DELL’ IMMORTALITA’ DELL’ ANIMA

Pensieri di Cicerone

É veramente non veggo perchè io non ardisca dire a voi quello che io sento della morte la quale a me pare di scorgere tanto meglio, quanto più sono a lei vicino. Io credo bene, o Scipione, e tu, o Lelio, che i vostri padri, personaggi chiarissimi ed a me amicissimi, ora si vivano quella vita verace, la quale è sola da chiamar vita: perciocchè mentre siamo rinchiusi in queste membra corporee noi sottostiamo ad un cotale officio di necessità e ad una gravosa opera. Chè l’animo nostro tutto celestiale è già calato dall’altissimo suo domicilio, e per così dire, fitto in terra, la quale è stanza contraria alla natura divina ed alla eternità.
Ma io credo che gli dii immortali spargessero gli animi ne’ corpi umani, acciocchè fossevi chi governasse la terra, e contemplando l’ordine delle celestiali cose imitassero quello col modo del vivere e colla costanza. Nè solamente la ragione e ‘l discorso ha mosso me a ciò credere, ma si ancora la fama e l’autorità di sommi filosofi.

Io udiva già Pitagora e i Pitagorici, quasi nostri paesani, i quali erano chiamati un tempo filosofi italici, non mai aver messo in dubbio che noi non avessimo animi partecipanti la universalmente divina. E mi si mostravano ancora quelle cose, le quali Socrate ragionò e discorse nel dì estremo di sua vita intorno alla immortalità degli animi; quel Socrate dico che dall’oracolo d’Apollo giudicato fu il sapientissimo di tutti gli uomini.
Ma a che tante parole? Così tengo per fermo, così io sento che essendo tanta la velocità degli animi, tanta la memoria delle cose passate, tanta la previdenza delle future, e tante le arti, le scienze e i ritrovamenti, non potere quella natura che tante cose comprende, essere mortale; e conciossiachè l’animo sempre si muova e si agiti; nè questo movimento abbia principio, perchè se stesso muova, non potrà pure aver fine questo moto, perchè esso non è per abbandonare giammai se medesimo.
Ed essendo semplice la natura dell’animo, nè avendo in sè niuna mistura di materiale, nè di cosa dissomigliante da sè, esso animo non può perciò essere diviso, e non potendo essere diviso, non può morire.
Ed essere di grande argomento che gli uomini sanno le più delle cose avanti che e’sieno nati, perchè ancora i fanciulli quando le difficili, arti imparano, innumerevoli cose sì velocemente colgono come di volo, che e’ non pare che quelle allora per la prima fiata apprendano, ma si se ne rammentino, e se ne desti in loro la memoria.
E questa è sentenza del nostro Platone.

Marco Tullio Cicerone, nel Trattato della Vecchiezza.
Traduzione del Chiappa.

Tratto da: Teatro universale raccolta enciclopedica e scenografica
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