In memoria della morte di Alessandro Manzoni

Di Vittorio Bersezio – 1873

Il primo poeta italiano di questo secolo non è più: il più gran romanziere che vanti la nostra letteratura, ha cessato di esistere. Alessandro Manzoni è morto.
Queste parole si scrivono con mano tremante, con occhi appannati dalle lagrime, con cuore che dolora.
La tomba ha finito per inghiottirlo; la morte è riuscita a trionfare di tanta intelligenza, limpida e serena fino agli ultimi istanti di quella verde vecchiezza – che ognuno avrebbe voluto vedere protratta oltre i limiti della natura umana.
Mortale si sapeva pure il suo corpo, come immortali il nome e le opere; ma quasi uom voleva farsi illusione: si lusingava che alla forma peritura alcun che della sua incorruttibilità avesse da comunicare la così divina parte dell’essere eterno.
All’annunzio di tal morte, benchè temuto, si rimane sbalorditi, come a quello d’una gravissima sventura inaspettata. Ed è veramente sventura – e gravissima.
Ed è sventura di tutti, e come ben si disse di subito: sventura nazionale, perchè misera l’Italia non sa quando un altro suo figlio potrà levarsi ad una tanta altezza più nobile, più cara, più sublime altezza, di quella del sommo di cui egli cantò la morte, perchè altezza incruenta.
Alessandro Manzoni non è più! Si ha il bisogno, si ha l’obbligo di parlarne in mezzo a questo commovimento universale, in cui sentite compagno al vostro cordoglio, al vostro turbamento, quello di tutti; ma chi lo sa fare, chi lo può degnamente?
A tutti viene sulle labbra il suo potente « Ei fu! » Ma converrebbe ch’egli medesimo fosse a cantarselo con quei suoi versi limpidi, sonori, adamantini.
Mille cose da dire fan ressa alla mente, mille sentimenti vi sorgono in seno: vorreste avere la potenza d’intelletto di chi cantò il Cinque maggio per poter cantare il Ventidue maggio; cercate ordinare tutto quel tumulto di pensieri, d’affetti, di lagrime; e ad un tratto pensate che quella faccia mitemente serena, sorridente con tanta benevolenza è tutto bianca del pallor della morte, che quello sguardo arguto e soave, tranquillo e illuminato da tanta luce è spento per sempre, che quella bella testa, intorno a cui aleggiò così soave e così pura l’ispirazione, giace abbandonata nel sepolcro per non rialzarsi mai più e tutte le idee vi sfuggono, e le parole vi mancano, ed ogni pensiero vi si dilegua in un’esclamazione di dolore.

Alessandro Manzoni nacque il 7 marzo 1785: ecco il suo atto di battesimo, quale si può leggere nei registri parrocchiali di S. Babila in Milano:
« 1785, addì 8 marzo.
« Alessandro, Francesco, Tommaso, Antonio, figlio
« dell’illustrissimo signor Don Pietro Manzoni, quon
« dam Don Alessandro, e dell’illustrissima signora Anna
« Giulia Beccaria Bugali, abitante verso il naviglio,
« passato San Damiano, sotto questa cura, nato il
« giorno sette, alle ore otto circa, è stato battezzato il
« suddetto giorno in questa chiesa da me infrascritto
« curato. Il compadre fu l’illustrissimo signor marchese
« Don Francesco Origoni del quondam signor marchese
« Don Agostino, nella cura di S. Babila.
« Ed in fede: Prete Alessio Nava, curato. »
Su quella modesta casa il Municipio di Milano non tarderà certo a porre una lapide che ne dica la gloria, come innanzi a quella in cui ora il sommo poeta s’estinse, sulla piazza Belgiojoso, dove guardano le finestre dell’abitazione che egli acquistò a sè ed alla famiglia, non tarderà a sorgere un monumento degno del più grande fra gli scrittori italiani, d’uno dei più benemeriti e il più illustre fra i cittadini della patria redenta…


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Alessandro Manzoni: studio biografico e critico
Di Vittorio Bersezio


Dal libro di Benedetto Prina,
Alessandro Manzoni, studio biografico e critico:

… Vennero allora a visitarlo quanti uomini egregi onorarono l’Italia e nelle lettere e nella diplomazia e nelle armi; vennero Mazzini e Garibaldi, e vennero del pari principi e monarchi e fra questi quel principe sì degno d’intenderlo, l’imperatore del Brasile, che ai ringraziamenti del poeta rispose:
« Io
« debbo grazie ai lei che mi accolse nella sua stanza.
« Fra poco non si saprà chi fosse Don Pedro di
« Alcantara; ma le età venture, non la sola Italia,
« parleranno di Manzoni. »
Fra le molte deputazioni di studenti e di società, che gli si presentarono, ultima fu a visitarlo nella villa di Brusuglio una schiera di poveri sordomuti della campagna. Era l’autunno del 1872. Lo spettacolo di quei poveretti, a cui la carità educatrice avea, come per miracolo, ridonata la favella, commosse sino alle lagrime il buon vecchio, che prima di lasciarli li benedisse, dicendo ai suoi amici che moriva contento al vedere, come ogni sorta di sventure avesse in Italia trovato ajuto e consolazione.
– Il mesto presentimento del vegliardo dovea pur troppo avverarsi di li a poco. Già fin dalla state di quell’anno si cominciò a notare qualche decadimento nella salute di Manzoni, che avea fin allora gagliardamente lottato contro gli anni e contro le sventure.
«Mi ricordo (narra il Bonghi) che quando fui a fargli visita a Brusuglio, mi disse queste melanconiche parole: Son passato da una verde vecchiaja ad una floscia decrepitezza.»
Nella stagione autunnale, che passò nella sua villa di Brusuglio, parve che ripigliasse alquanto delle antiche sue forze, e nel dicembre ritornò a Milano. Alla fine di quel mese, nell’entrare in una chiesa, gli manco il piede, e percosse sugli scalini la fronte. Sul principio quella caduta non parve pericolosa; ma ben presto fu seguita da una crescente prostrazione di forze e la sua mente, sì lucida e serena, cominciò ad annebbiarsi. Egli stesso si accorse del rapido estinguersi delle forze vitali e lo confidava con dolce mestizia agli amici, a cui andava ripetendo questi due versi, gli ultimi da lui pensati:

Gambe, occhi, naso, orecchi, e ohime pensiero!
Non ho più uno che mi dica il vero.

Un colpo terribile, inaspettato venne ad affrettare la morte del poeta. Parve quasi, che Dio volesse provare colla più crudele delle sventure la grand’anima del poeta, prima di chiamarla alla gloria immortale. Il buon vecchio, a cui la morte avea rapiti un dopo l’altro i più stretti congiunti, vide dopo lunga malattia, spegnersi la vita del suo primogenito Pietro; di quel figlio che a lui vedovo e solo avea prestate le più assidue cure e gli era indivisibile compagno e consigliero.
Non volle credere a tanta sciagura; e sovente, come risvegliandosi da un sogno angoscioso, si aggirava il vecchio per le vote stanze, chiamando il figlio per nome, parlava spesso con lui, e volea quasi per forza convincersi che era un inganno crudele. Cosi passò un mese, finchè il male lungamente covato si manifestò con una forza tremenda, irresistibile.
Era un’infiammazione cerebrale, cagionata senza dubbio e dalla caduta e dalla recente sventura. Nei brevi giorni della malattia si alternarono con rapida vicenda brevi delirii e lampi di mente lucidissimi: ma quella calma dello spirito e quella dolcezza che gli era abituale, accompagnò il poeta fino all’estremo. Verso il mezzogiorno del 21 maggio si accorge ad un tratto che gli vien meno la vita e subito chiese i conforti di quella religione, che fu sempre la meta de’suoi pensieri e l’oggetto del suo amore.
Le ultime parole che rivolse a’suoi famigliari per chieder loro perdono, se qualche parola scortese gli fosse sfuggita nel delirio, e per raccomandar loro di pregar sempre per l’Italia e pel Re, com’egli avea fatto ogni giorno, furono il degno testamento del poeta Cristiano e cittadino.

« Le ultime ore furono strazianti (cosi scriveva una sua
« nipote). La lotta fra la vita e la morte fu accanita:
« ed egli soffrì orribilmente. Alle sei della sera (22
« maggio) gli si apprestò l’estrema unzione. Incomin
« ciare le preci e subentrare alla smania una calma
« completa fu tutt’uno: e quando se ne proferivano
« le ultime parole, quella grande anima saliva a Dio.
« Spirò alle sei e un quarto; e in quel momento su
« premo, quella testa augusta s’illuminò come di un
« raggio celeste, la scintilla del genio v’era stampata,
« il sublime Ei fu era scritto su quella fronte spa
« ziosa; era una cosa imponente. Morì seduto sul
« letto; anzi ritto sulla persona; e quando rese l’a
« nima a Dio, piegò il capo in atto di chi pensa, e
« rimase cosi, finchè non lo si coricò. »

– La notizia della sua morte, sebbene da più giorni preveduta come certa ed imminente, cagionò in tutta la cittadinanza una profonda costernazione. Parve che in quei giorni un sol pensiero dominasse gli animi ed un’ambascia comune si rivelasse sulle fronti pensose; Manzoni è morto. E tutta Italia ne fu commossa; e dalle sue cento città, come dagli umili villaggi, dalla reggia del principe come dal tugurio dell’alpigiano, venne un grido di dolore ed una parola di compianto alla città natale ed alla famiglia del poeta…

Alessandro Manzoni, studio biografico e critico
Di Benedetto Prina
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Alessandro Manzoni – disegno da: cenni sulla sua vita e le sue opere
Di Felice Venosta:

… A Milano tutti conoscevano il Manzoni; e quando lo incontravano lo salutavano. La sua passeggiata favorita erano i Giardini Pubblici; ei vi si recava coi nepoti, o coll’amico sacerdote professore Natale Ceroli, come pure già vi andava coll’altro amico il Rossari.
Ivi passeggiando compose i bei versi latini sugli uccelli chiusi in gabbia che abbiamo sopra accennati. Oh, lo avremo per sempre alla memoria l’illustre vegliardo, che con molto cuore amavamo additare ai giovinetti, tenersi colla destra, dietro la schiena, l’avambraccio della sinistra, curva la persona, ma franco il piede volgere ilare quella cara sembianza a chiunque pur accennasse conoscerlo, e salutando con soavità quelli che si inchinavano sul suo sentiero!
Per molti la passeggiata della sera non era nè compiuta, nè lieta, se non avevano fatto quel prezioso incontro, quasi ad assicurarsi che al loro maestro e padre arrideva ognora prospera la salute. E quando un amico forestiero aveva meravigliato innanzi ai monumenti che Milano racchiude, non partiva contento se non prima avesse veduto il Manzoni. Era facile incontrarlo, o il mattino alla messa in S. Fedele, o al Corso Vittorio Emanuele, dalle 3 alle 5 pomeridiane, o dopo il pranzo ai Giardini Pubblici; non alle riunioni scientifiche o letterarie, non già al teatro, perchè la squisita sua modestia lo indusse a tenersi sempre in disparte. E ricordiamo di quella sera in cui, cinque anni or sono, cedendo alle preghiere dei suoi cari, si lasciò condurre al vecchio Teatro Re ad udirvi la produzione: Le miserie de monsù Travet, recitata dalla compagnia piemontese Toselli, e che, fatti accorti pubblico ed attori di sua presenza in un palco di prima fila, ne ebbe tale dimostrazione di ossequio, che si ritirò nell’interno del palco e non fu più veduto in teatro, nè uscire di sera.

Il Manzoni sentiva bisogno di concordi colloqui quasi più che di pane; più degna gioia non provava di quella di accogliere nelle proprie stanze giovini poveri e tutta-via oscuri, e presagirli, e, colla modesta parola, rattenerli insieme ed incuorarli…
La modestia grandissima del Manzoni pativa quando alcuno fosse uscito con lui in una parola di lode, anche non volgare, o che accennasse ai benefici effetti dei suoi scritti sulla letteratura e la vita intiera degli italiani. Egli interrompeva la persona dicendo: « Senta, se c’è un nome che non meriti autorità, questo nome è il mio. Lei forse non sa che io fui un incredulo e un propagatore d’incredulità, e con una vita conforme alla dottrina, che è il peggio. E se la Provvidenza mi ha fatto vivere tanto, è perchè mi ricordi sempre che fui una bestia e un cattivo (1)».

(1) Parole testuali. Narra persona, che ebbe a udire quelle parole il 19 ottobre 1872 in Brusuglio, che, pronunciandole, il Manzoni si accese tutto in viso, e gli occhi suoi brillarono di pianto: e pure furono dette con una grande pacatezza.

Alessandro Manzoni: cenni sulla sua vita e le sue opere
Di Felice Venosta.
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