La famiglia sventurata

di Emma Perodi

Questa novella di Emma Perodi mi ha coinvolto, ma qual’ è stata la delusione per il dramma finale, in sintonia falsata con la prima parte, e specialmente con il fine ultimo della vita, sopravvivere! Allorchè mi son promesso un finale diverso, non ho storpiato il racconto di Emma, ma solo eluso e aggiunto poche righe per non far dimenticare che la speranza è insita in tutti noi.

La cosa andò proprio così come ve la racconto. Non ho il vizio di ascoltare agli usci, di immischiarmi nei fatti degli altri, perchè mi pare un vizio molto brutto e indegno di una persona per bene, eppure le lamentazioni di lei e di lui le ho sentite con questi orecchi, senza che gli attori principali della scena sospettassero della mia presenza. Se avessero saputo, povera gente, che avevo sorpreso il segreto della loro miseria, chissà come avrebbero arrossito, come si sarebbero vergognati che un estraneo, un intruso fosse a parte delle loro pene! Io non ho per altro il rimorso di averlo fatto apposta: fu il caso, il caso soltanto che mi messe a parte di cose dispiacevoli, ma non disonoranti, oh, questo poi no! Anzi, a dirla francamente, mi pare che quella povera famiglia fosse degna di tutta la mia stima, e l’avrei soccorsa, l’avrei cavata d’impaccio se avessi potuto. Ecco come feci a udire il dialogo di quegli sventurati.

Da più mesi una mia vecchia amica mi pregava di andar da lei, in una sua villa, a passarvi alcuni giorni. Rimettevo quella gita di settimana in settimana, perchè, se devo dir la verità, mi allettava poco l’idea di quella vita rinchiusa e uniforme. L’amica mia, il gatto e una vecchia signora che teneva la casa, erano le tre sole persone che si vedessero in quella grande villa disabitata.
Non vi faccia specie se conto il caro Burchiello fra le persone, chè anzi dovrei annoverarlo fra i personaggi, tanto era importante la parte che rappresentava in quella casa. L’amica mia era pazza di Burchiello, la vecchia signora pure. Cosi non si sentiva pronunziare altro che il suo nome, non si vedevano quelle due buone creature occupate altro che di lui e premurose di rendere al grosso gatto soriano la vita comoda, piacevole e piana.

Non so se ci riuscissero, perchè Burchiello era uno di quei gatti che credono tutto gli sia dovuto, e non riconoscono mai quello che altri fa per loro. Forse era così di naturale, ma non potei accertarlo, non avndolo conosciuto da bambino. Credo peraltro che l’educazione avesse contribuito molto a renderlo egoista, sprezzante, sofistico, noiato di tutto, proprio come certi ragazzi che conosco, troppo accarezzati, troppo contentati dai genitori.

Mi sono dilungato molto a parlare di Burchiello, e non ho ancora finito. A tavola, per esempio, i bocconi più ghiotti erano per lui e non sempre li mangiava con gusto. Spesso non si accostava neppure al piatto pieno di rigaglie di pollo coperte di una salsa appetitosa, spesso sprezzava gli uccellini di becco fine, arrostiti a puntino da un cuoco, cacciatore a tempo avanzato, spesso con una zampata rovesciava per terra la tazza di crema fornita da certe mucche svizzere belle e grasse, una crema degna di figurare nel caffè di una regina. Erano estri, capricci, che volete, che si permettono soltanto le persone che hanno il superfluo.

Di questi capricci di Burchiello godeva la gattina del fattore, alla quale toccavano gli avanzi del gatto avvezzato male. Appena ebbi passato un giorno con la mia amica, mi accorsi che lo scialo in casa si faceva soltanto per Burchiello; per il resto della famiglia si osservava una economia stretta, una economia fino all’osso. La vecchia signora di compagnia, appena terminati i pasti, si alzava con un gran mazzo di chiavi in mano, e riponeva tutto in una dispensa: tutto, anche le croste di formaggio e i bocconcini di pane.

Quell’economia a cui era sottoposta pure la servitù, le conferiva un appetito così grande e costante da farle fare repulisti non solo delle pietanze che andavano in cucina, ma anche del pane che le era assegnato in capo al giorno. Così la sera si poteva morir di fame; a frugare in tutti i cassetti della credenza e nella madia non c’era nulla, proprio nulla, neppure un seccherello di pane.

Ora vi dirò come lo sapessi, non so che ingredienti avesse messi il cuoco in un certo pasticcio che venne in tavola a desinare, il fatto sta che la notte fui preso da atroci dolori di stomaco. Credevo di essere avvelenato e saltando il letto accesi un lume e andai nella stanza di pranzo per bere dell’olio, tanto ero convinto di aver preso veleno.
Ma sì! Cercare l’olio nella credenza era come cercare le mosche bianche. Nel traversare un’anticamera, il vento che circolava liberamente nelle scale mi spense il lume. Intanto io non avevo fiammiferi, ero poco pratico delle stanze e per quanto girassi di qua e di là non riuscii a ritrovare la camera mia. I dolori mi dilaniavano sempre lo stomaco e mi sedei sulla prima seggiola che trovai, e stavo lì aspettando che facesse giorno con impazienza, quando sentii una vocina che diceva:

– Credi, sono disperato! Per quanto abbia girato e rigirato dalla cucina alla stanza da pranzo, per quanto abbia frugato per utto, non sono riuscito a trovare neppure un crostino di pane.

– Povera me – rispondeva una vocina più flebile ancora. – sono sei ore che queste creature urlano fame. I loro gridi mi straziano. Mi farei a pezzetti per calmarle.

Quattro vocine deboli deboli gridavano: “Mamma abbiamo fame! Mamma, siamo digiuni.”

– Li senti? – diceva la seconda vocina. – E pensare che quel gattone grosso che non si degna neppure di darci la caccia, tanto ha sempre la pancia piena, sdegna di mangiare e butta via i più ghiotti e nutrienti bocconi che potrebbero mettere un po’ di carne addosso a questi nostri piccinucci stentati.

– Che vuoi, cara mia – rispondeva la prima vocina – siamo nati sfortunati, e per noi non c’è nulla che valga. Dal giorno poi che ci venne l’idea di ficcarci in quel sacco di farina e di venir qui…

– Pazienza, marito mio. Credevamo di far bene, di migliorare la situazione dei nostri bambini e invece…

– E’ vero. L’intenzione era buona e non abbiamo rimorsi davvero. Io m’impegno quanto posso per tirare avanti la famiglia, ma siamo capitati fra certi avari…

– C’è quella signora lunga, poi , che è peggio della padrona; quando la vedo mi si accappona la pelle.

– Non hai tutti i torti, ma non mormorare. E’ sempre brutto dir male della gente, e poi pensa che c’è chi ci ascolta.

– Hai ragione. Il cattivo esempio è terribile e proverei un grandissimo rimorso se potessi pensare che i nostri figli diventassero catti per colpa mia.

– Babbo, abbiamo fame! – gridavano le quattro vocine.

Intanto la luna che era nell’ultimo quato, mandava un raggio nella stanza. Quella poca luce bastò a farmi vedere chi era che parlava.

Le vocine non erano piccole davvero per uscire dai minuscoli corpicini di una famiglia di topi. Anzi, se penso che quei cari topini erano digiuni, sfiniti dalla fame, mi fa specie che conservassero tanta forza da parlare. La madre aveva dintorno i piccini, i padre le stava davanti in atteggiamento pensieroso e non dava a conoscere il suo dolore altro che dal soffiarsi spesso il naso con un gran fazzoletto. Scommetto che quel topino nascondeva il quel momento le lagrime.

Stette un momento soprapensiero, poi disse:

– Senti care moglie mia, sentite bimbi miei, io credo che per uscire da questa tremenda situazione, non ci sia che un mezzo, e io lo tenterò.

– E quale? domandarono madre e figli.

– Sono dolente di non potervelo dire.

– Allora nasconde un pericolo! esclamò la moglie.

– Un padre di famiglia non deve sgomentarsi dei pericoli quando si tratta del bene dei suoi figli.

– Babbo! – dissero in tuono supplichevole i piccini, e lo circondarono, mentre la moglie piangeva in silenzio.

– Volere che usi della mia autorià, dell’autorità di padre per lierarni da voi?
– Babbo! – ripeterono i topini.

Ma il padre non si lasciò commuovere dalle suppliche dei figli nè dalla lagrime della moglie. In un battibaleno era fuori dalla stanza mentre i suoi restavano sbigottiti a piangere e lamentarsi.

Approfittai del chiarore che mandava la luna nella stanza per seguire il topino. M’impietosivo tanto per le sventure di quella cara famiglia che non sentivo più i dolori di stomaco.

Seguii dunque il padre per alcune stanze finchè lo vidi fermare coraggiosamente davanti al sacco su cui Burchiello russava.

– Signor gatto – diceva umilmente il topino col tremito nella voce; – signor gatto, si degni di svegliarsi, ho da dirle due parole.

Il gatto continuava a russare. Sazio com’era aveva un sonno pesante come quello di un ghiro. Il topino gli si avvicinò, dette anche una grattatina al sofà, ma inutilmente, gli accarezzò la punta della coda.
Non l’avesse mai fatto! Burchiello si svegliò, sentì l’odore del topo e indignato che una bestiuccia come quella osasse disturbargli i sonni, lo guardò prima per un momento con certi occhi di fuoco, poi fece una mossa col capo, pronto come un baleno…

e azzannò il topino. Un minuto dopo l’infelice padre era gettato sdegnosamente pr terra e nel mondo c’erano quattro orfani di più. Burchiello riprese l’interrotto sonno senza curarsi del cadavere che giaceva dinanzi a lui.

Emma Perodi.

…cercò di azzannare il topino,

un secondo di ritardo e sarebbe morto, invece ora si trovava a penzolare con la codina fra il mio indice e il pollice sempre più in alto, nel tentativo di allontanarlo da Burchiello, che invece dopo il primo decente salto non riusciva manco a staccarsi da terra e cominciò a sospettare che le cose con me non sarebbero andate di com’era abituato, mi guardò incredulo, gli feci un gesto intimidatorio con la mano libera, capito l’antifona, si finse sdegnato e si ritirò sopra il suo cuscino, allora ritornai all’anticamera presso la famigliola, lì per lì non seppi cosa fare, ma il topino risolse la situazione, squittì e tutti cinque uscirono, lo feci vedere loro e m’incamminai verso la cucina dove sapevo c’era l’uscita che dava sull’aia, e come speravo mi seguirono,

Una luce rossastra proveniva dal ceppo di legno oramai quasi del tutto consunto, uscii piano nel cortile sempre attento a non perderli, giunto al fine presso il fienile e il granaio feci vedere al gruppo, che ora non vedevo, ma sapevo che era lì in qualche ombra, come lasciavo libero il padre-marito-topino, e tornai indietro.
Pochi passi appresso voci di squittii mi raggiunsero, la famiglia era di nuovo unita, avrebbero trovato la biada per gli animali e qualche secchio con la crosta del latte, e forse una nuova occasione di vita.

Una dolenzia leggera allo stomaco mi fece ritornare alla realtà,
– che diamine mi ha preso, mi dissi, capire la voce dei topi?
Chiusi di nuovo la porta della cucina.
– Devo essere ammattito,
provai ad accendere la candela soffiando sul ceppo del camino,
– è meglio che domani parta anch’io,
ritrovai la camera, era sì una notte magica, la finestra aperta della camera m’invitò, appoggiai le mani sul davanzale, la vecchia villa si stava spiegando al giorno ed era uno spettacolo antico e magnifico, diedi un’occhiata all’insù, la luna con un suo grande cratere pareva sorridere, c’era stato un testimone.

Tratto da google Libri
Giornale per i bambini
Tip. Bencini, 1884

La sua opera principale fu Le novelle della nonna, pubblicata fra il 1892 e il 1893, una raccolta di racconti fantastici ambientati nel Casentino, i quali, pur essendo destinati ai bambini, contengono temi inquietanti, goticheggianti, quasi horror, che sono apprezzabili appieno da lettori maturi. (wiki).