tutto quel tempo la barca ed il suo equipaggio furono al mio servigio.
Bensì annunciai anticipatamente la mia partenza.
Voleva vedere s’egli si rammentava della parola d’onore che mi aveva data.
L’ultimo giorno passò senza che nulla m’indicasse ch’ei fosse menomamente disposto a tener la sua promessa; e lo confesso, già rimproverava a me stesso la mia discretezza, allorchè, prendendo commiato della mia gente, vidi che Rossignol mi accennava coll’occhio la pietra ove io avea già trovata la lettera. Quell’occhiata era tanto significativa che compresi sul momento; e risposi con un cenno che voleva dire:
« Va bene. »
Poi, mentre quegli sciagurati, disperati di lasciarmi, poiché i quindici giorni ch’erano rimasti meco erano stati per essi quindici giorni di festa, si allontanavano dalla mia casa a forza di remi, io recatomi presso la pietra, trovai una etichetta sott’essa.
Una etichetta a mano, ma che si avrebbe giurato che fosse incisa.
Sopra quell’etichetta io lessi:
Il visconte Enrico di Faverne.
III.
Il Foyer dell’Opera.
Gabriele Lambert aveva ragione: questo nome mi spiegava se non il tutto, una parte almeno di quello che desiderava sapere.
« Ah sì! Enrico di Faverne! sclamai; Enrico di Faverne, va bene! Come diavolo non l’ho riconosciuto?
È vero bensì che non aveva veduto colui che portava tal nome che due volte soltanto; ma questo avvenne in due circostanze tali che la sua fisonomia s’impresse altamente nella mia memoria.
Fu alla terza rappresentazione di Roberto il Diavolo; io passeggiava fra un atto e l’altro al Foyer dell’Opera con un mio amico, il barone Oliviero d’Hornoy.
Lo rivedeva quella sera la prima volta dopo un’assenza di tre anni.
Affari interessantissimi l’avevano chiamato alla Guadalupa, ove la sua famiglia aveva considerabili possedimenti, ed era allora un mese soltanto, dacchè era tornato dalle Colonie.
Io lo aveva riveduto con sommo piacere, dacchè altra volta noi eravamo stati intrinseci amici. Per due volte, nel passeggiare su e giù, passammo accosto ad un tale, il quale tutte e due le volte guardò il mio compagno con affettazione tale che non isfuggì al mio sguardo.
Stavamo per iscontrarci una terza volta, allorchè Oliviero mi disse:
« Vi fa lo stesso se andiamo a passeggiare nel corridoio?
― Lo stesso affatto, io gli risposi, ma perchè ciò?
― Ora ve lo dirò, egli mi disse.»
Fatti pochi passi fummo nel corridoio.
« Perchè, soggiunse allora, noi fummo attraversati due volte da un tale.
― Che vi ha guardato in un modo particolare, io me ne sono accorto. Chi è colui?
― Non potrei dirvelo precisamente, ma quanto io so si è, che egli affetta d’avere qualche cosa con me, mentre io non mi darei per inteso di avere cosa alcuna con lui.
― E da quando in qua, caro Oliviero, avete cominciato a fuggire le occasioni? Mi ricordo che avevate altra volta la nominanza di cercarle piuttosto che di fuggirle.
― Certamente ch’io mi batto quando fa d’uopo, ma voi ben lo sapete, non si tira di spada con tutto il mondo. Ho capito, colui è un cavaliere d’industria.
― Non ne son certo, ma lo sospetto.
― In tal caso, amico mio, avete ogni ragione; la vita è un capitale che non convien mettere a rischio, che contro un capitale equivalente: chi fa altrimenti commette una grande minchioneria.
In quel momento venne aperta la porta d’un palchetto, ed una donna giovane e bella fece garbatamente cenno colla mano ad Oliviero ch’ella desiderava parlargli.
« Perdono, amico mio, bisogna ch’io vi lasci.
― Rimanete lungamente?
― No: passeggiate frattanto, fra dieci minuti sono con voi:
― Va bene. »
Continuai a passeggiar solo pel tempo indicato, e mi trovava nel punto opposto a quello ove aveva lasciato Oliviero, allorchè intesi improvvisamente un grande rumore, e vidi altri che passeggiavano portarsi a quella parte ov’era nato il rumore. Io pure mi vi recai, come ogni altro, e vidi uscire dal cerchio Oliviero, il quale vedendomi, mi prese pel braccio, dicendomi:
― Venite, usciamo.
― Che avvenne mai? perchè siete così pallido, gli chiesi.
― Avvenne che quanto io prevedeva è successo. Colui mi ha insultato, e bisogna ch’io mi batta con lui; ma venite presto a casa mia, o andiamo a casa vostra; vi narrerò tutto.
Scendemmo rapidamente per una scala; lo sconosciuto scendeva per l’altra: egli teneva il fazzoletto sul viso, e il fazzoletto era tinto di sangue.
Oliviero ed esso incontraronsi sulla porta.
« Non vi dimenticherete, signore, disse lo sconosciuto ad alta voce, in modo da essere udito da tutti, ch’io vi aspetto domani a sei ore al bosco di Boulogne, viale della Muette.
Già, già, disse Oliviero alzando le spalle, è cosa convenuta. E fece un passo in addietro per lasciar passare il suo avversario, il quale uscì avvolgendosi nel suo mantello, e coll’apparente intento di levar rumore.
« Ah, mio Dio! dissi ad Oliviero, chi è colui? E voi andrete a battervi seco?
― Bisogna per Dio!
― Ma perchè bisogna?
― Perchè egli ha alzato la mano contro di me, perché gli ho lasciato andare uno bastonata sul muso.
― Davvero?
― Davvero! Una scena come fa la canaglia, la cosa più sconcia: io n’ho vergogna, ma che volete? E così!
― Ma che mai? Un manigoldo potrà obbligare persone come noi a battersi seco per via di schiaffi?
― Egli è un tale che si fa chiamare il Visconte Enrico di Faverne.
― Enrico di Faverne, io nol conosco.
― Ed io ancor meno.
― Ma dunque, comve avete contesa con un uomo che non conoscete?
― È ben per questo ch’io nol conosco che ho affare con lui. Ciò vi sembra strano; via, che ne dite?
― Strano, sì, lo confesso.
― Vi narrerò tutto. Udite, fa buon tempo, e, invece di rinchiudersi fra quattro muri, volete venire fino alla Madeleine?
― Fin dove v’aggrada.
― Ecco la storia: questo signor Enrico di Faverne ha superbi cavalli, e sfoggia signorilmente, senza ch’egli abbia possedimenti di sorte alcuna: però egli paga assai bene ciò che compera e quanto perde. In questo non c’è nulla a dire. Ma siccome, a quanto sembra, egli è in sul maritarsi, gli venne fatto alcuna ricerca di quella ricchezza, mercè la quale sfoggia tanto splendidamente; ed egli rispose esser d’una famiglia di ricchi coloni, i quali posseggono beni considerabili alla Guadalupa.
« Allora, siccome io era appena giunto di là, si venne a me per informazione, e mi si chiese s’io conosceva un conte di Faverne a Punta a Pitre.
« Bisogna dirvi, amico mio, ch’io conosceva a Punta a Pitre tutto ciò che val la pena d’essere conosciuto, e che da un capo all’altro dell’isola non v’ha conte di Faverne meglio che sulla palma della mia mano.
« Capite già ch’io dissi ingenuamente queste cose, senza dare nessuna importanza a quanto io diceva. E poi, siccome ell’era la verità, in ogni caso, io non avrei detto altrimenti.
« Ora, sembra che il mio niego di riconoscere questo signore abbia posto ostacolo al suo matrimonio. Egli sparse la voce ch’io era un calunniatore, e ch’egli me ne farebbe pentire. Io non gli ho dato retta; ma questa sera l’ho incontrato come vedeste, ed ho presentito, perchè, come sapete, si presentano certe cose, che con quell’uomo la doveva terminar malamente.
« Dopo ciò, amico mio, voi siete testimonio che ho usato prudenza quanto è stato possibile; ma, che volete, non poteva fare di più. Ho lasciato il foyer, sono andato nel corridoio, entrai nel palchetto della contessa M…, la quale è creola, e non ha udito essa pure giammai parlare né di questo signore, né d’altro Faverne che sia.
« Io credeva avermene liberato; ma egli mi aspettava in faccia alla porta del palchetto: voi sapete il resto: domani ci battiamo, come avete udito.
― Sì, a sei ore di mattina; ma chi ha preso intelligenza di questo?
― Ma! Eccovi un’altra prova che io a che fare con non so qual cialtrone.
― Ma tocca forse agli avversarii statuire cose di questa fatta? Allora che resta a fare ai padrini? E poi, battersi a sei ore della mattina, la capite? Chi mai si alza a sei ore?
« Questo signore pare che abbia fatto il bifolco da fanciullo: quanto a me sento che domani mattina sarò sanguinario, e che mi batterò di mal garbo.
― Vale a dire?
― Mi spiego: venire a duello è una cosa gravissima. Che mai? Si prendono tutti i suoi comodi per far l’amore, e non si accorda la menoma capricciosità in materia di duello! Io so una cosa, ed è, che mi sono sempre battuto a undici ore o mezzo giorno, e che, in generale, mi sono sempre trovato bene.
« Ma, ditemi un po’, a sei ore di mattina nel mese d’ottobre! si muor di freddo, si trema come una bubbola, e non si ha dormito.
― Adunque, ritiratevi e andate a letto.
― Si, andate a letto, egli è facile a dirsi, ma quando l’indomani si deve battersi si ha sempre a far qualche cosa, due righe di testamento, una lettera alla madre ed alla sorella, e tutto questo vi porta via fino a due ore dopo mezzanotte.
« E poi si dorme male, perchè, vedete, per bravo ch’uno si senta, la è sempre una mala notte quella che precede un duello; e alzarsi a cinque ore, poichè per trovarsi al bosco di Boulogne a sei ore bisogna alzarsi alle cinque! Alzarsi colla lucerna! conoscete voi cosa più sciocca di questa?
» Perciò, che questo signore si comporti bene, perchè vi prometto di non andar con risparmio. A proposito, faccio conto di voi come testimonio.
― Diamine!
― Portate le vostre spade, non voglio adoperare le mie: colui potrebbe dire ch’io n’avessi vantaggio.
― Voi sapete misurarvi alla spada?
― Sì, preferisco la spada. La spada ammazza benissimo quanto la pistola, ma non lascia moncherini. Una cattiva palla vi rompe un braccio, bisogna tagliarlo, eccovi monco. Portate le vostre spade.
― Bene; sarò a casa vostra a cinque ore.
― A cinque ore! Che bel piacere anche per voi di dovervi alzare a cinque ore!
― Oh! A me è indifferente, poiché è l’ora in cui presso a poco vado a dormire.
― È tutt’uno! Ma quando ogni cosa andrà fatta fra gente comme il faut, e che voi sarete mio padrino, fate ch’io mi batta come vi parrà meglio, ma guardate che sia a undici ore od a mezzogiorno, e vedrete; parola d’onore, non vi sarà allora confronto; allora io ci guadagno il cento per cento.
― Via, via, sono certo che farete a maraviglia.
― Farò del mio meglio; ma in onore, avrei amato piuttosto battermi questa sera sotto un fanale, che alzarmi dimani mattina a quell’ora, e nulla più. Ma voi, amico mio, che non avete da far testamento, andate a coricarvi, e scusatemi a nome di quel signore.
― Io vi lascio, Oliviero, ma sol per non togliervi parte del tempo. Avete da comandarmi in nulla?
― A proposito, mi abbisognano due testimonii; passate al club, e prevenite Alfredo di Nerval, poichè io conto su lui. Questo non lo incomoderà punto: egli si fermerà a giocare fino a quell’ora, e nulla più. Inoltre, davvero ch’io non so più ov’abbia la testa, occorre un medico. Io non mi sento disposto, se per ipotesi gli consegno una bella stoccata, di succhiargli la piaga: preferisco che gli si punga la vena.
― Amereste in preferenza…
― Chi mai?
― Qualche dottore!…
― No, no… Io li temo tutti egualmente.
― Allora accettate Fabiano.
Non è egli il vostro medico? Egli vi farà questo servizio ben volentieri; a meno che però egli non tema che questo gli nuoca presso il re, poichè già sapete ch’egli è addetto novellamente alla corte.
― State tranquillo, egli non vi penserà.
― Lo credo, poiché è un eccellente giovane.
Domandategli scusa di farlo alzare a quell’ora.
― Eh! Egli è avvezzo.
― Per un parto bensì, per un duello non credo.
« Ma, frattanto, io ciarlo come una gazzera, e vi tengo sulla strada, mentre dovreste essere già coricato. Via andate a letto, amico mio, andate a riposo.
― Addio, buona sera e coraggio.
― In fede mia vi giuro ch’io non so nulla, disse Oliviero sbadigliando da dislogarsi la mascella, poichè, in verità io credo che voi non sappiate formarvi un’idea di quanto mi annoia battermi con quel mariuolo.
Così dicendo Oliviero mi lasciò, entrando a casa sua, mentre io mi recava al club, e in cerca di Fabiano.
Nel lasciarlo gli aveva stretto la mano, e la sentii agitata da un movimento nervoso.
Io non intendeva più nulla. Oliviero aveva quasi riputazione di duellista. Come adunque un duello poteva a tal segno sull’animo suo?
Non monta: io non era meno di lui sicuro sull’indomani.
IV.
Preparativi.
Io mi recai dal dottore, e di là al club.
Alfredo promise di non andare a letto, e Fabiano d’essere alzato all’ora stabilita: tutti e due dovevano trovarsi a casa Oliviero a cinque ore meno un quarto.
Io vi giunsi a quattro ore e mezzo per dirgli che tutto era apparecchiato.
Lo trovai seduto innanzi la sua scrivania, e stava per finire di scrivere alcune lettere.
Egli non era andato a letto.
« Adunque, Oliviero, io gli dissi, come vi sentite?
― Malissimo; voi vedete l’uomo più stanco al mondo.
« Come già immaginava non ebbi il tempo di dormire un istante, e, ad onta del fuoco che vedete, non ho potuto mai riscaldarmi. Fa freddo all’aria aperta?
― No, il tempo è umido, e cade una spruzzaglia.
― Vedrete che saremo tanto fortunati che si rovescieranno le cateratte.
« Battersi sotto la pioggia co’piedi sul fango, che bel piacere!
Se costui non fosse un ribaldo, si avrebbe differito la cosa più tardi, o ci saremmo battuti al coperto; ma così egli può star tranquillo, il suo affare è deciso, ed io lo guarirò della smania di cercare una seconda rissa, ve lo prometto.
― Sì, ma voi parlate, amico mio, come se foste certo di ammazzarlo.
― Ben lo sapete che non si è mai sicuro di ammazzare che vi capita sotto: i medici soli hanno questa prerogativa.
« Non è vero, Fabiano? Soggiunse Oliviero, sorridendo e porgendo la mano al dottore, che entrava; ma io darò una stoccata, e null’altro.
― Forse, come quella che avete dato la vigilia della vostra partenza per la Guadalupa a quell’ufficiale portoghese, che mi è costato tanta fatica a trar di pericolo, disse Fabiano.
― Oh, quella era un’altra cosa: egli aveva scelto il mese di maggio; e poi, invece di avventarmi incontro un’ora a modo suo, egli mi aveva chiesto garbatamente un’ora a modo mio.
Imaginatevi! quella fu una partita di piacere. Noi ci battemmo a Montmorency, una superba giornata e a undici ore della mattina.
« Ve ne ricordate, Fabrizio? Nel macchione che ci sorgeva da lato v’era una capinera che cantava. Io amo gli uccelli. Mentre io mi batteva l’ascoltava a cantare; nè fuggì che al movimento che feste accorrendo al cadere del mio avversario.
« Com’egli cadde con garbo, non è vero? Mi salutava colla mano. Egli era un uomo comme il faut, quel portoghese: costui d’oggi vedrete, cadrà come un bue, lordandomi tutto di zacchere.
― Adunque, mio caro Oliviero, io gli dissi, voi siete un altro Saint-Georges per parlare così.
― No, anzi io gioco malissimo; ma ho una impugnatura sicura, e sul terreno un sangue freddo meraviglioso. Inoltre questa volta ho a far con un vile.
― Un vile… ma egli vi ha provocato!
― Questo non vuol dir nulla, anzi conferma la mia asserzione.
« Voi avete veduto che, invece di mandarmi tranquillamente i suoi padrini, come si fa in buona società, egli ha voluto alzar la testa insultandomi egli stesso; e inoltre passò due volte vicino a me senza far altro che guardarmi, poi, avendo veduto che io cercava di allontanarmi da lui, allora ha fatto il bravo. In somma, egli è uno di coloro che hanno bisogno di battersi con qualcuno di buona nominanza per risarcirsi di ben altre perdite. Non è già un duello ch’ei mi proponga, è una speculazione ch’egli intraprende.
« E poi, vedrete il tutto sul terreno . . .
« Ah! finalmente ecco Nerval: credeva ch’ei non venisse più. Non è mia colpa, amico mio, disse entrando il nuovo arrivato; inoltre io non ho punto tardato (e trasse l’oriuolo ). Cinque ore. Immagina ch’io vinceva una piccola bagattella, trenta mille franchi a Valjuson, e poi m’è toccato riconsegnarglieli a poco a poco, sicchè non ne ha perduto alla fine che dieci mille.
― Dunque, ti batti, eh?
― Ah! mio Dio, sì.
― Alessandro me lo diceva mentre io veniva addecimato di ducento luigi, in modo che l’ho udito assai male.
Aveva perduto dieci mille franchi, quando mi venne l’ispirazione di risarcirmi a parte con Valjuson, sicchè nè vinco, nè perdo. Voi non giuocate, Fabiano?
― No.
― Avete ragione. Io non conosco cosa più stolta del giuoco: è una cattiva abitudine che ho acquistato, e vorrei liberarmene. Dottore, non avreste qualche rimedio, ma intendete, un rimedio piacevole, un rimedio morale congiunto a un buon rimedio igienico?
« A proposito, sai ove diavolo d’Harville abbia preso il suo esecrabile cuoco? Jeri ei ci ha dato un pranzo immangiabile. Te la sei immaginata tu che non sei venuto. Bravo! Ma dimmi via, ove succede il duello?
― Nel bosco di Boulogne, viale della Muette.
― Oh! classiche tradizioni! Dacchè tu sei andato alla Guadalupa non vi si va più; adesso si va a Clignancourt o a Vincennes.
« V’hanno luoghi incantevoli scoperti da Nestor: tu sai bene, egli è il Cristoforo Colombo di tali terre; ivi ei s’è battuto con Gallois; un sorprendente duello!
Tu sai come sono valenti ambidue: si hanno dato tre stoccate per uno, lasciandosi contenti come gli dei:
V.
Il viale della Muette
Frattanto compariva il giorno pallido e malinconico, e si cominciava a vedere il bosco di Boulogne in mezzo alla nebbia.
Stava una carrozza innanzi alla nostra, e siccome prendeva la strada della porta Maillot, non esitammo più a credere che fosse quella del nostro avversario: ordinammo adunque al cocchiere di seguirla: quella si diresse verso il viale della Muette, a un terzo del quale si fermò: la nostra la raggiunse, e si fermò egualmente, e noi scendemmo.
Que’signori avevano già posto piede a terra.
Allora diedi un’occhiata ad Oliviero.
Un totale mutamento era avvenuto in lui. Il movimento nervoso che lo agitava la sera innanzi era affatto scomparso: era fresco e tranquillo. Un sorriso di altero sdegno alzava appena il suo labbro, e un leggiero corrugamento fra le due ciglia era la sola contrazione che si potesse notare sul suo volto. Dalla sua bocca non uscì una sola parola.
Il suo avversario presentava un aspetto affatto opposto. Parlava altamente, rideva sonoramente, gesticolava con forza; ma con tutto ciò e con tutte le smancerie della sua faccia era pallido e contraffatto: di tratto in tratto uno spasmo nervoso gli opprimeva il petto e lo costringeva a sbadigliare.
Noi ci accostammo ai suoi due padrini, che furono costretti a dirgli di allontanarsi.
Allora si arretrò pochi passi zufolando, e battendo così violentemente la bacchetta sul terreno, che la spezzò.
I preparativi del combattimento erano facili a conchiudersi. Il signor di Faverne aveva indicato l’ora, Oliviero aveva scelto le armi, ogni accomodamento era impossibile.
La questione era adunque puramente e semplicemente di sapere se il combattimento dovesse cessare dopo una prima ferita, o se si dovesse lasciargli avere quell’esito che meglio aggradisse dargli i due avversarii.
Oliviero aveva proferito quest’ultima condizione: quest’era un diritto in qualità di offeso: null’altro doveva fermare le spade che la caduta d’uno dei due combattenti.
I padrini si opposero un istante, ma furono obbligati a cedere. Noi non li conoscevamo; erano amici del signor Enrico di Faverne, e tolto il loro fare deciso, e le maniere da sotto ufficiali, noi li trovammo assai adattati all’ufficio al quale adempivano.
Presentai loro le spade, ed essi le esaminarono.
Durante questo esame, mi feci presso Oliviero.
Egli era intento a far osservare uno sbaglio blasonico sull’armi certamente improvvisate del suo avversario: il Visconte portava colore sopra colore.
Vedendomi mi trasse da parte.
« Tenete, ei mi disse: ecco due lettere, una per mia madre, l’altra per.…
E non proferì il nome, ma mi mostrò quel nome scritto nella lettera era il nome d’una giovane da esso amata, e che stava per isposare.
« Non si può sapere quello che può capitare: se la mi va male, fate pervenire questa lettera a mia madre: quanto all’altra, non consegnatela che in proprie mani.
Io promisi.
Poi, vedendo che il suo volto era più sereno quanto più si approssimava il momento del duello;
« Oliviero, io gli dissi, vado accertandomi che questo signore ha fatto un grande sproposito ad insultarvi, e ch’egli sta per pagar assai cara la sua imprudenza.
― Sì, disse il dottore, specialmente se il vostro sangue freddo è sincero.
Un sorriso spuntò sulle labbra di Oliviero.
« Dottore, gli disse, quante battute dà il polso d’un uomo nello stato ordinario, quand’egli non ha alcun motivo d’agitazione?
― Sessantaquattro o sessantacinque, rispose Fabiano.
― Toccatemi il polso, disse allora Oliviero, porgendo la mano a Fabiano.
Fabiano trasse l’oriuolo, posò l’estremità del dito sull’arteria, e dopo un minuto, sclamò:
« Sessantasei battute! quest’è una miracolosa signoria di sè stesso. Il vostro avversario o è un Saint-Georges, od è un uomo morto.
― Oliviero, disse Alfredo volgendosi, sei pronto?
― Ma io aspetto, rispose Oliviero.
― Bene! allora nulla impedisce che si cominci.
― Sì, sì, gridò il sig. de Faverne, sì, presto, presto, sacrableu! Oliviero lo guardò con un legger sorriso di disprezzo; quindi vedendo ch’egli si levava l’abito ed il panciotto, si trasse il suo. Allora si osservò una nuova differenza fra que’due.
Oliviero era vestito con tutta eleganza: egli per battersi aveva fatto una rigorosa toletta. Aveva una camicia della più fina battista, appena stirata; aveva la barba appena rasa, e i suoi capelli erano arricciati come se uscissero allora dal pettine del suo parrucchiere.
Al contrario i capelli del sig. Faverne accusavano una notte agitata.
Vedevasi ch’egli non s’era pettinato fin dalla sera innanzi, e che quella pettinatura aveva molto sofferto dall’agitazione della notte; la sua barba era lunga, e la camicia era evidentemente quella, colla quale aveva dormito.
« Non v’ha dubbio, costui è un farabutto, disse sotto voce Oliviero.
Io gli porsi una delle due spade, mentre veniva posta l’altra al suo avversario.
Oliviero la prese per la lama, e sembrò che appena la guardasse: si avrebbe detto ch’egli tenesse in mano una canna.
Il signor di Faverne prese al contrario la sua per l’impugnatura, e scaraventò tre o quattro colpi all’aria; quindi si avvolse la mano con un fazzoletto di seta, per assicurare viemmeglio la spada nella sua mano.
Oliviero allora soltanto si trasse i guanti, ma credette inutile usare la precauzione della quale valevasi il suo avversario. Allora potei osservare la sua mano: ella aveva la bianchezza e la delicatezza d’una mano di donna.
« Adunque, signore, via, disse il signor di Faverne.
― Adunque, io aspetto, rispose Oliviero.
― Cominciate, signori? disse Alfredo.
Gli avversarii, che stavano a dieci passi discosto uno dall’altro, si accostarono. Osservai che Oliviero diveniva più sereno e sorridente quanto più si approssimava.
Al contrario, la faccia del suo avversario prese una espressione di ferocia, della quale avrei creduto incapaci quei lineamenti. L’occhio si fece sanguigno, e il colorito cinereo.
Cominciai ad essere del parere di Oliviero: colui era un vile.
Nel momento in cui s’incontrarono i ferri, aperse le labbra, e lasciò vedere i denti convulsivamente serrati.
Amendue si trovarono uno innanzi l’altro in piena guardia, ma la positura di Oliviero era tanto semplice, facile, elegante, quanto quella del suo avversario era dura e angolosa, abbenchè secondo le regole dell’arte.
Vedevasi che colui aveva cominciato a maneggiar l’armi ad una certa età, mentre l’altro da vero gentiluomo aveva giuocato coi fioretti fin da fanciullo.
Il signor di Faverne cominciò l’assalto; i suoi primi colpi furono vivi, chiusi, precisi; ma, fatti que’primi colpi, si arrestò sorpreso dalla resistenza del suo avversario.
In fatto Oliviero aveva parato i suoi colpi colla stessa facilità che avrebbe fatto in un’accademia di scherma.
Il signor di Faverne si fece ancora più livido, se pur possibile, ed Oliviero più sorridente.
Allora il signor di Faverne mutò di guardia, allargò le gambe a foggia de’maestri italiani, e ricominciò gli stessi colpi, accompagnandoli con quelle grida che sogliono mandare i maestri di scherma di reggimento quando vogliono atterrire i loro avversarii.
Ma questo cangiamento d’assalto non ebbe alcuna influenza sopra Oliviero. Senza indietreggiare d’un passo, senza sgarrare d’un dito, senza precipitare alcun movimento, la sua spada si attaccò a quella del suo avversario, o la precedette alternativamente, come se avesse indovinato i colpi che colui stava per fare.
Egli aveva davvero, come lo aveva detto, un terribile sangue freddo.
Il sudore dell’impotenza e della fatica cadeva dalla fronte del signor di Faverne: i muscoli del collo e del braccio gli si gonfiarono come corde; la sua mano era stanca visibilmente, e ben si la vedeva che se non era il fazzoletto che gli avvolgeva la mano, spada gli sarebbe sfuggita al primo assalto del suo avversario.
Oliviero, invece continuava a tirare con tutta compostezza.
Noi guardavamo in silenzio quel giuoco terribile, del quale ci era facile anticipatamente prevedere il risultamento. Vedevasi, come l’aveva detto Oliviero, che il signor di Faverne era un uomo perduto.
Finalmente, dopo un brevissimo istante, un sorriso più caratteristico si disegnò sulle labbra di Oliviero. Egli pure simulò uno o due colpi, poi comparve un lampo negli occhi suoi; e improvvisamente tirò un colpo così vivo, così serrato, che non potemmo seguirlo cogli occhi, e passò la sua spada attraverso il corpo del suo avversario.
Quindi, senza prendere la cautela ordinaria in simili casi, gettandosi in addietro con un passo di ritirata, egli abbassò la sua spada sanguinosa, ed attese.
Il signor di Faverne mandò un grido, portò la mano sinistra sulla ferita, scosse la mano destra per liberarla dalla spada, che, legata al suo pugno, gli pesava come una mazza di piombo; quindi passando da un pallor livido ad un pallor cadaverico, vacillò un istante e cadde svenuto. Oliviero, senza perderlo affatto di vista, si volse a Fabiano. « Ormai, dottore, egli disse col suono ordinario di voce, e senza dar segno della menoma agitazione, ormai, dottore, io credo che il resto appartenga a voi.
Fabiano era già presso al ferito.
Non solo la spada avevagli attraversato il corpo, ma aveva forato la camicia ondeggiante, tanto il colpo era stato a fondo. Il sangue saliva diciotto pollici sulla lama.
« Ecco la vostra spada, amico mio, mi disse Oliviero; ella si confà a meraviglia alla mia mano. Ove l’avete comprata?
― Presso Devisme.
― Abbiate la bontà di ordinarmene un paio d’eguali.
― Tenete queste. Ve ne servite bene, io non posso ritorgliervele.
― Grazie. Avrò piacere d’averle.
Quindi, volgendosi verso il ferito.
― Credo di averlo ucciso, egli disse, e mi spiacerebbe; non so perchè mi sembri che quello sciagurato non debba morire per le mani d’un galantuomo.
Quindi noi non avevamo nulla a che far là, dacchè il signor di Faverne era fra le mani di Fabiano, vale a dire, d’uno de’più celebri medici di Parigi; salimmo nella nostra carrozza, mentre portavano nell’altra il ferito.
Due ore dopo ricevetti una magnifica pipa turca, che Oliviero mi mandava in cambio delle due spade.
La sera mi recai in persona ad aver notizia del signor di Faverne. Il giorno seguente mandai il mio servitore; dopo il terzo giorno avendo udito che, mercè le cure di Fabiano, era fuor di pericolo, cessai di occuparmi di lui.
Poco dopo partii per fare un viaggio, nè più lo rividi che il giorno in cui lo ritrovai al bagno.
Oliviero non s’era ingannato sul suo avvenire.
VI.
Il manoscritto.
S’immagini adunque com’io fossi curioso di conoscere quali avvenimenti avevano condotto alla galera quell’uomo, ch’io, com’egli diceva, aveva conosciuto nel bel mondo.
Pensai allora naturalmente a Fabiano, il quale avendolo sanato dalla terribile ferita fattagli da Oliviero, doveva aver raccolte circa quest’uomo curiose particolarità.
E così la mia prima visita a Parigi fu a lui. Io non mi era ingannato. Fabiano, che ha l’abitudine di scriver giornalmente tutto ciò che fa, portossi al suo armadio, e fra più volumi di manoscritti, ne trasse uno e lo porse a me.
« A voi, egli mi disse, qui troverete quanto desiderate conoscere: io ve lo affido, fate quell’uso che più vi aggrada, ma badate di non perderlo. Questo scartafaccio forma parte d’una grande d’opera sulle malattie morali curate da me.
― Davvero? Ah!, amico mio, ella mi sarebbe un vero tesoro!
― State tranquillo; s’io morrò da un certo aneurisma che di quando in quando va mormorando sommessamente alle orecchie del mio cuore; che sono polve, e che devo tornare in polve, queste carte destinate per voi, vi saranno rimesse dal mio esecutore testamentario.
― Vi ringrazio, ma spero di non ricever mai questo. Avete tre o quattro anni soltanto più di me.
― Eh via! Voi, dottore, voi avete di queste idee?
― È appunto perché son dottore che le ho.
« Via, volete vedere la mia malattia? E mi condusse innanzi a un disegno che rappresentava l’anatomia del cuore.
« Io ho fatto fare questo disegno dietro le mie indicazioni, e per mio uso particolare. Egli aggiunse, onde giudicare materialmente, per così dire, dello stato mio. Voi vedete, questo è un aneurisma. Un giorno o l’altro questo tessuto scoppierà: ma quando? nol so; forse oggi, forse fra venti giorni, forse fra venti anni. Quello che è certo è questo, che scoppierà. Allora in tre secondi la sarà bella e finita.
« E una mattina, stando a colazione, udrete dire:
« ― Sapete chi è morto? il povero Fabiano.
« ― Si, ma come?
« ― È morto improvvisamente.
« ― Diamine! Ma in qual modo?
« ― Tastando il polso a un malato. Divenne rosso, poi pallido, e cadde senza fare un motto. Venne alzato, ma era anche morto.
« ― Pare impossibile!
« ― Se ne parlerà due o tre giorni nel mondo; otto giorni alla scuola di medicina; quindici all’istituto, e tutto sarà finito. Buona notte, Fabiano!
« ― Ma, siete pazzo, amico mio.
« ― Ho l’onore di dirvi così.
« ― Ma, vi chieggo mille perdoni, bisogna che vi lasci, il mio ospitale mi aspetta; ecco lo scartafaccio, fatevelo copiare, fatelo quell’uso che meglio vi aggrada.
« ― Addio.
Strinsi la mano a Fabiano, in segno di ringraziamento, e mi allontanai da lui contento insieme e contristato: contristato dalla predizione ch’egli mi aveva fatta, e contento della indicazioni che poteva trovare nel suo manoscritto.
Tornato a casa mia, e adagiatomi sopra un seggiolone, lessi quanto ora trascrivo letteralmente.
VII.
Oggi …. ottobre 18 ….
Ad un’ora dopo la mezza notte sono stato avvisato che doveva succedere un duello fra il signor Enrico di Faverne ed il signor Oliviero d’Harnoy, e che quest’ultimo mi pregava di accompagnarlo sul luogo del combattimento.
Io mi recai a casa sua a cinque ore precise.
A sei ore e un quarto il signor Enrico di Faverne cadde ferito d’un colpo di spada.
Io corsi a lui, mentre Oliviero e i suoi padrini salivano in carrozza, e riprendevano la via di Parigi: il ferito era svenuto.
Era evidente, che se la ferita non era mortale, era certo delle più gravi: la punta della lama triangolare era entrata dal lato destro, ed era uscita alquanti pollici dal lato sinistro.
Credetti indispensabile sull’istante una cacciata di sangue.
Io aveva raccomandato al cocchiere di prendere nel tornare il viale di Neuilly e i Campi Elisi, e perchè questa via era la più breve, ma specialmente perchè la carrozza andando sulla terra e non sull’acciottolato, avrebbe meno nociuto al ferito.
Giungendo presso l’Arc-de Triomphe, il signor di Faverne diede qualche segno di vita: la sua mano s’agitò, e sembrò cercare la sede d’un profondo dolore, andando a fermarsi sul petto.
Due o tre sospiri affannosi, che fecero gemere sangue dalla doppia ferita, uscirono penosamente dalla sua bocca. Finalmente egli aperse gli occhi, guardò i suoi padrini, e poi, fermando gli occhi sopra di me, mi riconobbe, e facendo uno sforzo, mormorò:
« Ah! siete voi, dottore? Vi supplico non abbandonatemi: io mi sento assai male.
Dopo ciò, stanco da questo sforzo, rinchiuse gli occhi, ed una leggera spuma rossastra bagnò le sue labbra. Evidentemente il polmone era offeso.
State tranquillo, gli dissi; voi siete gravemente ferito, è vero, ma la ferita non è mortale.
Egli non mi rispose, non aperse gli occhi, ma sentii che mi strinse debolmente la mano, colla quale tastavagli il polso.
Finchè la carrozza andò sulla terra, ogni cosa andò bene: ma, giungendo sulla piazza della Rivoluzione, il cocchiere fu costretto d’andare sul selciato, e allora lo scuotimento della carrozza sembrava dare tanto tormento al ferito, che io chiesi ai padrini, se alcuno di loro dimorasse in qualche luogo vicino, per risparmiare al ferito la strada che gli rimaneva fino alla via Taitbout.
Ma, a questa domanda, intesa dal signor di Faverne, malgrado la sua apparente insensibilità, egli sclamò:
― No, no, a casa mia!
Convinto che l’impazienza morale non poteva che aggravare il mal fisico, abbandonai la mia prima idea, e lasciai che il cocchiere continuasse la sua strada.
Dopo dieci minuti di angoscie, durante le quali ad ogni scossa io vedeva contrarsi dolorosamente la faccia del ferito, giungemmo in via Taitbout, num. 11.
Il signor di Faverne dimorava al primo piano.
Uno dei due padrini salì il primo ad avvertire i domestici, affinchè venissero a darci mano nel trasportare il loro padrone. Scesero due camerieri in sontuosa livrea.
Io ho l’abitudine di giudicare gli uomini non solo da loro stessi, ma da coloro benanche che li circondano. Esaminai adunque quei due camerieri. Nè l’uno, nè l’altro dimostrò il menomo interesse per il ferito.
Era evidente che stavano al servizio del signor di Faverne da poco tempo, e che nel breve tempo il loro padrone non aveva saputo spirar loro alcuna simpatia.
Attraversammo una fuga di camere, che non mi parvero sontuosamente ammobigliate, ma non potei osservarne i particolari. Giunti nella stanza da letto, il letto non era stato pur tocco, dacchè s’era alzato il signor di Faverne.
Sulla parete, presso il capezzale, all’altezza della mano stavano due pistole e un pugnale turco.
Deponemmo il ferito sul letto, i due domestici ed io, poichè i due padrini, ritenendo inutile la loro presenza, erano già partiti. Vedendo che la ferita non gettava più sangue, la medicai. Finita la mia operazione il ferito fece cenno ai servi di ritirarsi, e noi restammo soli.
Malgrado il poco interesse che aveva provato fino allora pel signor di Faverne, verso il quale provava anzi una certa avversione, la solitudine, nella quale io stava per lasciarlo, mi rattristò.
Guardai intorno a me, fissando specialmente gli occhi sugli usci, attendendomi sempre di veder entrare qualcuno, ma m’ingannai.
Frattanto io non poteva rimanere più lungamente presso di lui; le mie occupazioni giornaliere mi richiedevano. Erano le sette e mezzo; e, alle otto, doveva trovarmi alla Carità.
« Non avete alcuno che prenda cura di voi? gli domandai.
― Nessuno, ei mi rispose, con voce fioca.
― Non avete un padre, una madre, un parente?
― Nessuno.
― Un’amica?
― Scosse la testa sospirando, e sembrò che nominasse Luigia, ma questo nome fu così mal proferito che rimasi nel dubbio.
― Ma io non posso abbandonarvi in tal modo.
― Mandatemi un’infermiera, e ditegli che la pagherò largamente.
Mi alzai per lasciarlo
« Ve ne andate così presto?
― È indispensabile: ho i miei ammalati; se fossero gente ricca, avrei il diritto di farli aspettare; ma son poveri, io devo essere esatto.
― Ma tornerete nella giornata, non è vero?
― Sì, se lo desiderate.
― Certamente, dottore, ed il più presto possibile, non è vero?
― Sì, il più presto possibile.
― Me lo promettete?
― Ve lo prometto.
― Dunque andate.
Mi avviava alla porta, e il ferito fece un movimento come per ritenermi e aprir la bocca.
« Che bramate? Gli chiesi.
Egli lasciò ricadere la testa sul capezzale senza rispondermi.
Mi accostai ad esso.
« Ditemi, continuai, e se sta in me di rendervi un servigio qualunque, io lo farò.
Sembrò prendere una determinazione.
« Voi mi diceste che la ferita non è mortale?
― Sì, ve l’ho detto.
― Potete garantire?
― Io credo di sì; ma se frattanto aveste a prendere qualche disposizione. . . .
― Dunque, da un momento all’altro io posso morire? . . .
E divenne più pallido che non era prima: un freddo sudore comparve a bollicine alla radice de’suoi capelli.
« V’ho detto che la ferita non è mortale, ma v’ho detto egualmente ch’ell’è assai grave.
― Signore, io posso aver fiducia nelle vostre parole, non è vero?
― Non bisogna averne con quelli, de’quali si dubita . . .
― No, no, io non dubito punto di voi. Tenete, aggiunse, donandomi una chiave che si tolse da una catena appesa al suo collo: aprite con questa chiave la cassetta di quell’armadio.
Feci quant’egli mi aveva detto. Egli si alzò sul gomito; e quanto gli restava di vita, sembrava lo avesse tutto raccolto negli occhi.
« Vedete un taccuino? Egli chiese.
― Eccolo.
― Egli contiene carte di famiglia che non riguardano che me solo; dottore, fatemi un giuramento che s’io muoio, getterete nel fuoco quel portafoglio.
― Ve lo prometto.
― Senza leggerlo.
― È chiuso a chiave.
― Ma una serratura di portafoglio è tanto facile a rompersi…»
Lasciai cadere il portafoglio.
Abbenchè il motto fosse insultante, ei m’ispirò più nausea, che sdegno.
Il malato vide che mi aveva offeso.
« Perdono, ei mi disse, cento volte perdono; il soggiorno nelle colonie mi ha reso malfidente. Colà non si può sapere con chi si parla.
« Perdono, ripigliate quel portafoglio, e promettetimi di bruciarlo se muoio.
― Per la seconda volta ve lo prometto.
― Grazie.
― Volete altro?
― Non vi sono nello stesso armadio alquanti biglietti di banco?
― Sì, due da mille, tre da cinquecento.
― Abbiate la bontà di porgermeli, dottore.
Presi i cinque biglietti e glieli porsi; egli allora li stracciò fra le mani, ne fece una palla e la cacciò sotto il capezzale.
Grazie, egli disse, stanco dalla fatica, quindi lasciandosi ricadere sul capezzale, mormorò:
« Ah, dottore, mi par di morire.
» Dottore, salvatemi, e questi cinque biglietti di banco son vostri, il doppio, il triplo, se occorre . . . Ah! . . .
Io corsi a lui: era nuovamente svenuto.
Suonai per un cameriere, facendo intanto odorare al ferito una boccetta di sali inglesi.
Fra pochi istanti sentii un movimento al suo polso: egli tornava in sè.
« Via, mormorò, anche per questa volta non sono andato. Poi, aprendo gli occhi e guardandomi: ― Grazie, dottore, di non avermi abbandonato, ei mi disse.
― Ma, finalmente, bisogna che vi lasci, io gli risposi.
― Sì, ma tornate presto.
― A mezzogiorno sarò di ritorno.
― E frattanto credete ch’io possa correre qualche pericolo?
― Non credo. Se il ferro avesse leso qualche organo principale sareste morto testè.
― E voi mi manderete una assistente?
― Sul momento; ma, frattanto, il vostro servo può rimanere.
― Certamente, rispose il servo, io rimarrò presso il signore.
― No, no, sclamò il ferito, andate col vostro compagno, andate, desidero dormire, e restando là mi sareste d’incomodo.
Il servo uscì.
« Non è prudenza rimaner solo, io gli dissi.
― Non è più imprudente ancora, ei mi rispose, di restare con un gaglioffo che può finirmi per derubarmi?
« Il buco è fatto, aggiunse a bassa voce, e introducendo una lama per la ferita, si può trovar il cuore, lasciato intatto dal mio avversario.
Fremetti all’idea che aveva attraversato la mente di costui: Chi era egli mai per formare cotali idee?
« No, egli aggiunse, in quella vece chiudetemi a chiave, e date questa chiave alla donna che verrà ad assistermi; e ditele inoltre di non lasciarmi solo nè giorno nè notte. Ella è una buona donna, non è vero?
― Ne rispondo io.
― Bene! Andate, a rivederci . . . a mezzogiorno.
― A mezzogiorno.
― Chiudetemi a doppia mandata, a doppia mandata, egli gridò.
Io girai la chiave due volte.
« Grazie, egli disse, con voce spenta.
Io mi allontanai.
«Il vostro padrone vuol dormire, dissi ai due servitori che ridevano nell’anticamera, e siccome egli teme che possiate entrare nella sua stanza senza essere chiamati, egli mi ha dato la chiave per la donna che verrà fra poco.»
I servi si guardarono in modo singolare, ma nulla risposero.
VIII.
Il malato.
Poco dopo io stava presso una eccellente infermiera, alla quale diedi le opportune indicazioni, indirizzandosi essa sull’istante verso l’abitazione del signor Enrico di Faverne.
Io fui di ritorno a mezzogiorno come gli aveva promesso.
Egli dormiva ancora.
Pensai di continuare le mie visite e ritornare più tardi.
Ma egli avea raccomandato premurosamente che, s’io veniva, volessi attendere ch’ei si destasse; siedetti nella sala contigua, a rischio di perdere una mezz’ora di quel tempo tanto prezioso ad un medico.
Approfittai di quell’attesa per gettare uno sguardo intorno a me, e per dar compimento, s’ei mi venisse fatto, mediante la vista degli oggetti esteriori, alle mie idee circa la condizione morale di quell’uomo.
Primieramente, tutti gli oggetti erano di aspetto elegante, e solo esaminando più particolarmente la stanza si scorgeva la suntuosità senza il buon gusto. I tappeti a splendidi colori, de’più belli che possa fornire i magazzini di Sallandrouze, non si accordavano col colore de’cortinaggi, nè con quello dei mobili.
L’oro signoreggiava dappertutto. Le modanature delle porte e del soppalco erano dorate; frange d’oro pendevano dalle cortine, e la tappezzeria delle pareti scompariva sotto una moltitudine di quadri dorati che le coprivano, quadri che contenevano incisioni da 20 franchi, ovvero copie di quadri famosi, certamente venduti per originali all’ignorante acquirente.
Quattro stipi sorgevano ne’quattro angoli di quella sala da crocchio, ma fra alcuni vasi cinesi, di gran valore, trovavansi alcuni lavori in avorio di Dieppe, e varie porcellane moderne, così grossolanamente lavorate, che toglievano persino l’idea d’esser collocate colà quali figurine di Sassonia.
L’orologio e i candelabri erano del medesimo gusto, e una tavola piena di libri magnificamente legati compiva l’addobbo, offrendo un prospetto assai mediocre delle letture abituali del padrone di casa.
Tutto era nuovo, e sembrava comperato da tre, o quattro mesi al più.
Terminava di far questo esame, che non mi rivelava nulla di nuovo, ma che mi conservava nell’opinione di trovarmi presso un ricco da poco tempo, di gusto imperfetto, il quale era pervenuto ad unire intorno a sè le insegne, ma non la realtà della vita elegante, allorchè, entrata la donna, mi avvertì che il malato era desto. Passai tosto dalla sala da crocchio nella camera da letto. Ivi tutta la mia attenzione venne occupata dal malato. Fino dal primo sguardo conobbi che il suo stato non aveva deteriorato: anzi i sintomi continuavano ad essere favorevoli.
Lo rassicurai adunque, poichè la sua tema continuava egualmente, e la febbre che lo agitava l’accresceva anzi in modo che disgustava. Ora, come una persona così debole aveva dato compimento ad un atto di coraggio, insultando un uomo conosciuto come Oliviero per la sua facilità di metter mano alla spada, e come, avendolo insultato, erasi comportato sul terreno nel modo ch’egli avea fatto?
Egli era un mistero, il cui segreto stava nascosto, o in una elevata macchinazione, o, al contrario, in uno sdegno senza misura. Pensai che un giorno o l’altro tutto verrebbe in chiaro, essendochè pochi secreti rimangono chiusi ostinatamente al medico.
Men preoccupato del suo stato, potei allora esaminar la sua persona. Ell’era, come il suo appartamento, un complesso d’anomalie. Tutto ciò che l’arte aveva potuto rendere in lui aristocratico aveva preso un certo carattere d’eleganza. I suoi capelli d’un biondo sbiadato erano tagliati alla moda, la sua barba rada era tagliata regolarmente.
Ma la mano ch’egli mi porgeva, ond’io gli toccassi il polso, era comune; e la cura ch’egli ne aveva preso da poco tempo, non aveva potuto correggere la nativa rozzezza; le unghie erano mal fatte, logore, neglette; e presso il suo letto gli stivali che s’era levato la mattina, indicavano che i suoi piedi, come le sue mani, erano affatto plebei.
Come dissi, il malato aveva la febbre, e tuttavia questa febbre, avvegnachè forte, appena davagli qualche espressione negli occhi, i quali, a quanto osservai, non fissavano direttamente nè l’uomo, nè le cose: in quella vece la sua voce era sommamente agitata e pronta a mutare.
« Ah! siete qua, dottore, egli mi disse: Ecco, vedete, io non sono ancor morto, e voi siete un gran profeta; ma, ora sto fuor di pericolo, dottore? Oh! maledetta stoccata! Oh che stoccata ! Ma dunque ei passa la vita a tirar di spada quel gladiatore, quel calunniatore, quello sciagurato Oliviero?
Io l’interruppi.
« Perdono; io sono l’amico e il medico del signor Oliviero d’Harnoy; ho accompagnato sul terreno lui e non voi.
« Io conosco voi da questa mattina, lui io conosco già da dieci anni.
« Comprendete adunque, che se continuate ad offenderlo, io devo pregarvi di rivolgervi ad alcuno de’miei confratelli d’arte.
― Come, dottore, proruppe il ferito; voi mi abbandonerete nello stato in cui sono? Oh che sciagura! Aggiungete che voi trovereste pochi clienti che vi pagassero, come lo farò io.
― Signore!
― Lo so, lo so, tutti fate sembianza di non essere interessati; ma poi quando capita, come si dice, il quarto d’ora di Rabelais, sapete come va fatto a presentare la vostra memoria.
― È possibile, signore, che s’abbia a fare questo rimprovero ad alcuno de’miei confratelli, ma vi proverò, quanto a me, non prolungando le mie visite oltre il termine rigorosamente necessario, che l’avidità censurata da voi nei miei colleghi non è la mia pecca principale.
― Via, ve ne dorreste, dottore?
― No; rispondo a quanto mi dite.
Ma non bisogna badare gran fatto a quello ch’io dico. Voi sapete che noi gentiluomini abbiamo spesso la lingua troppo spedita. Via, perdonatemi.
Io m’inchinai: egli mi porse la mano.
« V’ho tastato già il polso: non può esser migliore.
― Ecco che non mi siete più amico, perchè ho detto male di Oliviero. Egli è amico vostro; ebbi torto; ma è così naturale che io l’odii, anche messo da parte il colpo ch’egli mi ha regalato.
― Colpo che voi siete venuto cercando in modo ch’egli non vel potesse negare; ne convenite?
― Sì, l’ho insultato; ma io voleva battermi con lui, e quando si vuol battersi colla gente, bisogna insultarla.
« Scusate, dottore, mi fate il favor di suonare?
Io tirai la campanella: un servo entrò.
» Venne qualcuno a domandar della mia salute da parte del signor di Macartie?
― No, signor barone, rispose il servo.
― È curioso! mormorò il malato infastidito del costui poco interesse.
V’ebbe un momento di silenzio, nel quale io feci un movimento per prendere il mio bastone.
« Poichè, sapete che cosa mi ha fatto il vostro amico Oliviero?
― No. Ho udito dire di certe parole dette sul conto vostro al club. E forse questo?
― Egli mi ha sventato, o piuttosto ha cercato di sventarmi un matrimonio magnifico: una giovanetta di diciotto anni, bella come gli amori, e cinquantamila lire di rendita: null’altro!
― Come mai ha potuto sventarvi un tal matrimonio?
― Colle sue calunnie, dottore, dicendo, ch’egli non conosceva alcuno del mio nome alla Guadalupa; mentre mio padre, il conte di Faverne, possede colà due leghe di terreno, e una abitazione magnifica con trecento negri.
» Ma io ho scritto al signor di Malpas, governatore, e fra due mesi le carte saranno qui. Si vedrà allora quale di noi due ha mentito.
― Oliviero potrà essersi ingannato, ma egli, signore, non ha mentito.
― E, in attesa, vedete, egli è cagione che colui, il quale doveva essere mio suocero, non mandò neppure ad aver nuove di me.
― Ma egli forse ignora la circostanza del vostro duello.
― Egli non l’ignora, poichè io glielo ho detto fin da ieri.
― Voi glielo avete detto?
― Sicuramente! Allorchè egli mi ha riferito le parole dette dal signor Oliviero sul conto mio, io gli ho soggiunto: Ah così? Bene! questa sera, al più tardi, andrò a provocare cotesto signor Oliviero, e si vedrà se io ho paura di lui.
Io cominciava a conoscere il coraggio momentaneo del mio malato. Era moneta impiegata al cento per cento. Un duello poteva assicurargli una bella donna, e cinquanta mille lire di rendita; e s’era battuto!
Io mi alzai.
« Quando vi rivedrò, dottore?
― Domani verrò a levare la fasciatura.
― Spero che se si parlerà innanzi a voi di questo duello, voi direte che mi sono comportato bene.
― Dirò quello che ho visto, signore.
Sciagurato Oliviero, mormorò il ferito, avrei pagato cento mille franchi per ammazzarlo sul fatto.
― Essendo così ricco, io soggiunsi, da pagar cento mille franchi la morte d’un uomo, dovete sentire meno acerbamente l’esito del vostro matrimonio, il quale non aggiungeva che cinquantamille lire di rendita alla vostra ricchezza.
― Sì, ma questo matrimonio m’insediava; mi faceva cessare da speculazioni arrischiose: inoltre, un giovane nato co’suoi capricci signorili non è mai ricco abbastanza.
Ho fatto affari in borsa; e, a dir vero, ho avuto fortuna: ho guadagnato il mese scorso più di trentamila franchi.
― Bagatelle! Adunque, a rivederci domani.
― Aspettate . . . mi parve che venne suonato.
― Sì.
― Viene alcuno?
― Sì.
Entrò un servo.
Per la prima volta gli occhi del bar.* fissaronsi sopra un uomo.
― Chi è… chiese al servo, senza lasciargli il tempo di parlare.
― Signor barone, rispose il cameriere, il signor conte di Macartie damanda della vostra salute.
― In persona?
― No, è il suo cameriere.
-Ah! disse il malato, e voi avete risposto?
Che il signor barone era gravemente ferito, ma che il medico assicurava sulla sua vita.
― E vero, dottore, che rispondete della mia guarigione?
― Ma sì, mille volte sì, risposi, a meno però che non facciate qualche pazzia.
― Oh quanto a questo state tranquillo.
― Ditemi, dottore, poichè il conte di Macartie manda ad aver nuove di me, questo vuol dire ch’egli non crede alle parole del signor Oliviero.
― Senza dubbio.
― Bene! Guaritemi presto, e voi verrete a nozze.
― Farò del mio meglio per ottenere l’intento.
Salutai ed uscii.
IX.
Il biglietto da 500 franchi.
Uscito di là trassi il respiro più libero. Strana cosa! Costui mi spirava un’avversione ch’io non sapeva comprendere, simile al ribrezzo che si prova vedendo un aragno od un rospo: era impaziente di vederlo fuor di pericolo per interrompere ogni relazione con lui.
Il giorno seguente tornai come gli aveva promesso: la ferita andava a meraviglia.
Le ferite d’arma da taglio o uccidono sul momento, o guariscono in breve.
La ferita del signor di Faverne prometteva una rapida guarigione.
Otto giorni dopo egli era fuor di pericolo.
Secondo la promessa ch’io mi era fatta, gli dissi allora, che le mie visite divenivano affatto inutili, e che intendeva sospenderle, incominciando dal giorno seguente.
Egli insistette perchè io tornassi: ma io tenni fermo.
« Ad ogni modo, disse il convalescente, non vi rifiuterete di portarmi voi stesso il portafoglio che vi ho consegnato, egli è di troppo valore per affidarlo ad un servo, ed io non dubito su quest’ultima prova della vostra gentilezza. »
Promisi.
L’indomani mattina portai di fatto il portafoglio, il sig. di Faverne mi fece seder presso il letto, e tenendo il portafoglio fra le mani, l’aprì. Conteneva una sessantina di biglietti di banca, la maggior parte di mille fr.: il barone ne trasse due o tre, e si dilettò a spiegazzarli.
Io mi alzai.
« Dottore, egli disse, non è una cosa che vi sorprende al par di me?
― Qual cosa?
― Che si abbia coraggio di falsificare un biglietto di banca.
― La mi sorprende, perchè è una vile ed infame azione.
― Infame forse, ma vile no.
« Sapete che bisogna avere una mano ben ferma per scrivere queste due righe
LA LEGGE PUNISCE DI MORTE
IL FALSIFICATORE. . . .
― Certamente, ma il delitto ha pur esso il suo coraggio. Colui che aspetta un uomo al varco per trucidarlo, ha tanto coraggio quasi quanto un soldato che monti sulla breccia, e che occupi una batteria: non però in modo che uno non venga decorato, e l’altro mandato al patibolo.
― Al patibolo!. . . . Comprendo che sia bene mandato un assassino al patibolo; ma non trovate voi, dottore, che guigliottinare un uomo per aver fatto biglietti falsi, è una cosa crudele?
Il barone disse queste parole con alterazione così visibile di voce e di volto, che ne rimasi stupito.
« Avete ragione, risposi, anzi io so da buona sorgente che in breve questa pena verrà addolcita, e ridotta alla galera.
― Lo sapete, dottore, sclamò il malato, ma come lo sapete? … ne siete sicuro? …
― L’ho udito da quello stesso che ne farà proposta.
― Al re. In fatto, voi siete medico di corte! Ah! Il re ha detto questo? E questa proposizione quando dev’esser fatta?
― Non so.
― Informatevi, dottore, ve ne prego. Ne ho un sommo interesse.
― Ne avete interesse? Chiesi con sorpresa.
― Certamente. Non interessa ogni amico dell’umanità sapere che una legge troppo severa venga abrogata?
― Ella già non viene abrogata, signore; solo la galera sta in luogo della morte. Forse vi sembra questo un grande miglioramento sulla sorte dei rei?
― No certamente, no! riprese il barone imbarazzato; potrebbesi anzi dire ch’è peggio; ma almeno restano in vita: il bagno non è che una prigione, nè v’ha prigione dalla quale non si pervenga a salvarsi.
Quest’uomo mi ributtava ognor più. Io feci atto d’andarmene.
« Che? dottore, già mi lasciate? disse il barone piegando con imbarazzo due o tre biglietti nella sua mano con l’intenzione visibile di farli passare nella mia.
― Certo! risposi, facendo un passo in addietro. Non siete guarito, signore? A che dunque potrei giovarvi presentemente?
― E non calcolate il piacere della vostra conversazione?
― Sciaguratamente, noi medici, abbiamo così poco tempo per darci a questo diletto, per quanto che ci sia caro.
« La nostra conversazione è la malattia, e dacchè l’abbiamo cacciata da una casa, bisogna che ne usciamo dietro ad essa, per cacciarla da un’altra casa.
« Sicchè, signore, permettete che prenda congedo.
― Ma non avrò adunque il piacere di rivedervi?
Ne dubito, signore: voi frequentate il bel mondo; io v’intervengo assai rado; le mie ore sono contate; ognuno ha le sue occupazioni.
― Ma s’io ricadessi malato?
― Oh! Allora è altra cosa, signore.
― Dunque, in tal caso io potrò contare sopra di voi?
― Pienamente.
― Dottore, la vostra parola?
― Non è bisogno ch’io ve la dia, poiché non farei che osservare il dovere.
― Non importa, datemela egualmente.
― Bene! Io ve la do.
Il barone mi porse di nuovo la mano.
Ma siccome io temeva che quella mano chiudesse i biglietti di banca, finsi di non accorgermi dell’atto amichevole, col quale mi accomiatava, ed uscii.
Il giorno seguente ricevetti sotto coperta coll’etichetta del signor Enrico di Faverne un biglietto di banca di mille franchi, ed uno da cinquecento.
Io gli risposi subito:
« Signor barone.
» Se aveste atteso il mio promemoria avreste veduto che non avrei apprezzato il mio debole merito, così altamente quale gentilmente voi fate.
» Costumo imporre io stesso il prezzo delle mie visite; e per soddisfare alla vostra generosità, vi rendo avvertito che faccio con voi il prezzo più alto, vale a dire, venti franchi.
» Ebbi l’onore d’essere dieci volte presso di voi, adunque non mi dovete che duecento franchi. Voi me n e avete mandati mille cinquecento: io ve restituisco mille trecento.
» Ho l’onore d’essere, ec., ec.
Fabiano. »
In fatti, ritenni il biglietto di cinquecento franchi, e rimisi al dottore il biglietto da mille e trecento franchi in moneta. Poi misi il biglietto da 500 in un taccuino, ove ne stava una dozzina, egualmente da 500 franchi.
Il giorno seguente comperai alquante cosuccie da un minutiere, pel valore di 2000 franchi, e pagai in quattro biglietti di banca da 500 l’uno.
Otto giorni dopo, il minutiere accompagnato da due guardie di polizia presentossi alla mia casa.
Uno dei quattro biglietti, ch’io gli aveva dato, era stato riconosciuto falso alla banca, ov’egli aveva a fare un pagamento.
Richiesto da chi avesse avuto tal biglietto, egli mi aveva nominato, e si veniva a fare una perquisizione presso di me.
Siccome io aveva tratto quei quattro biglietti da un taccuino, ove n’era una dozzina, e siccome mi erano pervenuti da diverse parti, non potei indicar alla giustizia da chi io potessi averli ricevuti. Solamente, conoscendo io il minutiere per un galantuomo, dichiarai che avrei pagato nuovamente i 500 franchi, qualora mi venisse restituito il biglietto; ma mi venne risposto, che questo non era l’uso, pagando la banca tutti i biglietti che venivanle presentati, quand’anche fossero riconosciuti falsi.
Il minutiere purgato dal sospetto di avere scientemente messo in giro un biglietto falso, se ne partì.
Dopo alcune poche ricerche, i due agenti di polizia uscirono anch’essi, ed io non udii più parlare di questo affare schifoso.
X.
Un lembo del velo.
Erano scorsi tre mesi, quando fra la mia corrispondenza della mattina trovai il seguente biglietto:
Caro dottore.
« Io sono gravemente malato, ed ho urgente bisogno della vostra scienza: recatevi adunque in giornata a casa mia, se pure non serbatte nula contro di me.
Tutto vostro
ENRICO BARONE DI FAVERNE
via Taitbout, n.° 11. »
Questa lettera riferita da me testualmente co’due errori d’ortografia, de’quali era fregiata, mi confermò nella opinione che il mio cliente fosse affatto privo di educazione. Tuttavia, nato alla Guadalupa, com’egli diceva, la cosa non faceva tanto stupore. È noto come generalmente l’educazione dei coloni viene trascurata.
D’altronde, il barone di Faverne non aveva nè le piccole mani, nè i piccoli piedi, nè la figura svelta e graziosa, nè il piacevole parlare della gente dei tropici; o, a quanto sembrava, io aveva a fare con un provinciale disgrossato col soggiorno della capitale. Potend’egli essere gravemente ammalato, mi recai a casa sua. Entrai, e lo trovai in un gabinetto tappezzato di damasco violetto ranciato.
Con mia grande sorpresa quel recesso era d’un gusto superiore al rimanente dell’appartamento.
Giaceva mezzo coricato sopra un sofà in giacitura evidentemente studiata, portava calzoni di seta, e una magnifica veste da camera.
« Ah, come siete gentile d’esser venuto a trovarmi, dottore, egli disse, alzandosi appena, e facendomi cenno di sedere. Del resto, io non ho mentito: io soffro terribilmente.
― Che vi sentite? gli chiesi? sarebbe forse la ferita?
― No, Dio mercè; vi resta appena un piccolo segno come una margine di sanguisuga. No, dottore, nol so pur io; e, se non credessi che ne faceste beffe, vi direi che ho i vapori.
Io sorrisi.
« Ma ell’è una malattia, egli continuò, che voi riservate pel bel sesso soltanto.
« Il fatto si è intanto che io soffro assai, benchè non sappia dire quello che soffro, nè come soffro.
― Diavolo! La cosa è seria. Sarebbe forse ipocondria?
― Come dite, dottore?
Io ripetei la parola, ma conobbi ch’ella non aveva alcun senso pel baron di Faverne. Attendendo gli presi la mano, e posai le dita sull’arteria.
Egli aveva in fatto il polso nervoso e agitato.
Mentre io contava le pulsazioni dell’arteria, venne suonato: il barone sobbalzò, e le pulsazioni si accelerarono.
― Che avete? gli chiesi.
― Nulla, rispose, se non che per una forza superiore quando sento suonare trabalzo; e poi guardate, mi sento impallidire.
« Ah, dottore, ve lo dico, sì, io sono gravemente malato.
In fatto il barone era divenuto pallido.
Io cominciava a credere ch’egli non esagerasse, e che in realtà soffrisse assai. Solo era convinto che questo sconcerto fisico aveva una cagione morale.
Lo guardai fisso: egli abbassò gli occhi, e al pallore che gli coperse la faccia, successe un vivo rossore.
― Sì, gli dissi io, vedesi a’segni che voi soffrite.
― Ah! non è vero, dottore, egli esclamò. Bene! Ho già ricorso a due vostri confratelli, poichè voi trattaste in modo così singolare con me, che non osava chiamarvi.
« Quegli imbecilli si posero a ridere quand’io dissi loro che aveva male di nervi.
― Voi soffrite, io risposi, ma non è già una causa fisica quella che vi fa soffrire. Voi avete qualche dolore morale, forse una grave inquietudine.
Egli rabbrividì.
« Ma quale inquietudine volete ch’io abbia? Al contrario tutto mi succede prosperamente.
» Il mio matrimonio . . . . a proposito sapete? Il mio matrimonio con madamigella di Macartie, che il vostro signor Oliviero aveva cercato di far andar a vuoto . . . .
― Sì, continuate.
― Il mio matrimonio avverrà fra quindici giorni; e già se s’è fatta la prima strida. Egli fu ben punito delle sue insinuazioni, e me ne ha già chiesto scusa.
― Come mai?
― Germano, disse il barone, datemi quel portafoglio ch’è sul caminetto.
Il servo obbedi; il barone prese il portafoglio e l’aperse.
Prendete, egli disse, con un leggero tremito di voce, ecco la mia fede di nascita: nato a Punta a Pitre, come vedete; e poi ecco il certificato del signor di Malpas, nel quale asserisce che mio padre è uno dei principali e più ricchi possidenti della Guadalupa.
Queste carte vennero presentate al signor Oliviero, e siccome ei conosce la sottoscrizione del governatore, ei fu costretto a confessare che quella sottoscrizione era sua.
Continuando il mio esame, il tremito nervoso del barone cresceva.
« Voi sofferite ognor più, gli dissi.
― Come, volete voi che io non soffra? Vengo perseguitato, calunniato, temo di venire un giorno o l’altro accusato di qualche delitto.
« Ah! Sì, sì, dottore, voi avete ragione; io soffro, continuò il barone alzandosi, io soffro, io soffro assai.
― Vediamo, provate a calmarvi.
― Calmarmi! E ben facile a dirlo! Parbleu! S’io potessi calmarmi, sarei guarito!
» Udite; a certi momenti i miei nervi s’irrigidiscono, come se avessero a rompersi, e mi si chiudono i denti come se avessero a infrangersi: odo romoreggiamenti nella mia testa, come se tutte le campane di Notre-Dame, mi suonassero nelle orecchie: allora mi sembra divenir pazzo.
« Dottore, qual morte è la più dolce?
― Perchè mi fate questa domanda?
― Perchè talvolta mi viene il pensiero d’uccidermi.
― Via!
― Dottore, dicono che avvelenandomi coll’acido prussico si muore in un subito.
― Diffatti è la morte più rapida che si conosca.
― Dottore, in ogni cosa dovreste apparecchiarmi un’ampolla d’acido prussico.
― Siete pazzo.
― Ve la pagherò quanto vorrete, mille scudi, sei mille franchi; però purché mi assicuriate che si muore senza soffrire.
Io mi alzai.
« Dunque, decidetevi, egli mi disse trattenendomi.
― Duolmi, signore, che mi diciate continuamente certe cose, le quali non solo abbreviano le mie visite, ma rendono quasi impossibile ogni ulteriore relazione fra noi.
― No, no, restate, vi prego. Non vedete ch’è la febbre che mi fa parlare in tal guisa.
Egli suonò, comparve lo stesso cameriere di prima.
« Germano, ho sete, disse il barone, datemi qualche cosa da bere.
― Che cosa desidera, signor barone?
― Voi mi fate compagnia a prendere qualche cosa, non è vero?
― No, vi ringrazio assolutamente, io risposi.
― Non monta, portate due bicchieri ed una bottiglia di rum.
Germano uscì.
― Germano rientrò poco dopo con un vassoio, ove stavano le cose dimandate. Solo osservai che i bicchieri, in luogo d’essere da liquori, erano da bordò.
Il barone li riempi tutti e due, ma la sua mano tremava in modo che verso sul vassoio una porzione uguale a quella contenuta nei bicchieri.
« Assaggiate, ei mi disse: questo è rum eccellente ch’io portai dalla Guadalupa, ove pretende il vostro Oliviero ch’io non sia stato giammai.
― Vi ringrazio, ma non ne bevo mai.
Ei prese uno dei due bicchieri.
« Che mai? gli dissi; bevete voi quella roba?
― E perchè no?
― Ma se continuate così, vi brucerete anche la camiciuola che vi copre il petto.
― Credete voi che si possa uccidersi bevendo assai rum?
― No, ma si può acquistare una gastro-enterite, e si muore dopo cinque a sei anni di atroci dolori.
Egli depose il bicchiere sul vassoio, quindi lasciò cadersi la testa sul petto, e le mani sulle ginocchia.
« Sicchè, dottore, egli continuò, voi riconoscete che io sono gravemente malato?
― Io non dico che siate ammalato, dico che soffrite.
― E non è la cosa medesima?
― No.
― E che adunque mi consigliate? La medicina deve conoscere i rimedii per ogni malattia. Sarebbe indarno, se ciò non fosse, pagare i medici così caro.
― Non direte già questo, io spero, riguardo mio, gli risposi.
― Oh no! voi siete un modello sotto ogni aspetto,
Ei prese il bicchiere e lo tracannò, senza pure sapere quello che si facesse.
Io non l’arrestai, poichè voleva vedere quale sensazione produrrebbe in lui quel bruciante liquore.
La sensazione era nulla: si avrebbe detto ch’egli avesse bevuto un bicchier d’acqua.
Era evidente che quest’uomo aveva spesso cercato di sopire le sue ambasce co’liquori alcoolici.
― In fatto, dopo pochi momenti, parve riprendere qualche vigore.
Quindi, rispondendo a’suoi propri pensieri, soggiunse;
« Ma io son folle a tormentarmi in tal modo! Io sono giovane, io sono ricco, io godo il bel mondo, non voglio curarmi dell’avvenire.
E prese il secondo bicchiere tracannandolo come il primo,
« Sicchè, dottore, egli disse, voi non mi suggerite nulla?
― Anzi io vi consiglio d’aver fiducia in me, e dirmi che vi tormenta.
― Voi dunque credete ch’io abbia qualche cosa che non ardisco dire?
― Dico che nascondete qualche secreto.
― Ah! importante! egli disse, con un sorriso forzato.
― Terribile. »
Egli impallidì, e prese macchinalmente il collo della bottiglia per versare un terzo bicchiere.
Io lo arrestai.
« V’ho detto che vi ucciderete a quel modo, soggiunsi. Egli lasciò ricadersi in addietro, appoggiando la testa sulla tappezzeria della parete.
« Sì, dottore, sì; voi siete un uomo di genio: sì, voi avete indovinato tutto ad un tratto, mentre gli altri non hanno capito nulla. Sì, ho un secreto, come dite voi, un secreto terribile, un secreto che mi ammazzerà più sicuramente che il rum che mi vietate di bere; un secreto che ho sempre desiderato di confidare a qualcuno, e che confiderò a voi, se, come un confessore, giurerete di conservare il segreto. Ma, giudicate qual sarebbe il mio eterno tormento, quando sapessi che il mio segreto fosse noto ad altrui, s’egli pur mi tormenta a tal segno, certo siccome sono ch’ei non è noto ad altri che a me medesimo.
Io mi alzai.
» Signore, gli dissi, io non v’ho chiesto rivelazioni, nè vi ho fatto alcuna confidenza. Voi mi avete chiamato come medico, ed io vi ho detto che la medicina non ha nulla a fare col vostro stato,
» Frattanto, serbate il vostro segreto, voi ne siete padrone, per quanto ei vi pesi sul cuore e sulla coscienza.
» Signor barone, addio. »
Ed il barone mi lasciò andare senza rispondermi, senza fare un gesto per trattenermi, senza chiamarmi. Soltanto osservai nel volgermi per chiuder l’uscio, ch’egli stendeva la mano verso la bottiglia di rum, sua fatale consolatrice.
XI.
Una terribile confessione.
Continuai a far le mie visite; ma, mio malgrado, non poteva allontanar dalla mente quanto aveva veduto ed udito, serbando pur sempre avversione morale verso quell’infelice, come già dissi. Cominciava a provare quella pietà fisica, se è possibile esprimersi a questo modo, che l’uomo destinato a soffrire, sente per altri che soffra.
Pranzai fuori di casa, e siccome una porzione della sera la impiegai a far certe visite, non fui di ritorno a casa che dopo mezzanotte.
Mi venne detto che un giovane, venuto per consultarmi, mi attendeva da un’ora nella mia stanza. Egli non aveva voluto dir il suo nome.
Entrando, riconobbi il sig. di Faverne.
Era più pallido ed agitato che la mattina. Un libro ch’egli aveva letto frattanto stava aperto sulla tavola. Questo libro era il trattato di tossicologia d’Orfila.
« Dunque, gli dissi, sentite peggiorare il vostro male?
― Si, ei mi rispose, mi sento malissimo. Mi sopravvenne un caso funesto, un’avventura terribile, e sono venuto a narrarvela. Udite, dottore, dacchè sono a Parigi, dacchè meno la vita che voi conoscete, voi siete il solo che mi abbia inspirato fiducia; sicchè, vedete, io ricorro a voi non già per rimedio a quello che soffro; me lo avete già detto, non v’ha rimedio per me, e ricorrendo tuttora a voi, sapeva io pure non ve n’essere alcuno: io venni per un consiglio.
― Un consiglio è ben altra cosa che una ricetta, signore, e debbo avvertirvi, ch’io ne do assai di rado.
« Primieramente non si chiede consiglio che per raffermarsi nella già presa determinazione; ovvero, se indecisi ancora di quello che si ha da seguire, si segue il consiglio ricevuto, egli è per poter dire un giorno al consigliere:
« Causa vostra.
― Dottore, può esser anche vero quello che dite; ma nello stesso modo che un medico non può negare una ricetta, io credo che un uomo non possa negare un consiglio.
― Avete ragione; ed io non vi nego il consiglio; solo mi farete il piacere di non seguirlo.
Siedetti allora vicino a lui, sennonchè, invece di rispondermi, lasciò cadersi fra le mani la testa, e sembrò annullato nei propri pensieri.
― Dunque? Gli dissi, dopo un istante di silenzio.
― Dunque, ei rispose, ciò ch’io veggo di più chiaro in tutto questo si è, che sono perduto.
V’era una tale espressione di convincimento in queste parole che rabbrividii.
― Perduto? Voi? Ma come? Gli dissi.
― Senza dubbio, ella andrà ad accusarmi, ella dirà a tutti, ch’io sono, ella griderà sotto le finestre il mio vero nome.
― Chi mai?
― Ella, per Dio!
― Ma chi Ella?
― Maria.
― E chi è questa Maria?
― Ah! È vero! Voi non sapete nulla. È una scempia, una gaglioffa, di cui ebbi la dabenaggine di occuparmi, facendo la minchioneria di farle fare una fanciulla.
― Ma s’ella è donna da soddisfar con denaro, siete ricco abbastanza.
― Sì, ei riprese interrompendomi, ma ella non è per sciagura una donna di quella fatta: ella è una giovane campagnuola, una povera giovane, una santoccia.
― Ma testè la chiamavate gaglioffa?
― Ho detto male, dottore, ho detto male. Ho parlato così dalla rabbia, o piuttosto, credete, dalla paura.
― Adunque questa donna può influire in un modo fatale sul vostro destino.
― Ella può impedire il mio matrimonio con madamigella di Macartie.
― Come?
― Dicendo il mio nome, rivelando ch’io sia.
― Non vi chiamate adunque di Faverne?
― No.
― Non siete adunque il barone?
― No.
― Non siete nato alla Guadalupa?
― No. Tutto questo, vedete, è una favola.
― Allora Oliviero aveva ragione?
― Sì.
― Ma come adunque il signor Malpas, il governatore della Guadalupa ha potuto certificare?
― Silenzio, disse il barone serrandomi violentemente le mani, questo è l’altro segreto, quel segreto, che mi uccide, sapete!
Restammo un istante muti amendue.
― Adunque, questa giovane, cotesta Maria, l’avete veduta?
― Oggi, dottore, stasera.
Ella ha lasciato il suo villaggio, è venuta a Parigi, e ha tanto fatto che mi ha scoperto, e stasera senza dirmi chi è, si è presentata a casa mia colla sua figliuola.
― E voi che faceste?
― Ho detto che non la conosceva, e l’ho fatta rigettar sulla strada dalla mia gente.
Io indietreggiai involontariamente.
« Voi avete osato far questo, voi avete rinnegato la vostra figlia, voi avete fatto scacciare sua madre dai vostri servi?
― Che volevate che facessi?
― Cosa orrenda!
― Lo so!
E successe nuovamente un profondo silenzio. Dopo un istante mi alzai.
« E in ciò che devo far io? gli dissi.
― Non vedete voi dunque che ho dei rimorsi?
― Veggo che avete paura.
― Dottore, desidero che vediate questa donna.
― Io?
― Sì, voi; rendetemi questo servigio, parlatele.
― E dove trovarla?
Un momento dopo averla scacciata, apersi la finestra, e l’ho veduta assisa sopra un macigno.
― E credete che vi sia ancora?
― Sì.
― L’avete adunque veduta ancora?
― No, sono uscito per un’altra porta, e sono venuto a casa vostra.
― E perchè non siete uscito per la porta ordinaria, e nella vostra carrozza?
― Ho temuto ch’ella si gettasse sotto i piedi dei cavalli.
― Rabbrividii.
« Ma che volete che faccia in questo affare? A che posso giovarvi.
― Dottore, fatemi un servizio: parlatele, accomodate la cosa con essa, ch’ella torni a Trouville, colla sua fanciulla: le darò quanto vorrà, dieci mille franchi, venti mille franchi, cinquantamille franchi.
― Ma s’ella ricusa?
― S’ella ricusa? … bene, allora vedremo.
Il barone proferì queste parole in modo tanto sinistro, che fremetti per la povera donna.
« Bene! diss’io, le parlerò.
― Ed otterrete… che parta.
― Non posso risponder di questo: posso promettere solo di parlarle col linguaggio della ragione, cioè di farle conoscere la distanza che passa fra lei e voi.
― La distanza?
― Sì.
― Voi avete dimenticato ch’io non son barone: io sono un semplice contadino, il quale colla mia intelligenza mi sono innalzato al di sopra del mio stato. Ma, silenzio, ve ne prego. Sapete che se il sig. di Macartie sapesse che sono un contadino, egli non mi darebbe sua figlia.
― Adunque non potete distogliervi dall’idea di questo matrimonio?
― Ve l’ho detto; è l’unico mezzo per farmi desistere da speculazioni azzardose, alle quali sono costretto di avventurarmi.
― Cercherò di parlare a costei.
― Questa sera?
― Questa sera. Ove posso trovarla?
― Ove io l’ho veduta?
― Sulla pietra?
― Sì.
― Credete ch’ella vi stia tuttora?
― Ne sono certo.
― Allora andiamo.
Egli si alzò rapidamente, andando verso la porta.
Uscimmo.
Io abitava a cinquecento passi appena discosto dalla sua casa. Giungendo all’angolo della via Taltbout e di quella dell’Helder, egli si arrestò, e mostrandomi qualche cosa d’informe che distinguevasi appena nell’ombra,
« Là, là, egli disse.
― Che cosa, là?
― Essa.
― La giovane?
― Sì. Io entro in casa per la via dell’Helder. La casa, come sapete, ha due ingressi.
« Andate a lei.
― Vado.
― Aspettate. Un altro servizio, vi prego.
« Mi sembra diventar pazzo; ho le vertigini; tutto mi gira intorno, dottore, datemi un braccio, conducetemi alla porta.
― Volentieri.
Lo presi pel braccio; egli vacillava realmente come un uomo ubbriaco. Lo condussi fino alla porta.
« Grazie, dottore, grazie; io sono riconoscentissimo, ve lo giuro, e se foste di quelli che si fanno pagare i sevigi, io pagherei quello che vi piacesse chiedermi.
« Eccoci giunti; domani verrete a darmi la risposta; non è vero?
« Io verrei a casa vostra; ma, nella giornata, non oserei uscire: ho timore d’incontrarla.
― Verrò io a voi.
― Addio, dottore.
Suonò e venne aperto.
« Un momento, diss’io trattenendolo; il nome di questa giovane?
― Maria Granger.
― Addio, a rivederci.
Egli entrò, e io ritornai per la via dell’Helder, per portarmi nella via Talbout.
Giunto all’angolo delle due strade, là dove aveva prima scorto quella donna, udii un rumore, e vidi una quantità di persone che si movevano dell’ombra.
Io accorsi.
Una pattuglia passando aveva veduta quell’infelice, e, siccome, interrogata che stesse facendo colà a due ore dopo mezza notte ella non aveva voluto rispondere, la pattuglia l’accompagnava al corpo di guardia.
La povera donna camminava in mezzo alle guardie nazionali, portando in braccia sua figlia che piangeva, ma ella non versava una lagrima, ella non diceva parola. Mi accostai subito al capo della pattuglia.
« Perdonate, signori, gli dissi, io conosco questa donna.
Ella alzò la testa e mi guardò.
« Ah! non è lui, ella disse, e abbassò nuovamente la testa.
― Voi conoscete questa donna, signore? rispose il caporale.
― Sì… ella si chiama Maria Granger, ed è del villaggio di Trouville.
― Il mio nome, quello del mio villaggio!
« Ma chi siete voi, signore, in nome del cielo, chi siete?
― Io sono il dottore Fabiano, vengo da parte sua.
― Da parte di Gabriele?
― Sì.
― Allora signori, vi supplico, lasciatemi andare con lui! Siete voi veramente il dottore Fabiano? mi chiese il capo della pattuglia.
― Ecco il mio ricapito.
― E voi garantite per questa donna?
― Io ne rispondo.
― Allora, signore, ella può venire con voi.
― Grazie.
Offersi il braccio alla povera giovane, ma, mostrandomi con un cenno la fanciulla che doveva portare,
« Vi seguirò, signore, mi disse. Ove andiamo?
― A casa mia.
» Dieci minuti dopo ella stava nella mia stanza, seduta nello stesso luogo, ove mezz’ora prima stava il preteso barone di Faverne. La fanciulla dormiva su d’una sedia nella stanza contigua.
Successe fra noi un lungo silenzio, ch’ella interruppe la prima.
« Dunque, signore, ella disse, che volete ch’io vi narri?
― Quanto credete necessario ch’io sappia, signora. Osservate ch’io non v’interrogo, attendo che voi parliate.
― Ahimè! Quello che devo dirvi è ben triste, signore, abbenchè privo d’ogni interesse per voi.
― Ogni dolore o fisico o morale mi riguarda egualmente, sicché non esitate a confidarmi il vostro, se pur credete ch’io possa pur confortarvi.
― Ah! Per confortarmi non v’ha altri che lui.
― E dacchè sono appunto incaricato da lui per parlarvi, ogni speranza non è affatto perduta.
― Allora, ascoltatemi; ma sappiate primieramente ch’io sono una semplice campagnuola.
― Voi mel dite, io credo; ma tuttavia al vostro parlare si potrebbe credervi di miglior condizione.
― Io sono figlia del maestro di scuola del villaggio, ove nacqui; ciò vi spiega ogni cosa.
« Ho ricevuto un’ombra di educazione, so leggere e scrivere un po’meglio delle altre contadine; ecco tutto.
― Siete dello stesso villaggio di Gabriele?
― Sì, solo io ho quattro o cinque anni meno di lui. Me lo ricordo fino dai primi giorni seduto fra una ventina d’altri fanciulli del villaggio raccolti da mio padre in capo ad una lunga tavola tutta incisa di nomi e di disegni fatti col temperino dagli scolari, ai quali mio padre insegnava a leggere, a scrivere e far i conti.
« Egli era figlio d’un bravo fittaiuolo che godeva riputazione proverbiale d’uomo onesto.
― Suo padre vive ancora?
― Sì.
― Ma dunque egli non ha relazione di sorte con suo figlio?
Egli ignora dov’egli sia, e lo crede partito per la Guadalupa. Ma, aspettate, ogni cosa verrà a suo luogo. Ho bisogno di narrarvi tutto per ordine, affinchè possiate giudicarci amendue.
« Gabriele, abbenchè grande della persona, era debole e malaticcio, sicchè veniva continuamente minacciato eziandio dai fanciulli più giovani di lui. Mi ricordo ch’egli non osava uscire cogli altri scolari, quando tornavano alle loro case, e spesso mio padre lo trovava sulla scala, ove egli si rifugiava, e dove gli altri non osavano venirlo ad assalire.
Mio padre gli domandava che cosa facesse colà, ed egli rispondeva, che aveva paura di essere bastonato.
Allora mio padre mi chiamava e mi dava per iscorta al povero fuggitivo, il quale, sotto la mia protezione, tornava sano e salvo a casa sua, poichè vicino a me, la figlia del maestro, nessuno osava toccarlo.
Ne derivò che Gabriele mi pose una grande affezione, e che contraemmo abitudine di star assieme. Solo dal canto suo questa affezione era egoismo, dal canto mio era pietà.
Gabriele apprendeva difficilmente a leggere e a far i conti; ma per la scrittura aveva una somma disposizione; non solo scriveva magnificamente in calligrafia, ma aveva inoltre la singolare abilità d’imitare le scritture dei suoi compagni, e ciò con tal precisione, che la sua copia veniva riconosciuta come propria scrittura dall’autore dell’originale.
Gli altri fanciulli ridevano e prendevano diletto per questo ingegno particolare, ma mio padre scuoteva spesso la testa e diceva:
« Credimi, Gabriele, non far quelle cose… te ne pentirai.
― Che cosa c’è da pentirsi a far questo, signor maestro? rispondeva Gabriele. Farò il maestro di calligrafia invece di fare il bifolco.
― Non è gran fortuna far il maestro di calligrafia in un villaggio.
― Bene! andrò a Parigi, rispondeva Gabriele.
Quanto a me, la quale non vedeva quali cattive conseguenze potevano esservi nell’imitare le altrui scritture, mi compiaceva di vedere l’abilità di Gabriele, il quale di giorno in giorno faceva nuovi progressi.
E Gabriele non si limitava a copiare le scritture soltanto: egli copiava ogni cosa.
Essendogli venuta nelle mani una incisione, egli l’aveva copiata linea per linea, con pazienza miracolosa, e con tale esattezza, che se non fosse stata la grandezza della carta e il colore dell’inchiostro, difficilmente sarebbesi conosciuto vedendo la copia e l’originale, qual fosse opera della penna, qual del bulino. Il povero padre, che in quel lavoro vedeva ciò ch’egli era realmente, vale a dire, un capo lavoro, lo fece porre in cornice dal vetraio del villaggio, e lo mostrò a tutti.
Il podestà e l’aggiunto andarono a vederlo, e il podestà nel vederlo, disse all’aggiunto:
« Quel fanciullo ha la fortuna nelle sue mani. »
Gabriele udi queste parole.
Mio padre avendogli insegnato quanto poteva insegnargli, Gabriele dovette attendere alla casa paterna.
Siccome egli era il maggiore di altri due fratelli, e siccome Tomaso non era ricco, egli dovette attendere al lavoro.
Ma il lavoro dei campi eragli insopportabile.
All’opposto dei contadini, Gabriele avrebbe voluto andare a letto ed alzarsi a tarda ora: era suo gran diletto andar a dormire dopo la mezzanotte, occupando il tempo a far lettere ornate in ogni maniera, ed imitare disegni d’ogni specie; sicchè l’inverno era il suo tempo felice, e le serate le sue ore di ricreazione.
D’altra parte la sua avversione pei lavori della campagna era il rammarico di suo padre. Tomaso Lambert non era in istato di tenersi in casa una bocca inutile. Egli aveva creduto che Gabriele gli avrebbe risparmiato la spesa d’un bifolchetto. Ma conobbe con suo dolore che si era ingannato.
XII.
Partenza per Parigi.
Un giorno, per buona, o meglio per mala sorte, il podestà che aveva predetto aver Gabriele una fortuna nelle sue mani, andò a trovare il vecchio Tomaso, e gli fece la proposizione di prendere Gabriele come suo segretario, per cento e cinquanta franchi all’anno.
Gabriele accolse la proposizione come una buona fortuna ; ma il vecchio Tomaso scosse la testa, dicendo:
« Ragazzo, non so che cosa sarà di te!
Tutti e due però accettarono l’offerta, e Gabriele lasciò l’aratro per la penna.
Noi eravamo rimasti buoni amici. Gabriele sembrava aver dell’amore per me: io l’amava con tutto il mio cuore.
Ogni sera, come è costume nei villaggi, andavamo a passeggiare assieme ora in riva al mare, ora sulle rive della Touque. Niuno se ne dava pensiero: noi eravamo poveri l’uno e l’altra, e perciò non sapevamo trovare ostacolo alcuno.
Solo sembrava che Gabriele avesse nell’anima un verme roditore: questo verme roditore era il desiderio di andar a Parigi: egli era certo che venendo a Parigi avrebbe fatta la sua fortuna.
Parigi era adunque l’anima dei nostri discorsi. Parigi doveva esser la città magnifica che doveva aprirci le porte della ricchezza e della felicità.
Io mi lasciai accendere dalla febbre che lo agitava, e ripeteva io pure:
« Ah! si, Parigi, Parigi.
Nei nostri sogni sull’avvenire, noi avevamo così vicendevolmente congiunta la nostra esistenza, che fin d’allora mi riguardava come la moglie di Gabriele, abbenchè non avessimo proferito giammai una parola di matrimonio, abbenchè, debbe pur dirlo, non venisse fatta tra noi alcuna promessa.
Il tempo scorreva.
Gabriele davasi tutto il giorno alla sua favorita passione, scriveva, teneva i registri della podesteria, con eleganza ammirabile. Il podestà era meravigliato del suo secretario.
Venne il tempo delle elezioni: uno dei deputati che doveva venir posto sulle liste, andava già in giro; e venuto a Trouville, gli vennero fatti vedere i registri della podesteria, e la sera stessa gli fu presentato Gabriele, la meraviglia di tutto il villaggio.
Il candidato aveva scritto una circolare, ma non trovavasi altra stamperia che all’Havre. Bisognava mandare il manifesto in città, con ritardo di tre o quattro giorni.
Ora, la distribuzione del manifesto era urgente, avendo trovato il candidato una opposizione più forte, che non aveva creduto.
Gabriele propose di fare nella notte e nel giorno seguente cinquanta circolari. Il deputato gli promise cento scudi s’egli terminasse le cinquanta di circolari entro ventiquattr’ore.
Gabriele attenne la sua promessa, e in luogo di cinquanta ne fece settanta.
Il candidato, al colmo della gioia, gli diede cinquecento franchi in luogo di trecento, e promise di raccomandarlo a un ricco banchiere di Parigi, il quale, dietro sua raccomandazione, probabilmente lo prenderebbe per suo secretario.
Gabriele quella sera accorse a me ebbro di gioia.
Maria, ei mi disse, Maria, siamo salvi: fra un mese partirò per Parigi. Avrò un buon posto: allora ti scriverò, e tu verrai a raggiungermi.
Io non pensai pure a domandargli, se andrei a raggiungerlo come sua moglie, tanto l’idea era lontana da me che Gabriele potesse ingannarmi.
Io gli chiesi la spiegazione di questa promessa, la quale era ancora un enigma per me. Egli mi raccontò ogni cosa, mi disse della protezione del banchiere, e mi mostrò un foglio a stampa.
― Che cosa è quel foglio? gli chiesi.
― Un biglietto di 500 franchi, ei mi disse.
― Come!… sclamai, quel pezzo di carta vale 500 franchi?
― Si, risposemi Gabriele, e quando ne avremo soltanto venti come questo, allora saremo ricchi.
― Sarebbe una somma di dieci mille franchi, io soggiunsi.
Frattanto Gabriele leggeva avidamente quel biglietto.
« A che pensi Gabriele? gli chiesi.
― Penso, rispose; che questo biglietto non è in nulla più difficile adimitare che una iscrizione.
― Si, gli risposi, ma questo sarà delitto.
― Guarda, disse Gabriele.
E mi mostrò queste due righe, scritte sotto il biglietto:
LA LEGGE PUNISCE DI MORTE
IL FALSIFICATORE.
« Ah! egli sclamò, se non fosse questo noi ne avressimo ben presto e dieci e venti e cinquanta.
― Gabriele, diss’io con orrore, che dici mai!
― Nulla, Maria; scherzo.
E rimise nella sua tasca il biglietto.
Otto giorni appresso si fecero le elezioni.
Malgrado le circolari, il candidato non venne eletto. Dopo questa sconfitta, Gabriele si recò a lui per ricordargli la sua promessa; ma quegli era partito.
Gabriele era disperato. Secondo ogni probabilità, il deputato in fumo si scorderebbe la promessa fatta al povero secretario della podesteria.
Improvvisamente sembrò scaturire una idea nella sua mente, e si fermò, dicendo con un sorriso:― Per buona sorte ho conservato l’originale della circolare.
― E che farai di quell’originale, gli chiesi.
― Nulla, risposemi; solo all’occasione quel foglio potrà richiamarmi alla sua memoria.
E poi non mi parlò più della circolare, e sembrò averla affatto dimenticata.
Otto giorni dopo il podestà venne a trovare Tomaso Lambert, recandogli una lettera. La lettera era del già candidato.
Contro ogni nostra attesa egli aveva mantenuto la sua promessa, e scriveva al podestà d’aver trovato presso uno de’principali banchieri di Parigi un posto d’agente per Gabriele. Solo esigevasi una prova di tre mesi. Questo era un sacrificio di tempo e di denaro necessario: dopo di che Gabriele avrebbe ottenuto mille ottocento franchi di paga.
Gabriele accorse a participarmi questa nuova, ma, nel mentre ch’egli si riempiva di gioia, io mi attristava profondamente.
Talvolta aveva io pure, eccitata dai sogni di Gabriele, desiderato Parigi al pari di lui, ma per me altro non era Parigi che il mezzo di non abbandonare l’uomo che amava: tutta la mia ambizione era per me soltanto dirmi moglie di Gabriele, e mi sembrava cosa più facile divenirlo nell’umile e monotona vita del villaggio che nel rapido vortice della capitale.
Adunque a tal nuova mi posi a piangere.
Gabriele cadde alle mie ginocchia, e mi rassicurò colle sue promesse e colle sue proteste; ma un presentimento profondo e terribile dicevami che tutto era finito per me.
Frattanto la partenza di Gabriele era decisa.
Tomaso Lambert acconsentiva a fare un piccolo sacrificio. Il podestà, ben inteso, mediante ipoteca, gli prestò cinquecento franchi; e siccome niuno sapeva la liberalità del candidato, Gabriele divenne così possessore di mille franchi.
Si convenne ch’ei partisse la sera stessa per Pont-l’Évêque, donde una carrozza doveva condurlo a Rouen, ma fra noi due fu accordato ch’egli, facendo un giro, verrebbe a passar la notte presso di me.
Io doveva lasciare aperta l’imposta della mia stanza.
Ell’era la prima volta ch’io lo riceveva in tal modo, e sperava esser così forte in quest’ultimo ritrovo, quanto l’era stata continuamente con lui e col mio cuore.
Ahimè! m’ingannai. Senza quella notte io non sarei stata infelice. In quella notte s’è compiuta la mia perdizione.
Allo spuntare del giorno Gabriele mi lasciò. Io lo condussi fino alla porta del giardino, che metteva sulle dune.
Là egli mi rinnovò tutte le sue promesse; là mi giurò nuovamente, ch’egli non avrebbe mai altra donna che me; facendo tacere almeno i miei timori, se non i rimorsi.
Noi ci lasciammo. Lo perdetti di vista all’angolo del muro, ma accorsi per vederlo ancora, e di fatto il vidi camminare rapidamente sul sentiero che conduce alla strada maestra.
Sembrommi che la rapidità de’suoi passi fosse affatto opposta al mio dolore.
Lo richiamai con un grido.
Egli si volse, agitò il fazzoletto in segno d’addio, e continuò il suo cammino.
Traendo il fazzoletto, cadde, senza ch’egli se ne accorgesse, un foglio dalla sua tasca.
Io lo richiamai, ma, certo, per tema di lasciarsi intenerire, proseguì il suo cammino. Io corsi a lui.
Giunsi al luogo ove la carta era caduta, e la trovai.
Era un biglietto di 500 franchi: solo egli era d’una carta diversa da quella che aveva veduto prima. Allora raccolsi tutte le mie forze, e chiamai Gabriele un’ultima volta. Egli si volse, mi vide agitare il biglietto, s’arrestò, si frugò nelle tasche, e, accorgendosi d’aver perduto alcun che, ritornò correndo presso di me.
« Tieni, gli dissi, hai perduto questa carta, e sono felice, poichè posso abbracciarti ancora una volta.
― Ah, egli mi disse ridendo, ritorno solo per te, Maria, poiché questo biglietto non val nulla.
― Come non val nulla?
― No, la carta non è simile a questa.
E trasse l’altro dalla sua tasca.
« Adunque, che biglietto è quello?
― Un biglietto che mi sono dilettato a imitare, ma che non ha alcun valore. Vedi, cara Maria, sono tornato unicamente per te.
E per darmi una nuova prova della verità, stracciò il biglietto, gettando al vento i pezzi di carta.
Quindi mi rinnovò ancora le sue promesse, le sue proteste, e siccome il tempo stringeva, ed io sentiva di non aver forza di reggermi, egli mi siedette sul margine del fossato, mi diede un ultimo bacio e partì.
Io lo seguii cogli occhi, colle braccia tese verso di lui fino a che potei vederlo; allorchè il girar della strada me lo tolse agli sguardi, nascoși la testa fra le mani, e piansi.
Non so quanto rimasi così assorta nel mio dolore.
Ritornai in me stessa al rumore che mi udii presso. Questo rumore era cagionato da una fanciulla che pascolava alquante pecore, e mi guardava sorpresa, non sapendo che attribuire la mia immobilità.
Alzai il capo.
« Oh! siete voi, Maria; perchè piangete?
Io mi asciugai le lagrime e cercai di sorridere.
Quindi per rimaner quasi più unita a lui, mediante le cose ch’egli aveva toccate, raccolsi i pezzi di carta ch’egli aveva sparso al vento. Finalmente, pensando che mio padre poteva alzarsi e turbarsi per non vedermi, ripresi frettolosa la strada di casa mia.
Aveva fatto appena venti passi, quando udii una voce che mi chiamava dietro di me. Mi volsi, e vidi la pastorella che correva per raggiungermi.
Io attesi.
« Che vuoi, fanciulla, le dissi.
― Maria, ella mi disse; ho veduto, che raccoglievate quei pezzetti di carta, eccone uno che non avevate veduto.
Guardai il pezzo ch’ella mi presentava, ed era in fatto un frammento del viglietto così abilmente imitato da Gabriele.
Lo presi dalle mani della fanciulla, e lo guardai.
Per strana combinazione quel frammento di biglietto portava quella fatale minaccia:
LA LEGGE PUNISCE DI MORTE
IL FALSIFICATORE.
Inorridii senza comprendere perchè venissi sorpresa da questo istintivo terrore. Quelle due righe soltanto potevano far conoscere che il biglietto era falso. Era visibile che la mano di Grabriele aveva tremato scrivendole, o meglio incidendole.
Lasciai cadere tutti gli altri pezzi, conservando quel solo.
Rientrai in casa senza che mio padre se ne accorgesse.
Ma rientrando in quella stanza, ove Gabriele aveva meco passata la notte, tutto mi destava un rimorso. Fino a ch’egli rimase presente, la fiducia mi aveva sostenuta: lui partito, tutti i parțicolari che dovevano attenuare questa fiducia, comparivano alla mia mente, e sentii d’esser rimasta sola col fallo mio.
XIII.
Confessione.
Otto giorni passarono senza ch’io avessi alcuna nuova di Gabriele; ma finalmente la mattina dell’ottavo giorno ricevetti una lettera da lui.
Egli diceva d’esser giunto a Parigi, s’era insediato presso il banchiere, e dimorava, in attesa, in una piccola casa della via dei vieux-Augustins.
Veniva appresso una descrizione di Parigi, dell’effetto che la capitale aveva prodotto sopra di lui.
Egli era ebbro di gioia.
Un poscritto mi annunciava, che fra tre mesi io dividerei seco la sua gioia.
Invece di calmarmi, questa lettera mi rattristò profondamente; e ciò senza ch’io sapessi comprendere il perchè.
Sentiva che una sciagura stavami imminente sul capo, ed era presta a colpirmi.
Tuttavia gli risposi ch’io era lieta della sua gioia; fingeva di credere a quell’avvenire ch’egli mi prometteva, e che una voce interiore mi gridava, non esser fatta per me.
Quindici giorni dopo mi giunse una seconda lettera: questa mi trovò nelle lagrime.
Ahime! se Gabriele non teneva la sua promessa verso di me, io era una giovane disonorata. Fra otto mesi doveva esser madre. Esitai qualche tempo se annunciare o no questa cosa a Gabriele.
Ma non aveva che lui al mondo, al quale affidarmi. Inoltre egli aveva diviso il mio fallo, e se alcuno doveva sostenermi, era giusto che fosse lui.
Gli scrissi adunque d’affrettare quanto fosse possibile la nostra unione, dicendogli, che d’ora in appresso ogni sua fatica non doveva aver per intento noi due soltanto, ma ancora il nostro figliuolo.
Mi attendeva un riscontro a posta corrente, o, meglio, appena spedita la lettera, temei di non vedermi più comparire risposta alcuna; poichè, come dissi, un sordo presentimento dicevami che tutto era finito per me.
In fatto non fu a me che Gabriele rispose, bensì a mio padre: ei gli scrisse, che il banchiere, presso il quale stava, aveva affari più importanti alla Guadalupa, e che avendo riconosciuto in lui maggior ingegno che negli altri giovani di mezzà, lo aveva incaricato di dirigere certi negozii in quell’isola, promettendogli, al suo ritorno, di associarlo in una parte de’suoi interessi. In conseguenza egli ci avvertiva, che il giorno stesso partiva per le Antille, e che non poteva fissare il tempo del suo ritorno.
Contemporaneamente rimandava a suo padre i 500 franchi che aveva preso a prestito per lui, togliendoli dalla somma che il banchiere gli avea dato per fare il viaggio.
Questa somma consisteva in un biglietto di banco.
Un poscritto diceva a suo padre, che non avendo tempo di serivermi, lo pregava di annunciarmi questa novella.
Come si può pensare, il colpo fu terribile.
Tuttavia, non avendo ricevuto da Gabriele alcuna risposta a posta corrente, ignorava in quanti giorni una lettera giungesse a Parigi, e per conseguenza, in quanti giorni si poteva avere riscontro.
Aveva adunque ancora la speranza che la lettera ricevuta da suo padre probabilmente fosse stata scritta prima ch’egli avesse ricevuto la mia.
Mi portai dal podestà, e sotto un pretesto gli feci alcune ricerche su questo proposito. Lo trovai che teneva in mano la lettera rimessagli allora da pappà Tomaso.
« Adunque, Maria, egli disse vedendomi, il tuo amante è sulla strada di far fortuna.
Io gli risposi con un torrente di lagrime.
« Che mai? egli soggiunse; ti duole che Gabriele divenga ricco? Io l’ho sempre detto che quel giovine ha la fortuna nelle sue mani.
― Oimè! signore, voi prendete abbaglio circa i miei sentimenti. Io ringrazierò sempre il cielo d’ogni fortuna che manderà a Gabriele, solo temo ch’egli mi dimentichi nella felicità.
― Ah! in ciò, povera Maria, mi rispose il podestà, non vorrei farmi mallevadore, e se pure ho a darti un consiglio, egli è che tu prenda il sopravvento, se ti si presenta la buona occasione. Tu sei una ragazza lavoriera, comoda, nella quale non c’è stato mai a dir nulla, malgrado la tua intrinsichezza con Gabriele, e, in conseguenza, il primo giovanotto che si presenterà per sostituirlo, lo accetterai. Guarda, ieri, di recente, Andrea Morin, il pescatore, lo conosci, me ne fece parola.
Io lo interruppi.
« Signor podestà, gli dissi, io sarò sposa di Gabriele, o resterò da maritare; v’hanno fra noi promesse tali ch’ei potrà bene scordare, ma io non dimenticherò mai.
― Sì, sì, egli disse, capisco. Ecco come tutte s’affogano queste povere disgraziate. Fa quello che vuoi, ragazza, ma se io fossi tuo padre, saprei bene quel che farei.
Gli chiesi ciò per cui m’era recata, e tornai a casa mia contando il tempo trascorso.
Gabriele aveva scritto a suo padre dopo aver ricevuto la mia lettera.
Attesi indarno l’indomani, il posdomani, tutta la settimana, non ricevetti nuova alcuna di Gabriele.
Dapprima mi aveva brillato una speranza, che non avendo avuto tempo di scrivermi da Parigi, egli mi avrebbe scritto dal porto ove si fosse imbarcato, e se non mi scrivesse da questo porto, almeno mi avrebbe scritta dalla Guadalupa.
Mi procacciai una carta geografica, e domandai a un nostro marinaio che aveva fatto più viaggi in America qual rotta tenessero i bastimenti per portarsi alla Guadalupa.
Egli mi tracciò una linea colla matita, ed ebbi una consolazione, quella almeno di vedere qual via teneva Gabriele, mentre si allontanava da me.
Occorrevano tre mesi perchè io ricevessi sue nuove. Attesi con calma il termine di questi tre mesi, ma nulla giunse, e rimasi in quella mezza oscurità, che dicesi tema; ed è assai peggior della notte.
Frattanto il tempo scorreva, e facevansi in me sentire tutte le sensazioni che annunziano in sè l’esistenza d’un essere che formasi in noi. Sensazioni deliziose, senza dubbio, nello stato ordinario della vita, e quando l’esistenza di quell’essere è il risultamento delle condizioni ordinarie della società; sensazioni dolorose, amare, terribili, quando ogni movimento richiama la memoria del fallo, ed è il presagio d’una sciagura.
Io era gravida da sei mesi. Fino allora aveva nascosto agevolmente a tutti gli occhi la mia gravidanza; ma venne a tormentarmi una terribile idea: stringendomi soverchiamente io poteva nuocere all’esistenza della mia creatura.
Si avvicinava la pasqua, tempo nei nostri villaggi delle divozioni generali. Una ragazza che non si accostasse alla pasqua colle sue compagne verrebbe mostrata a dito da tutto il villaggio. Io aveva il mio cuore compreso da sentimenti troppo religiosi per accostarmi al tribunale di penitenza senza confessare il mio fallo, e tuttavia, strana cosa! vedeva avvicinarsi il tempo di questa rivelazione, con una certa gioia mista alla tema.
Il nostro curato era un degno prete, di quelli che sono tanto più indulgenti verso i peccati degli altri, quanto meno i lor proprii aggravano l’espiazione comune.
Egli era un santo vecchio, co’capelli bianchi, d’aspetto tranquillo e sorridente, nel quale il debole, l’infelice e il colpevole sentono fin dal primo accostarsi d’aver trovato un sostegno!
Io già mi era disposta a tutto dirgli, e a lasciarmi guidare dai suoi consigli.
La vigilia del giorno in cui tutte le giovani dovevano accostarsi alla confessione, io mio recai alla sua abitazione.
Confesso che un terribile stringimento di cuore mi colse nel suonare alla porta del presbiterio. Aveva atteso la notte, acciocchè non fossi veduta da alcuno entrare nella canonica, ove, ad altro tempo andava pubblicamente due o tre volte la settimana.
Sulla soglia mi sentii mancare, fui costretta appoggiarmi al muro per non cadere.
Però ripigliai le mie forze, e, riscuotendomi, risolutamente suonai.
La vecchia serva venne tosto ad aprirmi. Come aveva immaginato, il curato era solo in una stanzetta riposta, ove, alla luce d’una candela, leggeva il breviario.
Seguii la vecchia Caterina che mi aperse l’uscio e mi annunciò.
Il curato alzò la testa. La sua bella e placida faccia illuminata dal lume della candela mi fece conoscere, che se v’ha al mondo una qualche consolazione a taluni irreparabilmente infelici, ella si trova nel confidare la propria sventura ad uomini di questa fatta.
Tuttavia rimasi presso l’uscio e non ardii andar oltre.
« Caterina, disse il curato, lasciateci soli; e se qualcuno mi domanda…
― Dirò che il signor curato non c’è; rispose la vecchia donna di governo.
― No, le disse il curato, perchè non bisogna dire il falso, cara Caterina; direte che sto dicendo le mie orazioni.
― Ho inteso, signor curato, risposegli Caterina.
Ed uscì, chiudendo la porta dietro di sè.
Rimasi immobile senza dire una parola.
Il curato mi cercò cogli occhi nell’oscurità, nella quale mi lasciava la modesta luce della candela; poi, quando mi vide, tese la mano verso di me, e mi disse:
« Vieni, figliuola; io ti aspettava.
Feci due passi, presi la sua mano, e caddi sulle ginocchia.
« Mi aspettavate, padre, io gli dissi; ma voi sapete adunque perché sono venuta?
― Ahimè! Me lo imagino, rispose il degno prete.
― Ah! Padre! Padre! Io sono grandemente colpevole, io sclamai prorompendo in singhiozzi.
― Di’, povera figliuola, rispose il prete, dì piuttosto che sei grandemente infelice.
― Ma, padre, forse voi non sapete tutto; poiché, finalmente, come avreste potuto indovinare…
― Ascolta, figliuola; te lo dirò, riprese il prete; poiché, intanto, ti risparmierò di farmi il racconto, e poi, anche con me, questo racconto ti sarebbe penoso.
― Ah! Adesso sento che posso narrarvi tutto; non siete voi il ministro di Dio, che conosce ogni cosa?
― Bene! Parla figliuola, disse il prete, parla, io ti ascolto.
― Padre mio, gli dissi allora, padre mio!… E la voce mi si fermò nella gola: io aveva troppo presunto delle mie forze : ́non poteva andar oltre.
« Ho avuto sospetto di tutto questo, disse il prete, il giorno stesso della partenza di Gabriele. Quello stesso giorno io ti vidi, figliuola senza che tu mi vedessi.
« Era stato chiamato la notte al letto d’un moribondo, e ritornava a casa mia verso le quattro della mattina, quando incontrai Gabriele che tutti eredevano partito la sera del giorno innanzi.
« Vedendomi, egli si nascose dietro una siepe, ed io finsi di non vederlo: fatti cento passi, sul margine d’un fossato, trovai una fanciulla seduta colla testa nascosta fra le sue mani; io ti conobbi, ma tu non hai alzato la testa.
― Io non vi ho sentito, padre, risposi; stava immersa nel dolore di doverlo lasciare!
― Io passai oltre. Sulle prime pensai di fermarmi e parlarti; ma mi trattenne l’idea che tu forse mi avevi veduto, ma che, come Gabriele, speravi in quella guisa sottrarti; e continuai la mia strada.
« Fatto il giro dell’angolo del giardino di tuo padre, vidi che la porta era aperta: allora tutto compresi. Gabriele, mentre tutti credevano che fosse partito, aveva passata la notte con te.
― Ahimè! Ahimè! Padre, sciaguratamente voi dite la verità.
― Da allora hai cessato di venire alla canonica, com’eri usata; e, dissi fra me: Poveretta, ella non viene perché teme di trovare in me un giudice; ma la rivedrò quel giorno nel quale avrà bisogno di perdono.
Raddoppiai il pianto.
« Su via! Mi disse il curato, che posso fare per te? Vediamo figliuola.
― Padre mio, risposi, vorrei sapere, se Gabriele è veramente partito, o se trovasi tuttavia a Parigi.
― Che! tu dubiti …
― Padre, una idea terribile mi è passata per la mente, ed è, che Gabriele per liberarsi da me abbia scritto che partiva per la Guadalupa.
― Ma che cosa t’induce a creder questo? mi chiese il curato.
― In prima il suo silenzio: per quanto sia stata frettolosa la sua partenza, aveva pur sempre il tempo da scrivermi una parola; e se non era da Parigi, almeno dal luogo ove s’è imbarcato, e poi da laggiù, s’egli vi fosse andato. Non mi avrebbe dato nuove di sè? Non sa egli che una sua lettera è la mia vita, e fors’anco la vita della mia creatura.
Il curato sospirò.
« Ah! Sì; egli disse, l’uomo in generale, è egoista, ed io non voglio calunniare alcuno, ma Gabriele, Gabriele! …
« Povera la mia figlia, ho sempre veduto a malincuore il tuo amor per quell’uomo.
― Deh! Che volete, padre! Noi fummo cresciuti insieme, non ci lasciammo un momento. Che volete? mi sembrava che la nostra vita sarebbe durata, com’ebbe cominciamento…
― Adunque, tu desideri sapere…
― Se Gabriele è veramente partito da Parigi.
― È facile; sembrami che mediante suo padre… Ascolta, acconsenti che dica tutto a suo padre?
― Pongo la mia vita, il mio onore nelle vostre mani; padre mio, fate quanto vi pare.
― Aspettami, figliuola, dissemi il prete; vado da Tomaso Lambert.
Ed uscì.
Rimasi inginocchiata, com’era, appoggiando la testa al poggiuolo della scranna, senza pregare, senza piangere, assorta nei miei pensieri.
Scorso un quarto d’ora l’uscio si aperse.
Udii i passi d’alcuno che si accostava a me, ed una voce mi disse:
« Alzati, figlia mia, e vieni nelle mie braccia.
Quest’era la voce di Tomaso Lambert.
Alzai la testa, e mi trovai in faccia al padre di Gabriele.
Egli era un uomo di quarantacinque a quarant’otto anni, noto per la sua probità, uno di quegli uomini che non conoscono che una cosa sola: mantenere la data parola.
« Mio figlio ti ha detto mai di sposarti, Maria? egli mi domandò; via, rispondimi come risponderesti a Dio.
― Prendete, gli dissi; e gli presentai la lettera di Gabriele, nella quale mi prometteva che fra tre mesi andrei a raggiungerlo, e nella quale ei mi chiamava sua moglie.
― E tu gli hai ceduto nel convincimento ch’ei fosse per divenir tuo marito?
― Oh Dio! ho ceduto, perchè egli stava per partire, e perchè lo amava.
― Bella risposta, disse il prete, scuotendo la testa in segno d’approvazione; bella risposta, figliuola mia.
― Sì, avete ragione, signor curato, disse Tomaso, bella risposta. Maria, egli riprese, tu sei mia figlia, e tuo figlio è figlio mio: fra otto giorni sapremo ove trovasi Gabriele.
― Come mai? Io chiesi.
― Da molto tempo aveva intenzione di portarmi a Parigi per liquidare certi conti col padrone del mio fondo. Ora partirò domani. Mi presenterò al banchiere, e in qualsivoglia luogo Gabriele si trovi, gli scriverò per costringerlo con autorità di padre a mantenere la sua parola.
― Ottimamente, disse il curato, ed io aggiungerò una mia alla vostra lettera, nella quale gli parlerò a nome della religione. Io resi grazie ad amendue, come Agar dovette ringraziare l’angelo che le indicava la sorgente, ove estinguer la sete del suo figliuolo.
Quindi, siccome io me ne andava, il curato mi ricondusse.
― A domani, egli mi disse.
― O padre mio, io risposi, posso adunque presentarmi alla chiesa colle mie compagne.
― E per chi adunque la chiesa terrebbe le sue consolazioni, se non fosse pegli infelici! Vieni, figlia mia, vieni con tutta la confidenza in Dio: tu non sei nè la Maddalena, nè l’adultera, e Dio ha perdonato ad entrambe.
Il giorno seguente mi confessai e ricevetti l’assoluzione.
Il posdimani, giorno di Pasqua, feci la comunione colle mie compagne.
XIV.
Seguito della confessione.
Il giorno innanzi, come lo aveva detto, Tomaso Lambert era partito per Parigi.
Erano scorsi otto giorni, nei quali ogni mattina mi recai presso il curato a sapere se avesse ricevuto lettere di papà Tomaso ; in quegli otto giorni non giunse novella alcuna.
La sera della domenica dopo quella di pasqua, vidi entrare in mia casa la vecchia Caterina: veniva a cercarmi, mandata dal suo padrone.
Mi alzai tremante e la seguii frettolosa. Però non ebbi cuore di far la strada, che separava la mia casa dal presbiterio, senza interrogarla.
Ella mi disse, che papà Tomaso era giunto allora da Parigi. Non ebbi coraggio di domandarle di più.
Giunsi.
Tutti e due stavano nello stanzino, ove successe la scena, che ho già raccontata.
Il curato era triste, e papà Tomaso era melanconico e corrugato.
Rimasi ferma sull’uscio: sentii che la mia causa era giudicata e perduta.
« Coraggio, figliuola, mi disse il prete; poichè Tomaso ci reca cattive nuove.
― Gabriele non mi ama più? Sclamai.
― S’ignora che sia successo di Gabriele, mi rispose il curato.
― Che mai? io proruppi; il bastimento che portava Gabriele s’è perduto? Gabriele è morto?
― Piacesse a Dio! disse suo padre, che fosse vera la favola ch’egli ci ha ordito!
― Che favola? domandai spaventata; poichè cominciava a scorgere la verità, come attraverso una nuvola.
― Sì, rispose il papà, mi sono presentato al banchiere; il banchiere non ha capito quanto io voleva dirgli: egli non ebbe mai alcuno agente che si chiamasse Gabriele Lambert; egli non ha affari alla Guadalupa.
― Ah! mio Dio! ma allora conveniva rivolgersi a quello che gli ha ottenuto quell’impiego, al candidato, capite…
― L’ho fatto, rispose il papà.
― E dunque?
― Egli non ha mai scritto, nè a mio figlio, nè a me.
― Ma la lettera?
― La lettera l’aveva con me, e glie l’ho presentata; egli riconobbe la sua scrittura, ma quella lettera non fu scritta da lui, Lasciai cadere la testa sul petto.
Tommaso Lambert continuò:
― Di là mi portai in via Vieux-Augustins all’albergo di Venezia.
― Nè avete trovato traccie di lui, io gli chiesi.
― Egli rimase sei settimane all’albergo, poi è partito, pagando la polizza, né più si sa che sia avvenuto di lui.
― Ah!, mio Dio! Sclamai, che vuol dire tutto questo?
― Vuol dire, mormorò Tomaso Lambert, che di noi due probabilmente, mia povera figlia, il più sciagurato son io.
― Cosicchè, voi ignorate compiutamente che ne sia accaduto?
― L’ignoro.
― Ma, disse il curato, forse alla polizia avreste potuto sapere…
― L’ho pensato anch’io, rispose Lambert; ma alla polizia ho temuto di saper troppo.
Inorridimmo tutti e due: io specialmente.
« Ed ora che fare? Aggiunse il curato.
― Aspettare, rispose Tomaso Lambert.
― Ma ella, disse il prete accennandomi col dito, ella non può aspettare.
― È vero, disse Lambert, ella venga a casa mia. Non è forse mia figlia?
― Sì, ma siccome ella non è moglie di vostro figlio, fra tre mesi sarà disonorata.
― E mio padre, soggiunsi con angoscia, mio padre che ne morrà di dolore.
― Non si muor di dolore, disse Tomaso Lambert, ma si patisce assai, ed è inutile far soffrire quel pover’uomo: sotto qualche pretesto, Maria andrà a stare un mese presso mia sorella che dimora a Caen, e suo padre non saprà nulla di quanto avverrà nel frattempo.
Tutto successe com’egli aveva detto.
Stetti un mese colla sorella di Tomaso Lambert, e, in questo mese, io diedi alla luce l’infelice creatura che dorme su quella sedia.
Mio padre non seppe mai quanto mi era accaduto, ed il segreto fu guardato così, che tutto il villaggio non seppe mai nulla.
Scorsero cinque o sei mesi senza che udissi parlarne; ma finalmente una mattina si sparse la voce, che il podestà, allora tornato da un viaggio a Parigi, avea incontrato Gabriele Lambert.
Narravansi, dietro questo incontro, sì strane cose, ch’era a mettere in dubbio la veracità del racconto.
Andai a prender notizia da Tomaso Lambert di quanto potesse esser vero dalle voci che m’erano pervenute, ma ebbi fatto appena cinquanta passi che incontrai nella strada il podestà stesso.
« Ora non mi maraviglio più, ei mi disse, che il tuo amante abbia cessato di scriverti: sembra che sia divenuto un signore.
― Ah, Dio mio! e come mai? io dissi:
― Come? nol so pur io; ma il fatto è, che tornando da Courbevoie, ove era stato a pranzo da mio genero, ho incontrato un bel signore a cavallo, un galante, un dandy, come dicono essi, seguito da un servitore egualmente a cavallo. Immagina chi era?
― Come volete che io imagini?
― Bene! era padron Gabriele. Io lo conobbi, ed uscii colla testa dal mio cabriolet per chiamarlo; ma egli, che senza dubbio mi riconobbe, prima che avessi tempo di chiamarlo, diede di sprone e fuggì di galoppo.
― Forse vi sarete ingannato, gli dissi.
― Lo credeva anch’io, egli soggiunse, ma il caso fece, che andai la sera all’Opera, ben inteso in platea, perchè io sono un paesano, e la platea va appuntino per me; egli poi, siccome è un gran signore, a quanto sembra, era in primo ordine, in un palchetto magnifico, e ciarlava, e faceva il galante colle signore, e portava all’occhiello del vestito una camelia grande come una mano.
― Impossibile, io dissi, impossibile!
― E pure è così; ma io pure ne dubitava, e volli dissipare ogni dubbio. Fra un atto e l’altro uscii di platea, e mi posi rimpetto alla porta del suo palchetto. In breve la porta s’aperse, ed il signore mi passò vicino.
« Gabriele, diss’io a mezza voce.
― Egli si volse rapidamente, e mi riconobbe: allora divenne rosso come uno scarlatto, e discese la scala con tanta rapidità che poco mancò non rovesciasse un signore e una dama che incontrò a mezza scala. Io lo seguii, ma, allorchè giunsi sul peristilo, lo vidi asceso sopra una carrozza magnifica: un servitore in livrea chiuse la portiera, e la carrozza partì di galoppo.
― Ma come volete, io dissi, ch’egli abbia carrozza e servitori in livrea? Vi sarete ingannato: certo, quello non fu Gabriele.
― Ti dico che l’ho veduto come veggo te, e sono certo che non mi sono ingannato: sai che devo pure conoscerlo, dacchè l’ho avuto per tre anni come mio secretario.
― Avete narrato questo ad altri oltre a me, signor podestà?
Diavolo! L’ho a tutti quelli che hanno voluto ascoltare. Egli non mi ha domandato il secreto, dacchè non mi ha fatto neppure l’onore di riconoscermi.
― Ma a suo padre? Diss’io piano.
― Suo padre! Egli non può ch’esser contento. Suo figlio ha fatto fortuna!
Sospirai, e mi diressi a casa di Tomaso Lambert.
Lo trovai seduto innanzi la tavola, colla testa nascosta nelle sue mani, egli non mi udì aprir la porta; non mi udì avvicinarmegli. Io gli posai la mano sulle spalle: egli sobbalzò e si volse a guardarmi.
« Bene! Egli mi disse, tu pure sai tutto.
― Il signor podestà mi ha testè narrato d’aver veduto Gabriele a cavallo e all’opera; ma forse si è ingannato.
― Come vuoi che s’inganni? Egli non lo conosce quanto noi? No; credi, è vero pur troppo.
― Se ha fatto fortuna, risposi timidamente, dobbiamo consolarci: egli almeno sarà felice.
― Fatto fortuna! sclamò pappà Tomaso; e con qual mezzo vuoi tu ch’egli abbia fatto fortuna? V’hanno forse mezzi onorevoli da far fortuna in un anno e mezzo? E un uomo che abbia fatto fortuna onoratamente, non riconosce forse la gente del suo paese? nasconde a suo padre la propria esistenza? scorda le promesse fatte alla sua fidanzata?
― Oh! quanto a me, dissi, voi conoscete abbastanza che se egli è ricco come si dice, io non son più degna di lui.
― Maria, Maria, disse Tomaso scuotendo la testa, ho piuttosto paura ch’egli non sia più degno di te.
E accostatosi al quadro che conteneva il piccolo disegno, già fatto da Gabriele, lo infranse, stracciò il disegno fra le sue mani, e lo gettò sul fuoco.
Lo lasciai fare senza trattenerlo, perchè pensai io pure a quel brano di biglietto della banca che la mattina della sua partenza venne raccolto dalla pastorella, brano ch’io avea conservato, e sul quale stavano scritte queste parole:
« LA LEGGE PUNISCE DI MORTE
IL FALSIFICATORE. »
« Che fare? Gli dissi.
― Lasciar che si perda, se non è ancore perduto.
― Udite, ripresi, cercate di d’ottenere da mio padre la permissione d’andare nuovamente per quindici giorni da vostra sorella.
― Bene?
― E invece andrò a Parigi a fare anch’io la mia prova.
Egli scosse la testa, e disse:
― Viaggio inutile, figlia mia, viaggio inutile.
― Forse…
― Se mi restasse qualche speranza, credi tu che non vi andassi anch’io?
« Inoltre non conosciamo il suo domicilio; e se facciamo inchieste alla polizia, che sa che possa succedere?
― Io conosco un mezzo, risposi.
― Per ritrovarlo?
― Sì.
― Allora va. Forse è Iddio che t’ispira.
« Hai bisogno di qualche cosa?
― Ho bisogno della permissione di mio padre, e null’altro.
Il giorno stesso la permissione fu chiesta e ottenuta, abbenchè con più difficoltà della prima volta. Da qualche tempo mio padre era malaticcio. Ed io stessa sentiva che non era tempo di abbandonarlo; ma ma qualche cosa più forte che la mia volontà mi spingeva.
XV.
La fioraia.
Tre giorni dopo io partii, credendo mio padre ch’io andassi a Caen, mentre Tomaso Lambert e il curato soli sapevano ch’io andava a Parigi.
Passai pel villaggio dov’era mio figlio e lo portai meco. Folle ch’io era, non pensando ch’egli era anche troppo per me. Dopo due giorni io era a Parigi.
Mi portai in via dei Vieux-Augustins all’albergo di Venezia: era il solo albergo, del quale conoscessi il nome. Ivi era venuto egli pure: ivi io gli aveva scritto.
Chiesi di lui, e lo si ricordava perfettamente. Egli viveva sempre chiuso nella sua stanza, e lavorava incessantemente con un incisore in rame, ma non si sapeva a qual opera.
Ricordavano pure che qualche tempo dopo la sua partenza dall’albergo, un uomo di cinquant’anni, campagnuolo a quanto pareva, era stato a fare le stesse indagini.
Chiesi ov’era l’Opera; mi venne indicata la strada, e corsi la prima volta le strade di Parigi.
Ecco il disegno che io aveva formato nella mia mente. Gabriele andava all’Opera: io vi avrei aspettato tutte le carrozze. Se Gabriele smontasse dalla sua, io lo avrei conosciuto; avrei domandato il suo nome al servitore, e il giorno seguente gli avrei scritto per dirgli ch’io era in Parigi, e domandargli un abboccamento.
La sera stessa del mio arrivo misi in pratica questo disegno; martedì sono stati otto giorni. Non sapeva che l’opera non dava rappresentazioni che il lunedì, giovedi e sabato.
Attesi adunque, ma indarno, che si aprissero le porte. Chiesi la cagione di quel silenzio e di quella oscurità. Mi si disse che non v’era rappresentazione fino a giovedì.
Tornai all’albergo, ove rimasi tutta la giornata seguente sola col mio povero figlio. L’aveva tanto poco veduto, ch’era beata di quella solitudine e di quell’isolamento. A Parigi, sconosciuta com’era, almeno osava d’essere madre.
Come venne la sera uscii nuovamente.
Credetti poter attendere nel peristilo, ma le guardie non mel permisero.
Vidi due o tre donne che giravano liberamente. Chiesi perchè venisse permesso ad esse ciò che a me veniva vietato: mi risposero, che quelle erano venditrici di fiori.
Frattanto giunse un gran numero di carrozze, ma non potei veder quelli che ne discesero; forse Gabriele era fra quelli.
Era una sera perduta: bisognava aspettare ancora due giorni. Io era rassegnata; ed entrai all’albergo con un nuovo disegno.
Nel posdimani avrei preso un mazzolino di fiori per mano, e sarei passata per una fioraia.
Comperai i fiori, ne feci i due mazzolini; e mi portai sul luogo: questa volta mi lasciarono girare liberamente.
Mi accostai a tutte le carrozze che comparivano, ed esaminai attentamente le persone che ne uscivano.
Erano quasi nove ore, e sembrava che tutti fossero giunti, quando una ultima carrozza sopraggiunse passandomi vicino.
Attraverso la portiera aperta credetti scorgere Gabriele.
Fui presa da tale tremore che mi appoggiai per non cadere. Il servitore accostossi alla portiera, donde balzò un giovane che somigliava a Gabriele: io feci un passo verso di lui, ma mi sentiva cadere.
« A che ora ? chiese il cocchiere.
― A undici ore e mezzo, egli rispose, salendo leggermente la gradinata.
E sparve nel peristilo, mentre la carrozza si allontanava di galoppo.
Fu il suo volto, fu la sua voce: ma come quel giovane elegante, garbato, poteva essere Gabriele? La metamorfosi mi sembrava affatto impossibile.
E tuttavia, alla provata emozione, io comprendeva ch’era impossibile esser altri che lui.
Aspettai.
Suonarono undici ore e mezzo; la gente cominciava ad uscire dall’opera; e le carrozze si avanzarono una dopo l’altra.
Un gruppo d’un uomo di cinquant’anni, d’un giovine e di due donne, si accostò ad una carrozza: il giovane era Gabriele, il quale dava il braccio alla più vecchia delle due donne la più giovane mi parve bella.
Però non salì in carrozza con esse. Le accompagnò soltanto alquanti passi; poi, dopo averle salutate, tornò addietro, e attese sui gradini la sua carrozza.
Ebbi così tutto il tempo di esaminarlo, e deposi ogni dubbio : egli dava segno di grande impazienza, e quando il cocchiere si avvicinò, lo sgridò per averlo fatto aspettare cinque minuti.
Era quello l’umile e timido Gabriele? Il fanciullo che io proteggeva contro gli altri fanciulli?
« Ove comanda andare? gli chiese il servitore nel chiudere la portiera.
― A casa, disse Gabriele.
La carrozza partì, e quando fu al baloardo girò a destra. Tornai all’albergo, non sapendo s’io dormiva, o se fossi desta, e credendo un sogno quanto aveva veduto.
Il posdimani avvenne lo stesso; soltanto questa volta, invece d’aspettare la carrozza all’opera, l’attesi all’angolo della via Lepelletier: la carrozza passò a mezzanotte, meno qualche minuto: essa passò il baloardo, ed entrò nella seconda strada alla mia destra: andai fino a quella strada per sapere, come si chiamasse era la via Taitbout.
Il posdimani attesi all’angolo della via Taitbout. Pensai con tal mezzo che giungerei a conoscere ove si fermerebbe la carrozza .
In fatto, la carrozza si fermò al numero undici, segno che egli abitava colà.
Giunsi al portone nel momento che il portinaio chiudeva le imposte.
― Che volete, ei mi disse.
― Non è qui, gli chiesi, studiando di render ferma la mia voce, non è qui che dimora il signor Gabriele Lambert?
― Gabriele Lambert! Risposemi il portinaio, io non conosco questo uomo. In questa casa non vi è alcuno che abbia questo nome.
― Ma questo signore entrato testè, come lo chiamate voi dunque?
― Quale?
― Quello ch’è emtrato con quella carrozza là.
― Io lo chiamo il barone Enrico di Faverne, e non Gabriele Lambert: se questo è quello che bramate sapere, eccovi, signora, informata.
E mi chiuse la porta in faccia.
Tornai all’albergo, incerta di quello che dovessi fare. Egli era Gabriele, non v’era più dubbio, ma era Gabriele ricco, che nascondeva il suo nome, al quale, per conseguenza, la mia visita doveva essere doppiamente noiosa.
Gli scrissi. Solo sull’indirizzo scrissi al signor barone Enrico di Faverne in tal modo soltanto la lettera poteva giunger a Gabriele Lambert.
Gli chiesi un abboccamento, e mi sottoscrissi
« MARIA GRANGER.
Quindi, il giorno seguente, gli mandai la lettera, incaricando il latore di attendere la risposta.
Il latore tornò prestamente dicendomi, che il barone non era in casa.
Il giorno seguente andai io stessa: senza dubbio egli aveva dato ordine ch’io non venissi introdotta: i servi mi dissero che il signor barone non era visibile.
Il giorno appresso tornai. I servi mi dissero che il signor barone non mi conosceva, e che anzi aveva ordinato che non mi venisse più aperto.
Allora presi il mio fanciullo, e andai a sedermi sulla pietra innanzi alla porta della sua casa.
Rimasi tutto il giorno; quindi venne la notte.
A due ore dopo mezzanotte una pattuglia passò e mi domandò che stessi facendo.
Risposi che aspettava.
Il capo della pattuglia mi ordinò allora di seguirlo.
Io lo seguii senza sapere ove mi conducesse.
Allora voi siete comparso, e mi avete richiesto.
Ecco che ora sapete tutto, signore. Venendo da parte sua, io non ho altro appoggio che voi in Parigi. Voi mi sembrate buono, che devo fare? Consigliatomi voi!
― Non ho nulla a dirvi per questa sera, ma lo vedrò domani mattina.
― E avete qualche speranza per me, signore?
― Sì, risposi, ho la speranza ch’egli non voglia vedervi.
― Oh, mio Dio! che volete dire?
― Voglio dire, figlia mia, ch’è meglio assai, credetemi, essere la povera Maria Granger, che la baronessa di Faverne.
― Ahimè! Voi credete adunque come me che…
― Credo ch’egli sia uno sciagurato, e sono quasi certo di non ingannarmi.
― Ah! mia figlia, mia figlia! gridò la povera madre, gettansi ginocchioni innanzi al seggiolone, ove dormiva la sua creatura, coprendola colle braccia, quasi volesse proteggerla contro l’avvenire che la minacciava.
Era troppo tardi, perchè tornasse al suo albergo in via dei Vieux-Augustins.
Chiamai la mia donna di governo, e affidai ad essa la madre e la figliuoletta.
Quindi mandai un servitore ad avvertire la padrona dell’albergo di Venezia che la signora Maria Granger, sorpesa da indisposizione presso il dottore Fabiano, ove stava a pranzo, non sarebbe di ritorno che nel posdimani.
XVI.
Catastrofe
Il giorno seguente, o, a dir meglio, lo stesso giorno, il mio cameriere entrò nella mia stanza a settore della mattina.
« Signore, egli mi disse, un servitore del barone Enrico di Faverne aspetta da mezz’ora; ma come vossignoria, si era coricata a tre ore, così non ho voluto svegliarla.
« Avrei tardato ancora se non ne fosse venuto un secondo più pressante del primo.
― E che vogliono questi due servitori?
― Dicono che il loro padrone attende vossignoria, e che il barone è assai malato, e che questa notte non è andato a letto. Rispondete che vengo subito.
In fatto, vestitomi in fretta, corsi presso il barone. Come avevano detto i servi, egli non era andato a letto, ma eravisi bensì gettato senza svestirsi.
Lo trovai adunque co’calzoni, cogli stivali, chiuso in una gran vesta da camera damascata. Il vestito e il panciotto stavano sopra una sedia, e tutto annunciava nella stanza una notte d’agitazione e d’insonnia.
« Oh! dottore, siete voi, egli mi disse; non si lasci entrare nessuno.
E con un cenno della mano fece uscire il servitore che mi aveva introdotto.
« Perdonate, gli dissi, se non sono venuto prima.
« Il mio cameriere non volle destarmi: mi era coricato a tre ore.
― Vi prego piuttosto di scusar me. Io vi annoio, dottore, vi stanco, e la cosa con voi è tanto peggiore che non si sa come compensarvi di questi fastidi; ma vedete ch’io soffro realmente, non è vero? E voi avete pietà di me.
Io lo guardai.
Era in fatto difficile vedere una faccia più scomposta della sua: egli i fece pietà.
« Sì, voi soffrite, gli dissi, comprendo che la vita per voi è un supplicio.
― Vedete, dottore, non v’ha arma tra queste che qui vedete, sia pugnale o pistola, ch’io non abbia accostato due o tre volte al mio cuore e alla mia fronte! Ma, che volete? E abbassò la voce con un sinistro sogghigno.
« Io son in vile, ho paura.
« Ma voi, dottore, credete voi ch’io sia un vile, voi che mi avete veduto battermi? Credete voi ch’io abbia paura di morire?
― Fin dalle prime ho creduto che voi non aveste coraggio morale signore.
― Come, dottore, voi osate dirmelo in faccia…
― Io vi dico che voi non aveste che il coraggio sanguigno, cioè quello che sale al cervello assieme col sangue. Io vi dico, che non eravate risoluto; e n’è prova, che avendo avuto dieci volte il pensiero di uccidervi, come dite, mi avete domandato il veleno, avendo alle mani armi di ogni maniera.
Sospirò, cadde sopra una sedia, e restò silenzioso.
« Ma, gli dissi, dopo un breve momento, non già per sostenere una tesi sul coraggio fisico o morale voi mi avete chiamato, bensì per parlarmi di lei?
― Sì, avete ragione, per parlare di lei. L’avete veduta, non è vero?
― Sì.
― Bene! Che ne dite?
― Dico, ch’è un nobile cuore, una santa ragazza.
― Sì, ma frattanto ella sarà la mia rovina: poiché ella già non vorrà adattarsi a nulla, non è vero? Ella ricusa ogni risarcimento, ella vuole ch’io la sposi, andrà schiamazzando chi io sia, e fors’anco quello che faccio.
― Non devo celarvi ch’ella era venuta a Parigi con questa intenzione.
― E s’è forse mutata? Dottore, sareste riuscito a farla mutare?
― Io le ho detto almeno quello che penso, cioè, chìè meglio restare Maria Granger, che divenir madama Faverne.
― Che intendete dire, dottore? vorreste dire? …
― Voglio dire, signor Lambert, ripresi freddamente, che fra le sventure passate di Maria Granger e le sventure avvenire di madamigella di Macartie, io preferisco le sventure della povera giovane che non ha nome da dare a suo figlio.
― Ahime! Sì, si dottore, avete ragione, il mio nome è un nome fatale. Ma ditemi, mio padre vive?
― Sì.
― Ah sia lodato Dio, non n’ebbi nuove da quindici mesi.
― Egli venne a cercarvi a Parigi quando seppe che non eravate partito per la Guadalupa.
― Gran Dio! e che seppe egli a Parigi?
― Seppe che non foste giammai presso il banchiere, e che la lettera ch’ei ricevette dal vostro preteso protettore non venne scritta da lui.
Lo sciagurato mandò un sospiro che parve un gemito, quindi portò le mani sugli occhi.
« Egli lo sa, egli lo sa, disse fra sè, dopo un istante di silenzio.
« Ma, finalmente, che c’è di male? La lettera era supposta è vero, ma non faceva male a nessuno. Io voleva venire a Parigi, e avrei impazzito senza venirci. Ho adoperato questo spediente, ed era il solo: non avreste voi fatto altrettanto nella mia condizione dottore?
― Mi chiedete da senno, signore? gli dissi guardandolo fissamente.
― Dottore, voi siete l’uomo più inflessibile ch’io conosca, disse il barone, alzandosi e passeggiando a gran passi.. Non mi avete detto che amare parole; e tuttavia, non so come sia, provo in voi la maggiore fiducia. Se altri sospettasse la metà delle cose che voi sapete…
Si accostò ad una pistola, e portò la mano sul calce con tale espressione di ferocità, che sembrava una bestia selvaggia.
« Io lo ucciderei.
In quel momento entrò un servitore.
« Che volete? domandò il padrone.
― Perdonate se entro malgrado il vostro ordine; ma vossignoria ha rinnovato il suo equipaggio di scuderia tre mesi sono, ed è un agente della banca che viene a riscuotere una cambiale che vossignoria gli ha fatto.
― E di quanto è la cambiale? domandò il barone.
― Di quattro mille franchi.
― Va bene, rispose il barone, andando allo stipo, e traendo dal taccuino, che altra volta mi aveva dato da custodire, quattro biglietti della banca da mille franchi l’uno: ― Tenete, ecco, riportatemi la cambiale.
Era una cosa semplicissima prendere dal portafoglio i biglietti, e darli al servitore.
Tuttavia il barone dimostrò una visibile esitanza, la sua faccia ordinariamente pallida, illividì allorchè seguì collo sguardo il servo che usciva co’biglietti.
Successe fra noi un momento di silenzio, durante il quale il barone mosse due o tre volte le labbra per parlare, ma ogni volta le parole mancarono sulle sue labbra.
Il servo aperse nuovamente la porta.
« E, dunque, che c’è di nuovo? chiese il barone con viva impazienza.
― L’agente desidera dire una parola a vossignoria.
― Costui non ha nulla a dirmi, disse il barone: egli ha ricevuto il suo denaro che se ne vada.
L’agente comparve allora dietro il servo, e s’intromise fra lui e l’uscio.
« Perdonate, disse, perdonate, ho qualche cosa da dirvi. Quindi d’un balzo prese il barone pel collarino.
« Ho a dirvi che siete un falsificatore, gridò, e che, in nome della legge, vi arresto.
Il barone mise un grido di terrore, e divenne color della cenere.
« A me, dottore, egli proferì confusamente, a me dottore. Giuseppe, chiama la mia gente, soccorso!
« Avanti, gridò il falso latore del biglietto di banca, avanti compagni.
E la porta d’una scala segreta s’aperse, e due uomini si slanciarono nella stanza.
Erano due birri.
« Ma chi siete voi, disse il barone dimenandosi; chi siete voi, che volete?
― Signor barone, io sono V. *** disse il falso latore del biglietto di banca, e voi siete arrestato: non fate adunque rumore, non fate scene, seguiteci gentilmente.
Il nome da lui proferito era sì noto che rabbrividii.
― Seguirvi, soggiunse il barone, continuando a dimenarsi, seguirvi, ma dove?
― Diavolo! ove si conducono i vostri pari; non conviene insegnarvelo, dovete saperlo, non ne dubito; in prigione, per Dio!
― Giammai, sclamò il prigioniero, giammai, e mediante uno sforzo violento, si sciolse da quelli che lo tenevano, si slanciò verso il suo letto e prese un pugnale turco.
Nel medesimo istante il falso latore del biglietto della banca trasse rapidamente, come il pensiero, due pistole da tasca dirigendole contro il barone.
Ma egli s’era ingannato sulla intenzione dell’arrestato. Questi rivolse l’armi contro sè stesso.
I due birri vollero slanciarsi sopra di lui, e trattenerlo.
« Inutile, disse V. ***, inutile! state tranquilli, io conosco i signori falsificatori da lungo tempo, son di que’prodi che hanno il maggior riguardo per la loro persona. Via, galantuomo, egli soggiunse, incrociando le braccia, e lasciandolo fare, non vi date pensiero di noi, continuate!
Il barone pareva per ismentire a questa provocazione: appressò vigorosamente la mano al petto, si ferì con più colpi, e cadde mandando un grido. La sua camicia si coperse di sangue.
« Voi vedete, diss’io, slanciandomi verso il barone, egli s’è ucciso.
Egli si mise a ridere.
« Ucciso? costui? non è tanto bestia. Alzategli la camicia, dottore.
― Dottore! io dissi, sorpreso.
― Per Dio, riprese V. *** io vi conosco: voi siete il dottore Fabiano.
« Alzategli la camicia, e se trovate una ferita profonda più di quattro o cinque linee, domando d’essere ghigliottinato in sua vece.
Però io dubitava, poichè lo sciagurato era veramente svenuto.
Alzai la sua camicia ed esaminai le ferite.
Egli ne aveva sei; ma, come aveva detto V. ***, erano vere punture d’ago.
Io mi allontanai con disgusto.
― Non sono dunque un bravo fisiologo, signor dottore? E voi, mettete le manette a quel prode, altrimenti egli guizzerà per tutta la strada.
― No, no, signori, gridò il barone ritornando del suo svenimento, purchè mi si lasci andar in carrozza: non farò un movimento, non tenterò di fuggire, ve ne do la mia parola d’onore.
― Udite, ragazzi: egli dà la sua parola d’onore: questo ne rassicura, non è vero? Che dite voi della parola d’onore di questo signore?
I due sgherri si misero a ridere, e si avanzarono verso il barone colle manette.
Non posso dire quanto io soffrissi: voleva andarmene.
« No! no! gridò il barone, reggendosi sul mio braccio, non, non andate via; se ve ne andate, essi non avranno pietà di me ; mi trascineranno per la strada come un malfattore.
― Ma a che posso giovarvi, signore, io gli dissi. Io non ho alcuna influenza su questi signori.
― Sì, sì, ne avete, dottore; disingannatevi, aggiunse a mezza voce: un galantuomo ha sempre influenza sopra costoro. Domandate di accompagnarmi fino alla polizia, e vedrete che mi lascieranno andare in carrozza, e non mi legheranno.
Un sentimento di profonda pietà stringevami il cuore, ed era più forte del mio ribrezzo.
― Signor V.***, diss’io al capo degli sgherri, questo infelice mi prega d’intercedere a suo favore, egli è conosciuto in tutta la contrada, egli appartenne alla società.…
« Bene! vi supplico di risparmiargli inutili umiliazioni.
― Signor Fabiano, mi rispose V.*** con isquisita politezza, nulla devo negare ad un uomo come voi.
« Ho udito che quell’uomo v’ha pregato d’accompagnarlo fino alla polizia. Bene, se acconsentite, salirò con voi nella carrozza, nulla più, e le cose andranno tranquillamente.
― Dottore, vi supplico, disse il barone.
― Bene! sia! risposi; compirò l’opera fino all’estremo. Signor V.***, abbiate la bontà di mandare a prendere una carrozza. E fatela venire alla porta che mette sulla strada dell’Helder, disse il barone.
― Fil-di-seta, disse V.*** con sì finta ironia ch’è impossibile d’indicare, eseguite gli ordini del signor barone.
La persona indicata sotto il nome di Fil-di-seta uscì per eseguire l’ordine ricevuto.
« Frattanto, disse V.***, con licenza del signor barone vi farò una perquisizione nello stipo.
Gabriele fece un passo verso lo stipo.
« Oh, non datevi briga, signor barone, disse V.*** stendendo il braccio, quand’anche ne trovassimo alcuno lì entro, sarebbe lo stesso: ne abbiamo già un centinaio nelle nostre mani della vostra fabbrica.
Il prigioniero cadde sopra una sedia, e quello che lo aveva arrestato, attese alla perquisizione.
« Ah, ah, egli disse, conosco gli stipi di questa fatta; è della fabbrica del signor Barthélemy.
Vediamo prima la cassetta; esamineremo quindi le segrete.
Frugò in tutte le cassette, ove tolto il portafoglio, del quale abbiamo parlato, non trovò che lettere.
Ora, disse, guardiamo le segrete.
Gabriele lo seguiva cogli occhi, impallidendo ed arrossendo a vicenda.
Allora potei osservare la destrezza di quell’uomo. Nello stipo v’erano quattro segrete diverse; non solo non gliene sfuggì alcuna, ma alla semplice vista, senza porre la mano, ne scoperse il meccanismo.
« Ecco l’arcano, egli disse unendo un centinaio di biglietti della banca, da cinquecento e da mille franchi l’uno.
« Canchero! Signor barone, voi non foste di mano morta: quattro valenti, come voi, e la banca andava fallita in un anno.
Il prigioniero non rispose che con un gemito, e nascose la testa fra le mani.
In quel momento Fil-di-seta rientrò.
« Signori, la carrozza è alla porta, egli disse.
― Bene, disse V.***, andiamo.
― Ma vedete, diss’io, che questo signore è in vesta da camera, voi non potete condurlo così.
― Sì, sì, disse Gabriele, bisogna ch’io mi vesta.
― Vestitevi adunque e fate presto. Mi sembra che siamo compiti, mi pare.
« Abbenché, a dir vero, non è per voi che il facciamo, bensì pel signor dottore.
E si rivolse a me facendomi un inchino.
Ma invece di approfittare della permissione accordatagli, Gabriele restava immobile sulla sedia.
« Via, via, un poco più lesti; a nove ore abbiamo da far una visita ad un altro signore, e bisogna che l’uno non ci faccia mancar l’altro.
Gabriele aperse l’armadio ove stavano i suoi abiti: ne staccò cinque o sei senza sceglierne alcuno.
« Colla permissione del signor barone, disse V.***, noi gli faremo da camerieri.
E fece un cenno agli sgherri, i quali trassero da un cassettone un panciotto ed una cravatta, mentr’egli prendeva nell’armadio un pastrano.
Allora cominciò la più strana toletta che io vedessi mai. Vacillante sulle sue gambe il prigioniero lasciavasi fare, fissando sopra di noi uno stupido sguardo.
Gli annodarono la cravatta al collo, gli posero addosso il panciotto, lo si vesti come fosse un automa; dopo gli posero il cappello in testa, e gli fecero stringere colla mano un bastoncello col pome d’oro.
Avrebbesi detto che sarebbe caduto se non lo si avesse sostenuto.
I due birri lo presero sotto le spalle, e fu allora soltanto che sembrò destarsi.
« No, no, gli disse, sostenendosi sul mio braccio; cosi, così, voi me l’avete promesso, dottore.
― Si, risposi, ma venite.
Signor barone, disse V.***, vi prevengo che se fate un movimento qualunque per fuggire, vi brucio il cervello.
Io sentii un fremito in tutto il corpo a questa minaccia.
« Non vi ho già dato la mia parola d’onore di non tentare la fuga? egli disse, cercando di coprire la sua viltà sotto un’apparenza onorevole.
― Oh! è vero, disse V.*** montando le sue pistole ; me n’era scordato. Andiamo.
Scendemmo le scale; lo sciagurato si appoggiava al mio braccio, ed era seguito dal capo e dai due satelliti.
Giunti nel cortile, uno dei due satelliti corse alla portiera della carrozza e l’aperse.
Prima di salire, Gabriele guardò stravolto a destra e sinistra, come per vedere se v’era alcun mezzo di fuggire.
Ma in quell’istante senti qualche cosa fra le spalle si volse e vide la canna della pistola.
D’un balzo si slanciò nella carrozza,
V.*** mi fe’cenno di entrare e di sedere nel fondo. Quella non era circostanza da far cerimonie. Mi siedetti al posto che mi venne indicato.
Allora disse in gergo alcune parole ai satelliti, ch’io non potei comprendere; e montando egli pure siedette dinanzi.
Il cocchiere chiuse la portiera.
« Alla prefettura di polizia, non è vero, padrone? egli disse.
― Sì, rispose V.***, ma come sapete ove abbiamo ad andare.
― Eh! vi conosco, disse il cocchiere, è già la terza volta che vi conduco, e sempre in compagnia.
― Bene, rispose V.*** fidatevi adunque all’incognito.
La carrozza seguì il baloardo, prese quindi la via Richelieu, passò il Ponte Nuovo, seguì la riviera degli Orfévres, girò a destra, passò sotto una volta, entrò in una stradella, e si fermò innanzi una porta.
Allora soltanto il prigioniero parve uscire dal suo torpore: durante la strada non aveva detto una sola parola. Come! sclamò! siamo giunti così presto?
Sì, signor barone, disse V.***, ecco il vostro alloggio provvisorio: egli è meno elegante di quello della via Taitbout, ma nella vostra professione c’è dell’alto e del basso: bisogna esser filosofo.
Così dicendo aperse la portiera e balzò dalla carrozza.
« Avete qualche raccomandazione da farmi prima che vi lasci, chiesi al prigioniero.
― Sì, sì, ch’ella non sappia nulla di quanto è successo.
― Chi ella?
― Maria.
― Oh, rispos’io, povera donna, io l’aveva dimenticata. State tranquillo, farò quanto potrò per tenerle nascosta la verità.
― Grazie, grazie, dottore. Ah! Lo sapeva che voi sareste stato il mio solo amico.
― Via, io aspetto, dice il capo degli sgherri.
Gabriele sospirò, scosse tristamente la teta, e si fece a discendere.
V.***, come per aiutarlo lo prese per le braccia, tutti e due si accostarono alla porta fatale, che si aperse da sè medesima, come s’ella stessa riconoscesse il gran funzionario.
Il prigioniero mi rivolse un ultimo sguardo di desolazione, e la porta si rinchiuse con cupo rumore.
Lo stesso giorno Maria lasciò Parigi, e tornò a Trouville. Come aveva promesso a Gabriele, io non le dissi nulla; ma ella aveva indovinato ogni cosa.
XVII.
Bicêtre
Erano scorsi sei mesi dagli avvenimenti che ho raccontato, e già frequentemente, abbenchè io cercassi dimenticarli, mi tornavano alla memoria, quando verso le sei pomeridiane, mentre stava per sedere a tavola, ricevetti la lettera seguente:
Signore.
« Nel momento di comparire innanzi al trono di Dio, ove lo conduce una condanna capitale, l’infelice Gabriele Lambert, il quale ha conservato una profonda memoria dei vostri servigi, vorrebbe impetrarne un ultimo da voi: egli spera che potrete ottenere dal prefetto la permissione di visitarlo, e scendere per l’ultima volta nella sua carcere. Il tempo stringe: l’esecuzione è per domani mattina a sett’ore.
» Ho l’onore, ec,. ec.
« L’abbate ***,
» Elemosiniere delle prigioni. »
Io aveva due o tre persone a pranzo.
Mostrai loro la lettera; dissi loro brevemente di che si trattava; elessi uno di loro mio rappresentante, e lo incaricai di fare agli altri in mia vece gli onori di casa.
Montai in carrozza e partii sul momento.
Come aveva preveduto, non ebbi alcuna difficoltà ad ottenere una carta di passo, e giunsi a Bicêtre verso le sette della sera. Era la prima volta che metteva il piede in quella prigione, la quale, dacchè non si eseguivano le sentenze sulla piazza di Grève, era divenuta l’ultima abitazione dei condannati a morte.
Nè potei sentire senza stringimento di cuore, e senza una specie di tema, da cui non può esimersi l’uomo più onesto, chiudermisi le gravi porte dietro le spalle.
Sembra che là, ove ogni parola è pianto, ogni voce un gemito, si respiri altra aria che quella destinata agli uomini; e, certo, quando mostrai al direttore della prigione la permissione di visitare il suo commensale, dovetti essere così pallido e così tremante, quanto gli ospiti ch’egli è avvezzo a ricevere.
Appena egli lesse il nome, s’interruppe per salutarmi una seconda volta.
Quindi chiamando un sottocarceriere, « Francesco, egli disse, conducete questo signore alla carcere di Gabriele Lambert ; le regole ordinarie della prigione non sono per lui, e se desidera restar solo col condannato, starete ai suoi ordini.
― In quale stato troverò quell’infelice, io chiesi?
― Come un vitello che si conduce al macello, almeno a quanto m’han detto. Vedrete; egli è sì abbattuto, che si credette inutile mettergli la camiciuola di forza.
Sospirai. V.*** non s’era ingannato, e innanzi alla morte non gli era tornato il coraggio.
Feci un cenno col capo in segno di ringraziamento al direttore, il quale tornò alla partita a picchetto che il mio arrivo aveva interrotto: io seguii il sottocarceriere.
Traversammo una corticella, entrammo in un buio corridoio; scendemmo alquanti scalini.
Trovammo un secondo corridoio, nel quale vigilavano i carcerieri, portando spesso lo sguardo a certi fori chiusi da ferrate.
Quelle erano le celle dei condannati a morte, i quali vengono così vigilati nell’ultimo momento per tema che il suicidio li tolga al patibolo.
Il sottocarceriere aperse una di queste porte, e siccome per un ultimo senso di spavento io rimaneva immobile,
« Entrate, egli disse, è qui. Ehi, quel giovane, aggiunse, rallegratevi, via, ecco la persona che avete domandato.
Chi? il dottore, domandò una voce?
― Sì, risposi entrando, mi resi al vostro invito, eccomi. Allora potei abbracciare collo sguardo la miserabile e tetra nudità di quel luogo.
Nel fondo stava un lettuccio, sopra il quale grossi cancelli indicavano che doveva esservi uno spiraglio.
Le muraglie, annerite dal tempo e dal fumo, erano graffiate per tutto dai nomi che gli ospiti successivi di quell’orrenda dimora, avevano scritto forse mediante i loro ceppi medesimi. Uno d’essi, d’immaginazione più capricciosa che gli altri, vi aveva disegnato una guigliottina.
Presso una tavola, rischiarata da una cattiva e fumosa lucerna, stavano seduti due uomini.
Uno era un uomo di quarant’otto a cinquant’anni, al quale i capelli affatto bianchi davano l’aspetto d’un uomo di settant’anni.
L’altro era il condannato.
Al vedermi quest’ultimo si alzò, ma l’altro restò immobile, come se non vedesse o non udisse più nulla.
― Ah! dottore, disse il condannato, appoggiandosi sulla tavola con una mano, voi dunque avete consentito di venirmi a trovare?
« Conosceva bensì il vostro cuore eccellente, ma tuttavia dubitava, il confesso.
« Padre mio, disse il condannato picchiando il vecchio sulla spalla, ecco il dottor Fabiano, di cui vi ho tanto parlato … Perdonate, soggiunse rivolgendosi a me, indicandomi Tomaso Lambert; la mia condanna lo ha percosso talmente ch’io temo non impazzisca.
– Avete desiderato parlarmi, signore, gli risposi, e fui sollecito di rendermi al vostro invito. Nella mia condizione la condiscendenza a queste preghiere non è solo bontà, ma dovere.
― Bene! dottore… sapete… disse il condannato, domani E ricadde sulla sua sedia, asciugò la sua fronte bagnata di sudore con un fazzoletto pure bagnato, accostò alle sue labbra un bicchiere d’acqua, e ne bevette un sorso, ma la sua mano tremava così, che udii il bicchiere battere contro i suoi denti.
Nel breve silenzio che successe io lo esaminai attentamente. Giammai, mi cred’io, la più angosciosa malattia non produsse in un uomo un più terribile cangiamento.
Lezioso, gretto, ridicolo in qualità damerino, sotto l’assisa del patibolo Gabriele era divenuto una creatura degna di pietà. Il suo corpo troppo lungo e smilzo per la sua alta statura, era maggiormente smagrito.
Gli occhi affossati sembravano nuotare in orbite di sangue.
La sua squallida faccia era divenuta livida; il sudore della sua fronte aveva rappreso a ciocche e irrigiditi i capelli.
Portava gli stessi panni, lo stesso panciotto, gli stessi calzoni che il giorno in cui venne arrestato; se non che tutto era sudicio e rotto.
« Padre, egli disse, scuotendo il vecchio, sempre immobile e muto, padre, ecco il dottore.
― Chi? Disse il vecchio.
― Il dottore, vi dico, ripetè alzando la voce, vorrei parlargli.
― Sì, bene, disse il vecchio, parla.
― Ma voglio parlargli da solo. Non capite che voglio parlargli da solo?
« Ah, mio Dio, soggiunse con impazienza, non abbiamo tempo da perdere… Alzatevi, padre, alzatevi, e lasciateci soli.
Allora pose le mani sotto le ascelle del padre, e tentò alzarlo.
Che mai, che mai! disse il vecchio, forse vengono a prenderti? è troppo presto: devono venire domani mattina a sei ore.
Il condannato ricadde sulla sua sedia, e mandò un gemito profondo.
« Dottore, provate voi di fargli intendere la ragione, ditegli che desidero restar solo con voi, io non ho lena, ha perduto tutte le forze.
E cadde singhiozzando colle braccia stese sopra la tavola.
Io fei cenno al sottocarceriere di assistermi: egli si accostò meco al vecchio.
« Signore, gli dissi, sono un antico conoscente di vostro figlio; egli deve confidarmi un secreto, vorreste usar la bontà di lasciarci soli?
E lo sollevammo sotto le braccia per condurlo nel corridoio.
« Ma perchè non si mantiene quello che mi venne promesso? Mi hanno promesso che starei con lui fino all’estremo momento. Ne ho ottenuto licenza: perchè or si vuole condurmi via?
« Oh figlio mio, la mia creatura, Gabriele mio!
E il vecchio, richiamato in sè stesso dall’eccesso del suo dolore, si gettò sopra il giovane steso sopra la tavola.
« Egli non se ne andrà, mormorò il condannato, e tuttavia egli deve comprendere che ogni minuto è più prezioso per me che un anno intero nella vita d’ogni altro uomo.
― È vero, Gabriele, domandò il vecchio?
― Sì, mio Dio, ve l’ho detto da più d’un’ora.
― Allora, me ne vado, ma voglio restare frattanto vicino alla porta della tua prigione.
― Resterete qui fuori nel corridoio, risposegli il sottocarceriere.
― E dopo potrò rientrare?
― Subito che vostro figlio domanderà di voi.
― Voi non vorrete già ingannarmi, dottore? sarebbe orrendo ingannare un padre.
― Io vi do la mia parola d’onore, che fra un istante potrete tornare.
― Allora vi lascio, disse il vecchio, e portando le mani agli occhi, uscì piangendo.
Il sottocarceriere uscì con lui e chiuse la porta.
Andai a sedermi nel posto lasciato libero dal più vecchio.
« Bene! signor Lambert, eccoci soli, che posso fare per voi? Egli alzò lentamente la testa, si appoggiò sulle due mani, guardò intorno con occhi stralunati, quindi rivolgendo sopra di me gli sguardi che a poco a poco si fissarono spaventosamente,
« Voi potete salvarmi, egli disse.
― Io, sclamai, trasecolato, come mai?
Egli mi prese la mano.
« Silenzio, egli mi disse, ascoltatemi.
― Vi ascolto.
― Vi ricordate un giorno che in via Taibout noi stavamo seduti, come adesso, e che vi mostrai scritto sopra un biglietto della banca queste parole:
LA LEGGE PUNISCE DI MORTE
IL FASIFICATORE ?
― Sì
― Vi ricordare che allora mi dolsi della durezza di questa legge, e che il re aveva intenzione di proporre alle camere una commutazione di pena?
― Sì, me ne ricordo.
― Bene! Io sono condannato a morte: l’altro ieri il mio ricorso per cassazione venne rigettato; non mi resta a sperare che nella domanda di grazia che ho presentato ieri a sua maestà.
― Capisco.
― Siete voi tuttora medico del re?
― Sì, ed anzi presentemente sono di servizio.
― Bene! Dottore, come medico del re, voi potete vederlo ogni momento: recatevi da lui, ve ne prego, ditegli che mi conoscete, ardite, domandategli la mia grazia: in nome del cielo ve ne supplico.
― Ma questa grazia, supponendo ancora ch’io possa ottenerla, non sarà mai che una commutazione di pena.
― Lo so.
― E questa commutazione di pena, non illudetevi, sarà la galera in vita.
― E che volete? disse il condannato, è sempre meglio che la morte.
Sentii un freddo sudore sulla mia fronte.
« Comprendo, mi disse Gabriele, guardandomi; comprendo che cosa pensate. Voi mi sprezzate, mi trovate vile, voi dite ch’è meglio morire che trascinare per sempre, e specialmente avendo ventisei anni, una infame catena.
« Ma, che volete! da che mi hanno letto quella sentenza, io non ho dormito un’ora; guardate i miei capelli …. la metà son divenuti bianchi.
« Si, ho paura della morte, salvatemi dalla morte, questo è tutto quello che vi domando: faranno appresso quello che vorranno di me.
― Proverò, risposi.
― Ah! Dottore, sclamò l’infelice, prendendo la mia mano, e appressandola alla bocca, prima che avesse il tempo di ritirarla; Ah, dottore, io sapeva che il mio solo, che il mio unico amico sareste voi.
― Signore, io dissi sdegnato a queste umili dimostrazioni.
― Ma frattanto, egli aggiunse, non perdete un istante; anche se andate, se per caso qualche ostacolo v’impedisse di vedere il re, insistete, in nome del cielo.
« Pensate che la mia vita dipende dalla vostra parola; pensate che son nove ore della sera, e che l’ora segnata è domani mattina a sett’ore. Nove ore di vita, Dio mio, nove! Se voi non mi salverete non mi restano che nove ore.
― A undici ore sarò alle Tuileries.
― E perché a undici ore? Perché non subito? Voi perdete due ore, mi pare.
― Perchè a quell’ora il re si ritira per lavorare, e fino a quell’ora egli sta nelle sale di ricevimento.
― Sì, e là si trova un centinaio di persone che ciarlano, ridono, sicuri del domani, senza pensare che un uomo, un loro simile, consuma la sua agonia in una prigione al lume di questa lucerna, in faccia a questi muri, coperti di nomi di gente vissuta come lui in questi momenti, e che domani verrà fatto morire.
« Essi non sanno tutto questo, essi nol sanno; ma ditelo loro, ed avranno pietà.
― Farò quanto potrò, signore, state tranquillo.
― Ma se il re il re esitasse, rivolgetevi alla regina: è una santa donna, ella deve esser contraria alla pena di morte.
« Rivolgetevi al duca d’Orleans, tutti parlano della bontà del suo cuore. Egli diceva un giorno, a quanto mi han detto, che se egli salirà il trono, non vi sarà una sola esecuzione sotto il suo regno.
« E se vi rivolgeste a lui, in vece che al re?
― Rassicuratevi, farò quello che sarà da fare.
― Ma, sperate almeno qualche cosa?
― La clemenza del re è grande: io spero in quella.
― Dio v’intendo! Sclamò giungendo le mani. Ah mio Dio! Ah mio Dio! Toccate il cuore di colui che con una parola può uccidere e farmi grazia.
― Addio, signore.
― Addio! Che dite mai? Dunque non tornerete?
« Mio Dio! Che diverrei io mai se non vi rivedessi! fino a piè del palco vi aspetterei, e qual supplicio non sarebbe il mio dubbio! Tornate, ve ne supplico, tornate!
― Tornerò!
― Bene! Disse il condannato, al quale pareva che andassero mancando le forze, dacchè ebbe ottenuto da me questa promessa. Bene! Vi aspetto.
E lasciò gravemente cadersi sulla sedia.
Io mi accostai alla porta.
― Dottore, egli mi disse, mandatemi mio padre, non voglio restar solo: la solitudine è il cominciamento della morte.
― Farò quanto desiderate.
― Aspettate. A qual ora credete essere di ritorno?
― Ma… non so… suppongo a un’ora dopo la mezza notte.
― Udite, suona nove ore e mezzo: è incredibile come passa rapidamente e specialmente dopo due giorni. Sicchè, fra tre ore, non è vero?
― Sì.
― Andate, andate. Vorrei insieme trattenervi, e vedervi partire.
« A rivederci, dottore. Mandatemi mio padre, vi prego. »
La raccomandazione era inutile: il buon vecchio mi vide appena alla porta che si alzò.
Il sottocarceriere che mi vide uscire lo fece entrare, e chiuse la porta dietro di lui.
Io ritornai col cuore oppresso. Non aveva veduto mai così schifoso spettacolo, ed abbenchè la morte sia famigliare a noi medici, e sia da noi conosciuta sotto diversi aspetti; tuttavia non aveva giammai veduto la vita lottare sì vilmente contro di lei.
― Uscii prevenendo il direttore che sarei tornato probabilmente nel corso della notte.
La carrozza mi attendeva alla porta; tornai a casa mia, e trovai gli amici miei che stavano allegramente; mi rammentai di quello che aveva detto quell’infelice.
« V’hanno di quelli che ciarlano, ridono, sicuri del domani, senza pensare che un loro simile soffre così orrenda agonia. »
Io era così pallido che, al vedermi essi misero un grido di sorpresa e quasi di terrore, e mi chiesero concordemente, se mi era accaduto qualche sinistro.
― Narrai loro quello che mi era accaduto, e alla fine del racconto erano pallidi quanto me.
Quindi entrai nella mia stanza e presi un altro vestito.
Quando uscii nuovamente, era cessato il baccano.
Stavano in piedi, e ragionavano seriamente sulla pena di morte.
XVIII.
Una vegghia del re.
Erano dieci ore e mezzo. Mi accommiatai dagli amici, ma concordemente mi risposero, che s’io il permetteva, sarebbero rimasti ad attendere l’esito della mia visita a sua maestà.
Giunsi alle Tuileries. V’era un circolo presso la regina.
La regina, le principesse e le dame d’onore sedute ad una tavola rotonda lavoravano, secondo il loro costume, in certi paramenti destinati ad opere di beneficenza.
Mi venne detto che il re s’era ritirato nel suo gabinetto, e che lavorava.
Ben venti volte mi venne fatto di penetrare con sua maestà in quel santuario. Non ebbi adunque bisogno di farmivi condurre: io conosceva la strada.
Nella camera prossima lavorava un secretario particolare del re, mio amico, chiamato L….. e inoltre uno di quegli uomini, sui quali si può far conto.
Gli dissi qual cagione mi conduceva, e lo pregai di prevenire sua maestà ch’io chiedeva il favore di venire introdotto presso di lei.
L…. aperse la porta, e un istante dopo udii il re che diceva:
« Fabiano, il dottore Fabiano? ch’egli entri subito.
Approfittai della permissione, senza pure aspettare il ritorno del mio precessore.
Il re accortosi della mia sollecitudine, disse:
« Ah, ah, dottore, sembra che siate stato ascoltando, venite.
Io era fortemente commosso.
Io non aveva veduto giammai il re in simile circostanza. Una sua parola stava per decidere della vita d’un uomo.
La maestà reale mi appariva in tutto il suo splendore; il suo potere in quell’istante partecipava del potere di Dio.
In quel momento stava sul volto del re una espressione tale di serenità che ripresi fiducia.
Sire, gli dissi, domando ogni perdono a vostra maestà di presentarmi innanzi a lei senza ch’ella mi abbia fatto l’onore di chiamarmi; ma trattasi d’una buona e santa azione, e spero che in favore del motivo, vostra maestà mi perdonerà.
― In tal caso siete doppiamente il ben venuto: dite presto; che cosa desiderate?
― Ebbi spesso l’onore di ragionare con vostra maestà sulla grave questione della pena di morte; e so quali siano su tal proposito le opinioni di vostra maestà. Adunque io ricorro a lei con ogni fiducia.
― Ah! Immagino il motivo che vi conduce.
― Un infelice, reo d’aver falsificato alquanti biglietti della banca, è condannato a morte in ultima istanza; l’altro ieri venne respinto il suo ricorso per cassazione, e quest’uomo deve subire la sua condanna a morte.
― Io so tutto, disse il re, ed ho lasciato il circolo per esaminare questo processo.
Come, voi stesso, sire?
― Mio caro Fabiano, continuò il re, sappiate che non cade una testa in Francia, senza ch’io abbia la certezza che il condannato sia veramente colpevole.
« Ogni notte che precede l’esecuzione d’una sentenza capitale è per me una notte di profondi studii e di considerazioni solenni.
« Esamino gli atti del processo dalla prima all’ultima riga, tengo dietro all’atto d’accusa in tutte le sue particolarità.
« Peso le deposizioni ad aggravio e a discolpa; lontano da ogni straniera impressione, solo, colla notte e colla solitudine, mi costituisco il giudice dei giudici. Se il mio convincimento è il loro, che volete? Il delitto e la legge stanno là rimpetto uno all’altro, bisogna lasciar fare la legge: se sono incerto, allora mi sovvengo del diritto che Dio mi ha dato, e senza far grazia, conservo almeno la vita. Se i miei predecessori avessero fatto come io fo, dottore, forse avrebbero avuto nel momento che Dio ha condannato pur essi, qualche rimorso di meno sulla loro coscienza, e qualche lagrima di più sulla loro tomba.
Io lasciava parlare il re, e riguardava, il confesso, con una profonda venerazione, quest’uomo onnipossente, il quale mentre si scherzava e rideva venti passi lontano da lui, ritiravasi solo e pensieroso, attendeva a un lungo e faticoso processo per cercare la verità. Così a’due estremi della società due uomini vegliavano occupati d’uno stesso pensiero; il condannato pensando che il re poteva fargli grazia; il re che poteva accordarla al condannato.
― Dunque, sire, gli chiesi con ansietà, qual è l’opinione vostra su questo infelice?
― Ch’egli è veramente reo; però non ha mai negato sun solo istante; bensì la legge è troppo severa.
― Sicchè io posso sperare di ottenere la grazia che venni a chiedere a vostra maestà.
― Vorrei lasciarvi credere, signor Fabiano, che fo qualche cosa per voi; ma non voglio mentire: quando entraste aveva già presa la mia determinazione.
― Allora, diss’io, vostra maestà fa grazia?
― Ciò si chiama far grazia, disse il re.
Egli prese gli atti del processo e rescrisse in margine queste due righe.
« Io commuto la pena di morte in quella dei lavori in vita.
E si sottoscrisse.
« Oh, diss’io, ciò sarebbe per altri una condanna più crudele che quella di morte: ma per costui è una grazia, ve ne assicuro…. Una vera grazia.
« Vostra maestà mi permette di dargliene avviso?
― Andate, signor Fabiano, andate, risposemi il re.
Quindi chiamando L….
Fate portare questi atti al signor guarda sigilli, e che gli vengano consegnati sul momento. È una commutazione di pena.
E salutandomi colla mano aperse un altro piego di carte.
Lasciai subito le Tuileries per la scala segreta che conduceva dal gabinetto del re all’ingresso principale: trovai la mia carrozza nella corte: montai e partii. Suonava mezza notte, quando giunsi a Bicêtre.
Il direttore continuava le sue partite a picchetto.
Conobbi che gli avrei annoiati, e dissi:
― Sono io mi avete permesso di rivedere il condannato: uso della permissione.
― Comodatevi, risposemi; Francesco, accompagnate il signore.
Scesi la scala quanto più presto potei.
« Sono io, risposi stando fuor della porta, sono io.
Un grido rispose al mio.
La porta s’aperse.
Gabriele Lambert s’era alzato dalla sua sedia.
Stava ritto in mezzo alla prigione coi capelli irti, cogli occhi fissi, colle labbra tremanti, non osando fare alcuna domanda.
― Dunque, mormorò?
― Ho veduto il re: egli vi fa grazia della vita.
Gabriele mandò un secondo grido, stese le braccia per cercare un appoggio, e cadde scenuto presso suo padre; il quale, alzatosi egualmente, non stese pure una mano per sostenerlo.
Mi curvai per assistere l’infelice.
« Un momento, disse il vecchio, ma a qual condizione?
― Come? a qual condizione?
― Sì, avete detto che il re gli fa grazia della vita, ma a quale condizione gli fa grazia?
Cercava le parole per rispondergli.
« Non mentite, signore, a qual condizione.
― La pena è commutata nei lavori a vita.
― Bene! Disse il padre; io me l’immaginava che l’infame volesse parlarvi da solo a solo per questo.
E alzandosi sdegnosamente andò con passo fermo a prendere il suo bastone che stava in un angolo.
― Che fate? Gli chiesi.
― Egli non ha più bisogno di me, mi disse. Era venuto per vederlo morire, e non per vederlo marchiare. Il palco lo purificava; ma il vile ha preferito il bagno.
« Io portava la mia benedizione al guigliottinato, do la maledizione al forzato.
― Signore…., io dissi….
― Lasciatemi andare, risposemi il vecchio con espressione di così suprema dignità, che mi ritrassi, senza più trattenerlo con altre parole.
Egli si allontanò con passo grave e lento, e soarve nel corridoio senza volger la testa per guardare una sola volta suo figlio.
Da altra parte, Gabriele Lambert, quando rinvenne, non chiese neppure ove fosse suo padre.
Lasciai quell’infelice col più profondo disgusto che uomo mi avesse ispirato giammai.
Lessi il posdimani nel Moniteur la commutazione della pena.
Poi non udii parlare più di lui, e ignoro a qual bagno sia stato condotto.
Qui termina la memoria di Fabiano.
XIX.
L’impiccato.
Tornando verso la fine del mese di giugno 1841 da uno dei miei viaggi in Italia, trovai, come il solito, un volume di lettere. Generalmente, e per edificazione di quelli che me ne scrivono, confesserò che vengono esaminate sommariamente.
Le lettere scritte da mano amica e di noti caratteri sono messe a parte e lette, le altre vengono spietatamente gettate sul fuoco. L’indirizzo diceva così:
« Signor Alesandro Dumas auttore dramatico in Europa, domandare al palaso munisipale di Parigi, se si trova in cita.
Disuggellai la lettera, e cercai il nome dell’adulatore che mi scriveva. Era sottoscritto Rossignol. Sulle prime il nome mi riusci sconosciuto quanto il carattere.
Ma, confrontando questo nome col suggello, cominciai a vedere nelle mie reminiscenze; poi le prime parole mi allontanarono ogni dubbiezza.
Questa lettera veniva da uno dei dodici forzati ch’erano stati al mio servizio, allorchè dimorava nella piccola casa al forte Lamalgue. Siccome questa lettera si riferisce non solo alla storia che ho raccontato, ma n’è anzi la chiusa, io la riferirò semplicemente e per intero, bensì correggendola degli errori d’ortografia, dei quali n’è un saggio l’indirizzo, che inoltre ne fa conoscere abbastanza lo stile.
Signor Dumas.
Perdonate ad un uomo che l’infortunio ha momentaneamente separato dalla società (io sto qui temporaneamente, il sapete); perdonategli l’audacia di scrivervi: ma il suo intento gli varrà di scusa presso voi, atteso che egli lo fa per incontrare il vostro gradimento.
(Come si vede la prefazione era lusinghiera; sicchè io proseguii a leggere.)
Forse vi ricorderete di quel Gabriele Lambert che veniva chiamato il dottore, colui che non volle recarsi all’osteria del forte Lamalgue a prendere la colazione che gentilmente voleste offerirci.
Imbecille!
Dovete ricordarvelo, poichè l’avete riconosciuto per averlo veduto altravolta nel bel mondo; ed egli pure conobbe, che ve ne davate pensiero, caricando d’interrogazioni quel povero papà Chiverny, il comito, il quale, colla sua ciera bieca, è tuttavia un uomo assai commendevole.
Adunque ascoltate quello che devo dirvi circa Gabriele Lambert.
Fino dalla sua prima venuta allo stabilimento, Gabriele Lambert aveva per camerata di catena un buon giovane, chiamato Accacia, il quale stava tra noi per un nonnulla.
Discorrendo co’suoi camerati egli aveva dato, non già volontariamente, ma nel gestire, una coltellata al suo più intriseco amico, ciò che gli è costato dieci anni, allorchè il suo intrinseco amico ne morì, del che il povero Accacia non potè consolarsi mai più.
Ma i giudici avevano avuto riguardo alla sua innocenza, e come vi dissi, abbenchè la sua imprudenza avesse cagionato la morte d’un uomo, essi gli avevano dato solo il berretto rosso.
Quattro anni dopo la vostra venuta a Tolone, vale a dire nel 1838, Accacia una bella mattina prese commiato da noi.
E appunto il giorno prima il mio camerata di catena era morto.
Ne venne da questo doppio avvenimento di partenza e di morte che Gabriele ed io restammo soli; venimmo quindi accoppiati insieme.
Se ve ne rammentate, Gabriele non era di facile abbordo. Non mi fu dunque troppo grata la nuova ch’io stava per venire ribadito con lui.
Però considerai ch’io non mi tratteneva a Tolone per godere ogni comodità, e siccome io sono alquanto filosofo, feci il mio divisamento.
Nel primo giorno egli non aperse la bocca, cosa che mi diede gran noia, dacchè io sono naturalmente ciarlone; e ciò mi annoiava viemmaggiormente, dacchè Accacia mi aveva detto più volte ch’egli pativa nella salute, trovandosi accoppiato ad un muto.
Io pensai che, dovendovi rimanere vent’anni, dei quali n’erano scorsi soltanto dieci, me ne restavano ancora altri dieci, e sappiate che la mia fu un’ingiusta sentenza, che s’io avessi avuto de’protettori l’avrei fatta annullare, poichè ell’era del 24 ottobre 1828 pensai, diceva, che doveva passare i secondi dieci anni poco piacevolmente.
La notte pensai quello dovessi fare, e ricordatomi il mezzo che aveva adoperato per far parlare il corbo,
« Signor Gabriele, gli diss’io quando venne il giorno, permettete ch’io vi domandi come vi sentite?
Egli mi guardò con sorpresa, non sapendo s’io parlava in sul serio, o se mi burlava di lui.
Io conservai la massima gravità.
« Come mi sento? egli rispose.
Vedete ch’io aveva ottenuto assai. Almeno gli aveva schiavato i denti.
Ei sospirò.
« Oh! Male, riprese: e ogni notte la passo così.
― Diavolo! Dissi.
Senza dubbio, egli s’ingannò circa il senso della mia esclamazione, poichè dopo un momento di silenzio riprese:
« Però state tranquillo, quando non dormirò cercherò di star quieto, e di non destarvi.
Oh! non datevi tante cure per me, signor Lambert, ripresi; l’onore che ho d’essere vostro camerata di catena mi fa tollerare ben volentieri qualche piccolo incomodo.
Gabriele guardommi con novella sorpresa.
Accacia, per farlo parlare, aveva seguito una strada diversa: lo aveva percosso fino a farlo parlare; ma benchè avesse ottenuto il risultamento, non fu però mai abbastanza soddisfacente, e durò fra essi una continua freddezza.
« Ma perchè, amico, mi parlate a questa maniera? Gabriele mi chiese.
― Perchè so a chi parlo, signore: non sono poi tanto goffo; vi prego distinguere.
Gabriele mi guardò severamente non senza sospetto, ma io gli sorrisi guardandolo con tanta amorevolezza, che una parte de’suoi sospetti svanì.
Giunse l’ora di colazione. Avemmo, come il solito, la nostra gamella per tutti e due, ma invece d’intingere tosto il mio cucchiaio nella zuppa, attesi rispettosamente ch’egli avesse finito. Quest’ultimo atto di rispetto gli piacque a segno che mi lasciò non solo la porzione maggiore, ma ancora i migliori bocconi.
Conobbi che in tal società c’era molto a guadagnare colle buone creanze. Alle corte, in otto giorni, tolto una cert’aria di superiorità che non depose mai, Gabriele ed io eravamo i più intrinseci amici.
Ma, per mala sorte, io non aveva guadagnato gran cosa a far parlare il mio compagno: i suoi discorsi erano dei più malinconici, e, invero, ci volle tutta la naturale allegria, di che mi ha fornito la provvidenza, per non perdermi seco alla sua scuola.
Passai due anni in tal modo, nei quali egli si fece ognora più tetro.
Di quando in quando io conosceva ch’egli voleva farmi una confessione.
Allora io lo guardava con viso il più aperto che potessi fingere, per dargli coraggio; ma la sua bocca si rinchiudeva, ed io vedeva la cosa rimessa ad un altro giorno.
Andava pensando quale specie di confidenza egli fosse per farmi, e questo pensiero era una delle mie ricreazioni; quando un giorno, mentre andavamo a lato d’un carro carico di vecchi cannoni da rifondere, che pesavano molte migliaia di libbre, lo vidi guardare una ruota con tal piglio che voleva dire:
« S’io non fossi un poltrone porrei la mia testa là sotto, e tutto sarebbe finito. »
D’allora fui certo: il suicidio, al bagno, è una cosa comune. Così pure, mentre lavoravamo un giorno presso il porto, approfittando della solitudine, lo vidi guardarmi nel modo solito, ond’io pensai di finirla quel dì co’suoi scrupoli. Dovete sapere, che finalmente egli era divenuto insoffribile, e che io non ne poteva più; in guisa che non m’avrebbe a nessun costo spiaciuto di liberarmi di lui, comunque si fosse.
« Via, gli dissi, perchè mi guardate così?
― Io? v’ingannate, egli mi rispose.
― No, non m’inganno, soggiunsi.
― Tu t’inganni.
― M’inganno tanto poco, che se volete vi dico quello che voi pensate.
― Tu?
― Io, sì!
― Bene! Dimmelo.
― Voi vorreste terminare la vita, ma avete paura di farvi male.
Impallidì.
« Echi te l’ha detto?
― Io l’ho imaginato.
― Ah! si, Rossignol, hai ragione, è la verità: vorrei uccidermi, ma ho paura.
― Adunque non potete sopportare il bagno?
― Non sai quanto mi dolga non aver subito la guigliottina!
― Ognuno ha i suoi gusti.
― Ma io dichiaro, che sebbene qui non si viva con ogni lautezza, tuttavia…
― Comprendo, voi ci rimanete a disagio.
« È giusto: quando s’ebbe cento mila lire di rendita, o poco meno, quando si ha gustato le superbe carrozze, quando si ha indossato vesti magnifiche, e si ha fumato zigari squisiti, è crudele tirar la catena, andar vestito di rosso, et cetera; ma, che volete fare, bisogna esser filosofo a questo mondo, quando non si ha coraggio di sottoscrivere da sè il passaporto per l’altro mondo. Gabriele mandò un sospiro che parve un gemito.
― Dunque tu non provasti mai la tentazione di ucciderti?
― No, in fede mia!
― Dunque non hai neppure pensato quale fra i varii generi di morte sia la men dolorosa.
― Via, v’ha sempre un momento ch’è assai duro a passare: dicono che un laccio al collo non sia privo di voluttà.
― Davvero?
― Io almeno lo credo; anzi è per questo che hanno immaginato la guigliottina. Un impiccato, essendosi rotta la corda, narrò certe cose così dilettevoli, che i condannati andavano alla forca come se ne andassero a nozze.
― Davvero?
― Vedete bene che io non fatto la prova, ma qua dentro questa è una tradizione.
― Sicchè se tu avessi deciso di ucciderti, t’impiccheresti?
― Sicuramente!
Egli aperse la bocca, certamente per chiedermi d’impiccarmi con lui; ma scorse sul mio viso ch’io era disposto a tutt’altro, e stette qualche poco in silenzio.
― Dunque, gli dissi, avete certamente deciso.
― Non ancora assolutamente, perché mi resta tuttavia una speranza.
― Che mai?
― Quella di trovare un camerata, il quale, mediante il compenso di tutto quello che posseggo, ed una lettera che dichiari ch’io mi sono ucciso da me medesimo, voglia consentire ad uccidermi.
E nello stesso tempo si pose a guardarmi, quasi chiedendomi se la proposta mi conveniva.
― Io scossi la testa.
« Oh no! gli dissi, io non do in queste ragne; bisognava chiedere ad Accacia: egli, per un tiro di questa fatta, è capitato fra noi, e forse prendendo ogni guarentigia, egli avrebbe accettato; ma con me non fa il caso.
― Almeno, una volta ch’io sia deciso, tu vorrai darmi mano.
― Vale a dire, ch’io non v’impedirò nulla più.
« Per bacco! io sto qui a tempo determinato, e non voglio compromettermi.
È qui finì la nostra conversazione.
Scorsero ancora quasi sei mesi nei quali non se n’è più parlato. Ma io vedeva Gabriele ognora più triste, e pensava ch’egli volesse addomesticarsi col suo disegno.
Io poi, siccome questi pensieri non mi facevano stare troppo allegro, desiderava, il confesso, ch’egli si disbrigasse.
Finalmente una mattina, dopo aver passato una notte a voltarsi e rivoltarsi, egli si alzò più pallido che l’usato, e siccome egli non mangiava alla colazione, gli chiesi s’era malato.
« Sarà per oggi soltanto, ei mi rispose.
― Ah, ah! gli risposi, dite davvero?
― Assolutamente.
― E avete prese le debite precauzioni?
― Non hai veduto ieri che ho scritto un biglietto?
― Si, ma non ebbi la sfacciataggine di guardare.
― Eccolo.
― E mi diede un pezzo di carta scritta e piegata: apersi, e lessi:
« Non potendo più sopportare la vita del bagno, ho deciso di uccidermi, domani 5 giugno 1841.
« GABRIELE LAMBERT. »
Dunque, egli mi disse, pago della prova di coraggio che mi offeriva, ― vedi bene che ho preso la mia decisione, e che ho scritto di fermo pugno.
― Sì, vedo bene, risposi, che con quel biglietto mi regalate almeno un mese di gabbia.
― Perchè?
― Perchè non dice che io non v’ho assecondato nel vostro disegno; ed io vi dichiaro che non vi lascerò in pace per inpiccarvi senza la condizione che io non debba risentirne alcun danno,
― Ma, e come fare? Egli allora mi disse.
― Primieramente scrivere un biglietto concepito in altra maniera.
― Ma in qual maniera?
― Presso a poco così: ascoltate.
« Oggi 5 giugno 1844, nell’ora di riposo, mentre Rossignol, mio camerata dormirà, eseguirò il disegno da me ordito da lungo tempo, e mi ucciderò, essendomi divenuta insopportabile la vita del bagno.
« Ho scritto, acciò Rossignol non debba soffrirne alcun danno.
« GABRIELE LAMBERT. »
Gabriele assentì, scrisse nuovamente, e pose il viglietto nella sua tasca.
A mezzo giorno, Gabriele, il quale non aveva più parlato fino dalla mattina, mi chiese s’io conosceva un luogo adatto ad eseguire il divisamento che aveva preso. Conobbi ch’egli esitava, e che la cosa sarebbe differita s’io non lo soccorreva.
« Lasciate il pensiero a me, gli risposi, facendo un cenno col capo.
« Però se non siete ancora bene determinato, rimettete la cosa a un altro giorno.
― No, egli disse, facendo un violento sforzo contro sè stesso; ho detto che deve esser fatto oggi, ed oggi deve esser fatto. ― In vero, diss’io, fingendo gran trascuranza, in queste cose quanto si fa più presto, tanto più si guadagna.
― Adunque conducimi, disse Gabriele.
Ci mettemmo in cammino: egli si faceva trascinare, ma io fingeva di non accorgermene.
Quanto più ci appressavamo al luogo, ch’egli conosceva meglio di me, tanto più egli faceva lo storpio. Io fingeva non capire, e camminava sollecitamente.
« Sì, è qua, egli disse con voce spenta, quando giungemmo. Prova che aveva conosciuto che il luogo era opportunissimo pel suo negozio.
In fatto, presso il deposito del legname da costruzione che voi conoscete, sorgeva un magnifico gelso.
Io poteva fingere di dormire all’ombra, ed egli frattanto poteva da senno impiccarsi all’albero.
« Dunque, gli dissi, che vi sembra del luogo?
Egli era pallido come la morte.
« Ho capito, diss’io, per oggi non si fa niente.
― T’inganni, rispose, ho preso la mia determinazione; solo mi manca la corda.
― Come? gli dissi, non vi ricordate il luogo?
― Che luogo? …
― Quello ove nascosto avete quel pezzo di comando che avete posto in saccoccia un giorno mentre passavamo per la corderia?
― Si, egli disse balbettando, credo d’averlo nascosto qui.
― Guardate là, gli dissi, mostrandogli col dito il luogo ove lo aveva veduto quindici giorni prima frugare nascondendo l’oggetto che or domandava.
― Si curvò, introdusse una mano in una apertura.
― In quell’altra, gli dissi, in quell’altra. In fatto frugò nell’altra, e ne trasse una bellissima cordicella lunga tre braccia.
« Sagrestia! Gli dissi, quell’è una corda che fa venir voglia.
― Ed ora, che devo fare? Egli mi domandò.
― Via, pregatemi alla bella prima di apparecchiarvi l’ordigno, così faremo presto.
― Bene! Sì, egli mi disse, fammi questo piacere.
― Che! vi farei un piacere? Davvero!
― Sì.
― Me ne pregate?
― Sì, te ne prego.
― Bene! io non devo nulla negare ad un camerata.
Feci alla cordicella un bellissimo nodo scorsoio, l’attaccai al ramo più forte e più alto, accostai al tronco del gelso un ciocco, ponendolo bello ritto in guisa che solo bastasse una spinta col piede per fare uno spazio di ben due piedi fra uomo e terra.
Tutto questo era più del bisogno ad un galantuomo per impiccarsi.
In quel frattempo egli mi guardava fare gli apprestamenti.
Egli non era pallido: era color della cenere.
Quando fu terminata ogni cosa:
« Ecco, gli dissi, l’opera materiale è fatta, ora con un po’di risoluzione tutto sarà compiuto in un minuto secondo.
― E facile a dirlo, egli mormorò.
― Appiano, diss’io, sapete che non son io quello che vi sospinge d anzi, al contrario, ho fatto il possibile per distorvene.
― Sì… ma son io che lo voglio, egli disse, montando risolutamente sul ciocco.
― Bene! ma aspettate; aspettate un momento che mi ponga a dormire.
― Sdraiati, egli mi disse.
Io mi coricai:
« Addio, Rossignol, soggiunse.
E introdusse la testa nel nodo scorsoio.
― Ma via, levatevi la cravatta, gli dissi; volete impiccarvi colla cravatta? che mai? questa sarebbe nuova!
― Oh! È vero. Egli disse.
E si levò la cravatta.
« Addio, Rossignol, disse per la seconda volta.
― Addio, signor Lambert, coraggio io chiudo gli occhi per non vedervi.
In fatto ell’è una cosa orrenda a vedersi…
Erano scorsi dieci secondi, ma nulla m’indicava che fosse avvenuto qualche cosa di nuovo.
Apersi gli occhi. Egli aveva tuttavia al collo il nodo corsoio: ma il suo colore non era più d’uomo, era di cadavero.
« Dunque? Gli dissi.
Egli sospirò.
« Papà Chiverny, sclamai, chiudendo gli occhi, e facendo un movimento, il quale, credo, fece cadere il ciocco.
― Aiuto, socc… » tentò di gridar Gabriele, ma la voce si spense soffocata nella strozza.
Udii movimenti convulsivi che facevano tremar l’albero, e una certa cosa simile al rantolo…
Ma in un minuto tutto cessò.
Io non osai più muovermi, non oasi aprir gli occhi, fingeva di dormire, aveva veduto papà Chiverny, già sapete, l’aguzzino: egli veniva ver noi, e sentii il rumore de’suoi passi. Finalmente sentii d’aver ricevuto un formidabile calcio nelle reni.
« Ohe, ohe! che diavolo! diss’io volgendomi, e fingendo di svegliarmi allora.
― Il diavolo è che mentre tu dormi, asino, il tuo camerata s’impicca.
― Che camerata? … Ah! è vero! E tutto questo io dissi come se ignorassi realmente quanto era avvenuto.
Se non avete mai veduto un impiccato, signor Dumas, sappiate ch’è una cosa orrenda. Gabriele specialmente era spaventevole. È a credere che avesse fatto immensi sforzi, poichè era tutto disfigurato, uscivangli gli occhi dall’orbite, la lingua dalla bocca, si teneva colle mani afferrato al laccio, avendo cercato di sostenervisi.
Pare che io abbia saputo dimostrare tale sorpresa nel volto, che si è creduto alla mia ignoranza del fatto.
Inoltre frugarono nelle tasche di Gabriele, e trovarono il foglio che comprovava la mia innocenza.
Spiccato il cadavere, lo posero sopra una barella, e fummo entrambi condotti all’infermeria.
Quindi andarono ad avvisar l’ispettore. Frattanto rimasi presso il corpo del mio compagno, al quale era incatenato.
Dopo un quarto d’ora entrò l’ispettore; esaminò il cadavere, ascoltò il rapporto di papà Chiverny, e m’interrogò.
Quindi, raccogliendo tutta la sua sapienza per dar la sentenza, disse:
« Uno al cimitero, l’altro in prigione.
― Ma, ispettore, diss’io.
― Per quindici giorni, egli disse.
Io tacqui.
Temeva di vedermi raddoppiata la pena, cosa ordinaria quando si fa rimostranza.
Venni dispaiato, venni posto in prigione, e vi rimasi quindici giorni.
Quando ne uscii, venni appaiato a Taglia-orecchi, un bellissimo giovane, che voi non conoscete, e il quale almeno parla.
Ecco, signor Dumas, le particolarità ch’io desiderava fornirvi, certo che sareste per aggradirle. Se sono riuscito, scriverete ve ne prego, al nostro buon dottore Lauvergne, di darmi da parte vostra una libbra di tabacco.
Ho l’onore d’essere con profondo rispetto.
Vostro umiliss. obbedientiss. servitore
ROSSIGNOL
Residente a Tolone.
XX.
Processo verbale.
Nel mese di ottobre mille ottocento quarantadue fui di ritorno a Tolone.
Non mi era uscita di mente la strana storia di Gabriele Lambert, ed era curioso di sapere, se in fatto era avvenuto ciò che Rossignol mi aveva scritto.
Feci una visita al comandante del porto.
Per mala sorte egli era stato cangiato, ed io nol sapeva.
Il suo successore non m’accolse men gentilmente, e siccome, conversando, egli mi chiese, se poteva in nulla giovarmi, gli dissi apertamente, che la mia visita non era senza interesse, e ch’io bramava sapere che fosse avvenuto d’un condannato detto Gabriele Lambert.
Egli fece chiamare immediatamente il suo secretario; era questo un giovane ch’egli aveva condotto seco, e che stava a Tolone da un anno soltanto.
« Caro Durand, ei gli disse, fateci sapere se il condannato Gabriele Lambert è ancora al bagno, come si trova, e quali annotazioni lo riguardano.
Il giovane uscì, e un quarto d’ora dopo tornò con un registro aperto.
« A voi, signore, egli mi disse, se volete leggere queste righe, sarete pienamente informato.
Sedetti innanzi alla tavola ov’egli aveva posto il libro, e lessi: « Oggi 5 giugno mille ottocento e quarantuno, io, Lorenzo Chiverny, comito di prima classe, facendo la ronda nei cantieri nell’ora di riposo accordata ai condannati a cagione dei grandi calori, dichiaro aver trovato il nominato Gabriele Lambert, condannato ai lavori forzati in vita, impiccato ad un gelso, all’ombra del quale dormiva o fingeva di dormire il suo compagno di catena Andrea Toulman soprannominato Rossignol.
« A tal vista, il mio primo pensiero fu di svegliare quest’ultimo, il quale dimostrò la maggiore sorpresa dell’avvenimento, e affermò non essere complice in alcun modo. In fatto, staccato dal laccio il cadavere, ed esaminato nelle vesti, venne trovato un biglietto che discolpava affatto Rossignol.
« Tuttavia, siccome il condannato era conosciuto per la sua eccessiva vigliaccheria, e siccome sembra cosa difficile ch’egli siasi impiccato senza il concorso del suo compagno, al quale era unito mediante una catena di solo due piedi e mezzo, ho l’onore di proporre al signor ispettore generale di mandare Andrea Toulman, detto Rossignol, per un mese in prigione.
« LORENZO CHIVERNY
» Comito di prima classe. »
Sotto erano scritte d’altra mano e sottoscritte con una sigla le due righe seguenti:
« Far seppellire questa sera il nominato Gabriele Lambert, e mandar sul momento per un mese il nominato Rossignol in prigione. « V. B. »
Copiai questo processo quale, senza cangiar parola, lo offersi agli occhi dei miei lettori, i quali troveranno, colla conferma di quanto mi aveva scritto Rossignol, lo scioglimento naturale e compiuto della storia che ho raccontato.
Aggiungerò solamente che ammirai la perspicacia dell’onorevole comito padron Lorenzo Chiverny, il quale aveva indovinatoche nel momento in cui trovò il cadavere di Gabriele Lambert, il suo compagno, Andrea Toulman, detto Rossignol, era tutt’altro che addormentato, e fingeva dormire tranquillamente.
ALESSANDRO DUMAS
Tratto da: L’Emporeo artistico-letterario, ossia Raccolta di amene lettere, novita …
Digitalizzato in Google Libri