Una notte di Natale a Parigi

Di MAX NORDAU

Era la sera di Natale dell’anno 1874. Ci sospingeva lentamente innanzi la corrente umana che di continuo si accalca e si dirada sul largo marciapiede del boulevard des Italiens. Era appena possibile soffermarsi per qualche momento davanti alle vetrine splendidamente illuminate delle botteghe e volgere un’occhiata d’ammirazione sovra i diamanti, i bronzi e gli intagli di avorio che vi erano esposti.
Una bottega però attrasse troppo vivamente la nostra attenzione perché potessimo passarvi davanti degnandola soltanto di una occhiata alla sfuggita. Ci fermammo, e ciò produsse l’effetto di un pesante tronco d’albero che improvvisamente venga a cadere attraverso ad un ruscello.
A tutta prima fu un cozzo violento e tutt’intorno un mormorio stizzoso, uno schiamazzo di dispetto, poi a poco a poco la corrente si volse da una parte e descrisse una leggiera curva dintorno all’argine invalicabile.
Oh! le belle cosuccie che sorridevano da quella vetrina di pasticciere! Era un’esposizione di Natale, un vero paradiso pei fanciulli. Stivaletti da ussaro, carrozzelle per bimbi, bottigliette di champagne, granate, candelette accese, cagnolini ritti sulle zampe con un tovagliuolo intorno al collo, tutto in zucchero e preparato colla miglior grazia parigina; in mezzo poi a tutte quelle cianfrusaglie ed a quei balocchi francesi, si ergeva il bonario e semplice abete tedesco.
– È molto in uso l’albero di Natale nelle famiglie francesi? domandai al mio compagno, il signor G., uno degli architetti più noti a Parigi in questi ultimi tempi.
– Non credo, rispose, io però ho sempre avuto in casa mia l’arbre de Noël, per quanto ad esso si rannodi una delle mie più tristi ricordanze.
Dicendo queste parole si era fatto oscuro in viso ed un profondo sospiro gli usci dal petto. Continuammo il nostro cammino e dopo pochi passi entrammo nella rue du 4 septembre. Non volevo turbare i profondi pensieri dell’amico con domande curiose e poco delicate; perció camminammo per qualche tempo in silenzio l’uno accanto all’altro, e fu egli stesso che interruppe di proprio impulso il silenzio per raccontare la sua mesta istoria.
Quattro anni, cominciò a dire, sono trascorsi da quel terribile inverno, ma tutto mi è ancora così vivo dinnanzi all’anima come fosse accaduto ieri; i Prussiani avevano cinto la città come in un anello di ferro e la nostra esistenza diveniva sempre più difficile. Tutti conoscono oggi l’epopea di quell’assedio, dalla prima all’ultima strofa. Si cominciò a mandar via le «bocche inutili» e ad assicurare il necessario per quelli che erano rimasti; dapprima mangiammo carne di manzo, poi di cavallo, e dopo sei settimane il nostro nutrimento era fatto delle più incredibili cose. E come ciò non bastasse, un inverno rigidissimo quale non si era avuto da un decennio!
La Senna era gelata e sul lago del Bosco di Boulogne potevano passare pesantissimi carri. I nemici si erano comodamente e caldamente installati nelle nostre ville, tagliavano gli alberi dei boschi, dei viali e dei parchi, per non lasciar spegnere la fiamma nei camini e alimentavano i fuochi dei bivacchi coi nostri pianoforti e i nostri mobili intarsiati. Noi non avevamo boschi da tagliare, nè potevamo d’altronde deciderci altrettanto facilmente ad adoperare i pianoforti quale legna da ardere, come facevano gli assedianti. E nondimeno la mancanza di combustibile era ancor più sensibile della scarsezza del cibo.
Quanto era rimasto a Parigi di legna e di carbone veniva comperato dai ricchi a prezzi favolosi, e non solo i poveri, ma ben anche i cittadini delle classi agiate, erano obbligati a studiare in qual modo avrebbero potuto provvedere in tante strettezze. I proletari ci riuscivano senza troppa difficoltà.
Le nostre provvigioni di assenzio erano inesauribili, la sola cosa, pur troppo, della quale fossimo provvisti per mesi e per anni. Une goutte surroga completamente per l’operaio parigino il fuoco del camino ed il calore della stufa; ma che cosa dovevano fare le donne ed i fanciulli che non bevevano assenzio?
Per noi altri uomini la cosa riusciva relativamente meno dolorosa. Eravamo tutti soldati, occupati tutto il giorno ad esercizi militari in città od a scavi e costruzioni nelle fortificazioni; e questi lavori, ve lo posso assicurare, riscaldano per bene. Ma la sera, ritornando a casa, trovavamo la stanza fredda e triste come una camera mortuaria, il camino nero e spento, i fanciulli accovacciati sotto le coltri, la moglie avvolta in panni e mantelli; ci si porgeva una mano fredda, baciavamo labbra fredde che non conoscevano più il sorriso!

Intanto s’avvicinava la festa del Natale. Ho detto festa? Le sofferenze e le angustie erano omai giunte al colmo ed i nostri occhi vedevan continuamente scorrere troppo sangue perchè il color rosso potesse attrarre la nostra attenzione anche nel calendario. Poveri fanciulli! L’assedio toglieva anche ad essi le gioje pure ed innocenti della loro età. In quell’anno per essi Natale non venne; durante la prima settimana di Dicembre la mia Luigina mi domandò se i cattivi Prussiani non avrebbero lasciato entrare in cittá almeno San Nicolò e pochi giorni prima di Natale mi ripetè la stessa angosciosa domanda per il bambino Gesù.
L’una volta e l’altra le risposi di temere assai che in tali condizioni ne San Nicolò nè il bambino Gesù potessero giungere sino ai fanciulli che l’aspettavano, ma che però nel prossimo anno i bimbi sarebbero stati copiosamente risarciti. Luigia fece un visuccio piagnucoloso ed a stento si poté consolare; era già passato tanto tempo dall’ultima festa di Natale e la prossima non sarebbe certo venuta più presto! Ma non si sapeva che farci; né io né mia moglie avevamo l’animo disposto a preparare l’allegrezza del Natale alla povera fanciulla!
D’altra parte Luigia non era nemmeno in grado di godere di tale gioja. Era stata infermuccia tutto l’inverno e appunto alla vigilia di Natale la malattia nascosta scoppiò in modo da farci seriamente pensare. Luigia era tormentata da accessi convulsivi di tosse e da febbre. La mettemmo subito a letto e mandammo pel nostro medico. Mia moglie era allarmatissima ed anch’io attendevo ansiosamente la sentenza del dottore. Venne; ci salutammo in silenzio ed egli mosse al letto dell’ammalata.
Io e mia moglie osservavamo angosciosamente l’espressione del suo volto, seguivamo ogni suo sguardo tremando; osavamo appena respirare. Il dottore era un nostro vecchio e caro amico e Luigia si compiaceva assai di giuocare con lui, ma quel giorno non lo riconobbe neppure, lo respinse anzi colle manine quando egli allontanava i capegli dal di lei viso acceso per la febbre e quando le tastava il polso agitato.

– È da molto tempo che non vengo da voi, ma lo sapete bene, i numerosi feriti, i lazzaretti riboccanti… disse come per scusarsi guardando la piccola ammalata.
– Sicuro, sicuro, ma che cosa pensa di Luigia? Il dottore si sforzò di sorridere.
– Non sarebbe difficile il dare un buon consiglio! rispose, affettando di parlare alla buona; ma si vedeva che il suo dire non era punto naturale. Luigia è dimagrita notevolmente dall’ultima volta che l’ho vista. Bisognerebbe nutrirla meglio; in altre circostanze vi direi: datele del brodo di pollo, delle uova, non lasciatela uscire dalla camera calda, ma adesso…
– E il suo sguardo cadde sul pezzetto di pane che si trovava sulla tavola, quel pane che ci veniva passato dall’amministrazione e sul quale correva allora il triste scherzo che contenesse ogni cosa immaginabile, forse persino del grano.
– Del resto, continuo dopo una penosa pausa, a nutrirla meglio c’è tempo anche dopo l’assedio che non durerà in eterno. Ma quello che occorre immediatamente è del thé bollente, una tazza ogni due ore.
– Mia moglie mi volse un’occhiata di disperazione; «non ho nè legna nė carbone in casa» mi sussurro all’orecchio colle labbra tremanti. Nella stanza regnava un silenzio profondo, interrotto solo di quando in quando da un accesso di tosse della fanciulla. Oggi non so darmi un conto esatto di quanto io provassi in quel momento; so appena che avrei preferito esser morto. Il dottore ruppe per primo il silenzio; era grave, serio e disse:
– Il thè bollente è indispensabile; non avete legna, carbone… Neanche dello spirito?
– Mia moglie nel suo muto dolore fece segno di no col capo.
– Forse qualche vicina potrebbe avere…
– La stessa risposta.
– Allora non rimane altro che sacrificare qualche mobile, e presto, subito, poiché una buona tazza di thè caldo è indispensabile!
– Mi precipitai in cucina; non c’era più niente da bruciare; presi la scure e stavo già per fare in pezzi il pianoforte, l’istrumento prediletto di mia moglie, l’unico oggetto voluminoso e combustibile che fosse nella stanza, oltre un armadio a specchio, il quale avrebbe del resto dato ben poca legna.
Da quindici giorni si cucinava quasi esclusivamente con i mobili di casa e da quattro settimane non si riscaldavano più le stanze. Stavo dunque per colpire, quando mia moglie proruppe in un leggier grido e mi trattenne il braccio; poscia esclamando: «Ho trovato!» si precipitò fuori della camera.
– Forse qualche vicina era ancor tanto fortunata da posseder della legna? O credeva mia moglie di trovare aperto a quell’ora qualche negozio di carbone e di poterne avere? Non rimasi a lungo nell’incertezza. Dopo cinque minuti la porta si apri e mia moglie entrò raggiante di gioja, versando lagrime di riconoscenza e portando fra le braccia il grande albero di Natale dell’anno precedente, rimasto obliato dalla festa in poi in un angolo del solaio.
– Come rischiarato da un lampo, l’animo corse alla terribile antitesi fra il passato e la realtà del presente. Eccolo lo svelto e leggiadro abete, che appena a dodici mesi di distanza intervallo che sembra un attimo quando rivolgiamo lo sguardo indietro – formava il centro del poetico quadro d’una famiglia felice!
Si era nella stessa stanza; nel camino crepitava allegro il fuoco, intorno alla tavola saltavano e ballavano liete tre fanciulle; il padre e la madre, felici, sorridevano alla loro letizia; Luigia, come un angioletto, era vestita di bianco, un nastro di seta turchino fra le bionde ciocche, le braccia rotondette, le guancie pienotte, gli occhi oscuri splendenti di gioja, assieme a due sue coetanee da essa invitate alla festa. E tutte tripudiavano, esultavano come se un nimbo di angioli invisibili ridessero, gridassero e giocassero con esse, per riempire tutta la stanza d’allegria e di giubilo infantile.
Sulla tavola s’innalzava il magnifico albero di Natale e fra i suoi verdi rami luccicavano e scintillavano le piccole e variopinte candele, i frutti dorati, i soldatini di stagno, soldati in uniforme francese, inglese e prussiana! E noi quella sera scherzammo e giocammo allegramente, sin dopo mezzanotte, fino a che le fanciulle si addormentarono beate tenendosi strette in mano bambole e soldati dell’albero di Natale.

– Questo era dunque lo stesso albero di Natale disseccato, inaridito, polveroso, ingiallito, con alcuni rami schiantati e disordinatamente penzolanti in giù; invece di mele dorate e di dolci, lunghe ragnatele. La stanza era fredda, il fuoco spento e Luigina giaceva a letto colle sottili braccia dimagrite, il volto allungato, rosso per la febbre, tossendo penosamente.
– La mamma, entrando, aveva ridestata la sua attenzione: pareva alquanto rianimata. Vide l’albero di Natale e battè allegramente le manine «Oh ! l’arbre de noël, le joli arbre de noël!» esclamò con voce fioca. Poi pregò in modo commovente la mamma di accendere le piccole candele e di attaccarvi le mele d’oro e i soldatini ma non i Prussiani e di chiamar poscia anche Mimi e Lolotte; ella era stata savia e voleva essere savia anche in avvenire, sempre molto savia.
– In quel momento fui sul punto di commettere una viltà, di uscir fuori nella notte, in istrada, agli avamposti, pur di non assistere più a lungo a quel martirio; desideravo che una bomba cadesse sulla casa e ponesse fine a tutto! Ma no; in quella notte non caddero bombe; anche i nemici, al di fuori, celebravano la festa di Natale. Mi feci a poco a poco coraggio e mentre mia moglie stava seduta sulla sponda del letto con un braccio attorno al collo della figliuoletta sussurrandole delle canzoni, accarezzandola e calmandola, con mano tremante io faceva in pezzi l’albero di Natale e accendevo il fuoco nel camino.
– I rami secchi crepitavano, scoppiettavano, divampavano; un grato odore di resina si spargeva per la stanza e l’acqua cominciò presto a gorgogliare ed a bollire nel pentolino di latta. Il dottore se n’era andato via; mia moglie sussurrava ancora parole carezzevoli e dolci promesse alla fanciullina : io fissando la fiamma ed allestendo il thè, pensavo fra me stesso: Ti ringrazio, albero benedetto, che una volta hai reso beata la mia bimba e che ora la guarisci! Ma ahimè! L’albero di Natale non ha guarito Luigia, e da allora in poi in casa mia non ve ne fu più alcuno… perché Luigia era la mia unica figliuola.

Fra lingue e letterature straniere – 1896
Di Romeo Lovera

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Max Nordau (nato il 29 luglio 1849 come Maximilian Simon Südfeld a Pest, Impero austriaco; † 22 gennaio 1923 a Parigi) era un medico, scrittore, politico e co-fondatore dell’Organizzazione sionista mondiale.

Con la capitolazione di Sedan, gli eserciti prussiani ei loro alleati invasero il nord della Francia e assediarono Parigi – L’assedio di Parigi si svolse dal 19 settembre 1870 al 28 gennaio 1871 e terminò con la presa della città da parte delle forze dei vari stati della Confederazione della Germania settentrionale, guidate dal Regno di Prussia. (wiki)