2 Novembre

Et solum mihi superest sepulcrum


Non aspettatevi la solita elegia del tempo piovoso e grigio pel mesto giorno dei morti: il solito luogo comune, con accompagnamento di foglie ingiallite che cadano al vento, e le campane che suonano, e le salmodie lugubri dei preti e la gente che va al cimitero a portare una corona di fiori, un nastro, un cero, e via via le lacrime, i gemiti, le preci che salgono, salgono in alto…
No: – il cielo è cupo, ma mi uggisce, le campane suonano, ma il loro suono è orribile, la gente si riversa nei tram spensierata, avida, curiosa, ma io rido, di un riso beffardo e amaro che mi muore sulle labbra.
– Vieni dopo eh? – domanda uno dalla strada.
– Sì, sì – risponde un altro dal tram: alle 5, da mastro Beppe.
E via, via; i monelli strillano, guizzando fra la gente, le carrozze s’incrociano, i conduttori dei tram suonano le cornette e fanno schioccare le fruste, e dappertutto è un muoversi incomposto, un bisbiglio confuso, incessante. Le baracche dei venditori ambulanti fumano per le caldaie in cui bollono le castagne, la voce della sonnambula si fa più rauca, i pezzenti urlano e il baccano diviene immenso, assordante.
E tutti vanno, vanno a trovare i poveri morti, a strappare una fogliolina dalle erbe grasse del cimitero per ricordo dei poveri morti. Avanti, avanti.
Il cimitero ormai è gremito di gente, la processione umana continua incessante; dalle carrozze, dai tram scendono persone d’ogni ceto, d’ogni sesso.
Uomini in tuba e cravatta nera, signore eleganti, piene di sussiego, incipriate e profumate come per una festa da ballo, signorine dall’aria romantica che camminano con gli occhi per terra, tenendo alzato un lembo della veste per paura di imbrattare le scarpine, ragazze allegre, e preti rubicondi e vecchi con degli enormi ombrelli sotto al braccio e faccie equivoche di borsaiuoli che fumano il sigaro toscano col cappello sulle ventiquattro e la catena d’oro al panciotto.
I viali rigurgitano: la gente si ferma a vedere i monumenti, ad ammirare le ghirlande più ricche e approva e gestisce e commenta.
– Bella quella corona; tutti fiori freschi, gaggie e gigli, bella… Guarda, vediamo questa lapide: – A Salvatore B., ottantenne… eh!… non ne valeva la pena.
– Ma ti pare che il camposanto sia mal tenuto? Viali pieni di erbacce, là in un mucchio di pietre, quei rosai neppure accomodati e quelle fosse, guarda piene d’acqua – Dio che indecenza!…
Una signora dice piano al marito: e che brutto odore, Antonio, andiamo via, sono annoiata, andiamo via.
Due signorine rosicchiano confetti e ridono di un monello che si lascia cadere sopra una mano le goccie di cera da una candela. Un’altra fa della poesia triste a braccetto dell’amante. Non manca il tradizionale poliziotto che invigila sulla tranquillità pubblica e il mariuolo che cerca di rubare una ghirlanda per rivenderla.
E tutti vanno e vengono e fermano a parlare, a ridere, a lanciare un motto, a criticare questa che fa tanto lusso di vesti, in quel giorno… quell’altra che deve saperla lunga perchè si asciuga le lacrime col fazzoletto.
– Non ti pare un’esagerazione? Sono almeno dieci anni da che è morto il marito… – Ipocrisie – dice l’altra.
Ma quell’angolo è deserto, neppure uno va a vedere quell’angolo di cimitero? – Ah già, neppure uno… Là non ci sono ghirlande da ammirare, nè nastri, nè epigrafe da leggere; là dormono i militari, i forestieri, i suicidi, sono quattro crocette grigie, rose dal tempo, quattro povere pietre numerate maculate dal muschio…
Dunque?…
Ma andiamo via, a momenti è notte e l’aria si fa fredda. L’appetito si incomincia a sentire e i maccheroni aspettano da mastro Beppe; andiamo, andiamo: un bicchiere di vino ci vuole dopo una giornata d’emozioni!…
Il recinto si sgombra, i cancelli si chiudono, le faci si spengono. La gente, allegra come è venuta, ritorna a casa o si ferma nelle osterie a mangiare e a bere.
Chi muore giace – Rodete, vermi, rodete…

II


La notte è calata, alto incombe il senso dell’oblio e della distruzione sul camposanto. Per l’aria greve è un sussurro indefinito d’alberi al vento, un misterioso sospiro d’amori passati, di gioie distrutte, un senno vago come di pace e di preghiera. Allora un fremito scuote la terra grassa, le tombe si scoperchiano, i morti si rianimano.
Dapprima è uno scricchiolio lugubre di ossa che si ricongiungono, poi uno scheletro sbuca, bianco nel sudario, orribile nel suo disfacimento, poi un altro e un altro ancora, poi tutti, uno ad uno, grandi, piccoli, sinistri nella notte. E una voce si sente sprezzante come un sogghigno, cupa come un muggito, una voce d’oltretomba…
– Profanatori! – dice – perchè venite a disturbare il nostro sonno? lasciateci in pace una buona volta, noi non vogliamo il vostro falso tributo d’amore, lasciateci in pace… E tu Anna, tu mi hai portato una corona di fiori di porcellana; sono belli i fiori, ma freddi come il tuo cuore! – Un’altra voce: guarda, i miei sono di latta verniciata… – E a me – soggiunge una terza – una ghirlanda formata da un lucchetto. Infatti è un risparmio, un dispendio di meno… Ah! me sembra di morire un’altra volta. – A me nulla – grida una voce stridula – neppure un fiore… Essa è venuta col nuovo marito ed era felice; ha riso tanto e se n’è andata; neppure un fiore…
– Stiamo meglio – urlano ad una voce quelli dell’angolo remoto; i dimenticati; senza fiori e nastri e ghirlande e lapidi pompose; stiamo meglio noi; la terra ci parrà più leggera!…
Nessuno più parla, gli scheletri rientrano, le tombe si richiudono, il sonno ricomincia.

Francesco Perri.

Tratto da: Corriere illustrato delle famiglie
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Nota della redazione. Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere Illustrato il 3 Novembre 1895. Da mie ricerche o trovato solo un Francesco Perri, nato il 1885, perciò questo articolo non deve essere suo, avendo all’epoca solo 10 anni.