La Befana

(Alle mie bimbe LIANA, Egloge e NINI)

– L’hai vista tu?
– La befana? esclamò la mamma. Ah. . . . io non ci starei davvero ad aspettarla con gli occhi aperti. Quand’ero bimba, appena a letto, mi rannicchiavo colla testa sotto le coltri. Sai? Non dicevo nulla; ma il cuore mi batteva forte forte. La Befana è una brutta vecchia, nera, col naso adunco, il mento aguzzo, gli occhi come quelli della civetta. Quando entra nella camera i suoi occhi luccicano, e guai a guardarla! In compenso è buona assai, e vuol bene ai bravi bambini. Viene dopo la mezzanotte: ha una chiave che apre tutte le porte: entra e gira per la casa.
– E nessuno si sveglia? domandò la bimba che ascoltava attenta, ansiosa, presa da una specie di timor vago.
– Nessuno, nessuno. E chi li può avvertire i suoi passi? Ha le scarpe di feltro, e posa appena il piede sul pavimento. Ha sul braccio una gran borsa, in cui sono riposte le belle cose che regala alle bimbe. Vi fruga in silenzio, piglia quello che vuole lasciare, e se ne va così piano, che nessuna bimba si è mai svegliata.
In quel punto, Enrichetta che leggeva con la testina appoggiata alle due mani, e i gomiti puntellati sulla tavola, alzò il capo e guardò la sorellina, che la mamma, durante la breve conversazione, aveva spogliata e ora andava a mettere a letto nella stanzetta vicina.
– Buona sera, Rico, disse la bimba, sta allegro, la befana sarà più buona del Bambino: lascierà qualcosa anche a te. È vero, mamma, che anche a Rico la Befana lascierà qual cosa?
– Rico è cattivo disse la mamma bruscamente, facendosi scura in faccia, ed entrando nella stanzetta, senza neppur volgersi a guardare il fanciullo. – É cattivo! Per questo la Befana non gli lascerà nulla, come non gli ha lasciato nulla il Bambino.
I due bimbi tacquero, commossi entrambi da uno stesso dolore. Nini si lasciò mettere a letto; senti che la mamma la baciava sulla fronte, e chiuse gli occhi….. senza dormire però. Non pensava più alla Befana. Pensava a Rico, al suo fratellino. – Rico è cattivo! aveva detto la mamma – Rico è cattivo! E infatti a lei il Bambino aveva lasciato una bambola, un panierino di ninnoli, una scatola di dolci; a Rico nulla, e ora la Befana farebbe altrettanto. L’aveva detto la mamma. Ella tendeva l’orecchio per ascoltare se Rico piangesse. No, Rico non piangeva. Mandava però di tratto in tratto de’ sospironi, seduto sempre nel salotto, allo stesso posto, in capo alla tavola, col libro davanti. Ella lo vedeva benissimo, dal suo letticciuolo, per la porta aperta. Rico dormiva là, nel salottino. Stendevano un materassino sul sofà, vi mettevano su un lenzuolo ripiegato in due, una vecchia coltre, e quello era il letto.
Per sentir più caldo, egli aggiungeva da sè alla coltre, il proprio vestito; ma tanto non si riscaldava così presto, e ogni volta si coricava, per un bel pezzo batteva i denti dal freddo. Ma non diceva nulla, non fiatava. Una sera in cui l’aveva udito singhiozzare, la mamma s’era affrettata a farlo chetare con una vociaccia Rico è cattivo! Ebbene, pensandoci, Nini trovava di essere molto più cattiva lei. Ma si vede che il Bambino e la Befana, capiscono le cose al rovescio. Rico cattivo! Lui che era sempre là nel suo cantuccio di salotto, e seduto alla tavola, scarabocchiando sul quaderno, o leggendo sul libriccino della scuola.
E i giuocattoli se li faceva da sė, con la creta raccolta sul margine dei ruscelli, con pezzi di canna, con fusti di ferula. Se li faceva da sè, e la mamma glieli buttava via, dicendo che tutte quelle ciarpe, que’ tritumi di roba le insudiciavano la casa. Lui la guardava co’ suoi grandi occhioni aperti: poi chinava il capo e metteva dal petto un sospiro, come un piccolo uomo che ha di gran dispiaceri, ma li sa ben sopportare con coraggio.
Su qualche foglietto di carta, ritagliava con le forbici delle lunghe file di bambocci, di pupazzetti: soldati che riuscivano con due fucili bambole dal gonnellino corto come ballerine. Quelli erano per Nini; e Nini ne aveva oramai tante delle figurine di tutti colori! Il fanciullo ritagliava per lei i santini che i compagni gli regalavano alla scuola, le vignette dei libri vecchi, le figure delle carte da giuoco.
Quando aveva qualche cosa, era tanto felice di portarla a Nini; non teneva nulla per sè, proprio nulla. Per Nini, con certi pezzi di cartoncino, aveva fabbricato una casa per la bambola, una casa completa, con tre stanze e la cucina, tutte mobiliate con mobili di carta, di canna e di ferula, che era una bellezza vedere.
Lei aveva due bei vestitini, e a Natale il Bambino Gesù, insieme coi giuocattoli, le aveva portato un cappellino di feltro bianco. Aveva il cappottino foderato di flanella, i guanti di lana fine e un piccolo manicotto. Rico, niente. Rico sempre con quel vestitino lustro, logoro ai gomiti e ai ginocchi, le scarpe spuntate, con due pezzi di spago, invece di legacciuoli, un berrettino di panno tinto e spelato.

Che pena, quando il piccino tornava da scuola, col nasino e le manine rosse! Ma non faceva nulla. Egli non si lamentava. Si soffiava sulla punta delle dita per riscaldarle, picchiava i piedi sul pavimento, correndo intorno alla tavola del salotto, e cosi non aveva più freddo. E Rico faceva tutti i piccoli servizii di casa: andava a comperare l’olio, il vino, il pane, col suo canestro della spesa sotto il braccio, come un servitorello giudizioso. Una volta aveva perduto due centesimi, si, una piccola monetina da due centesimi, avuta in resto di una lira dal bottegaio, insieme con degli altri soldi. Ebbene, la mamma non aveva proprio voluto credere che li avesse perduti. Di faccia alla bottega da cui era uscito, ci era il bruciataio: ed egli uon aveva saputo resistere all’odore delle caldaroste! Il bimbo con la mano sul petto, come un piccolo uomo d’onore, aveva giurato che non era cosi. Egli non avrebbe messo in bocca una castagna, senza portare la sua parte a Nini.
Si, le caldaroste del bruciataio lo avevano tentato, sapevano odore cosi buono! Ma non per tutto l’oro del mondo, preso quei due centesimi alla mamma. Ah, se glie li avesse regalati, sarebbe stata un’altra cosa! Ma la mamma non gli regalava mai nulla.
La mamma cosi bella, con quella bocca che sorrideva sempre, con quella dolcezza negli occhi neri, profondi che dicevano tante cose, era sempre arcigna, adirata con lui, non gli rivolgeva mai una buona parola, non gli dava mai un bacio, non gli faceva una carezza. E assolutamente non gli aveva voluto credere: lo aveva anzi picchiato per la bugia, e temuto col pan solo a desinare. È vero che Nini, di nascosto, gli aveva portato un pezzetto di carne e una mela, che egli aveva dovuto accettare per non offendere la bambina: ma che gl’importava del companatico? Come si può mangiare, quando si ha il cuore gonfio per un cosi gran dispiacere?
E Nini, nel suo letticciuolo, mentre Rico a testa china continuava a leggere con la piccola testa arruffata tra le mani, ripensava a tutte queste cose, non sapendo capacitarsi come la Mamma, il Bambino Gesù e la Befana, tutti e tre d’accordo, sostenessero che il povero Rico era cattivo. Ella gli aveva pur dato una parte dei regali avuti dal Bambino per Natale, ma Rico non si era consolato per questo. Il povero piccino, col capo nascosto fra le coltri scomposte del suo letto posticcio, mordeva le lenzuola quella mattina, per non far udire i singhiozzi. Il babbo era tornato alle nove, secondo il solito, affaticato, ed era andato a dormire. Egli non si era neppur curato di cercare il piccolo Rico. La mamma gli aveva sollevato dinanzi Nini fra le braccia, perchè potesse baciarla, e dei regali del Bambino, nessuno aveva parlato.

Il babbo era molto stanco e anche molto triste. Faceva il conduttore della ferrovia. Tutte le notti era in servizio: stava a casa poche ore: non parlava quasi mai, e non aveva un sorriso sulle labbra. Qualche volta, raramente, si trovava a cena con loro. Allora Nini gli si arrampicava sulle ginocchia: ma Rico rimaneva al suo posto, melanconico, silenzioso coi capelli troppo lunghi e spettinati che gli coprivano la fronte e il collo, col visetto e le mani un po’ sudicie, il giubbetto scucito, con qualche bottone mancante, o qualche altro che ciondolava per un filo. Pareva si studiasse di non guardarlo, e il piccino rimaneva li in disparte, rimpicciolendosi anche più, come per nascondersi meglio, abituato oramai a quella dimenticanza in cui lo lasciavano.
Nini era impensierita assolutamente, e distesa nel tiepido letticciuolo, fantasticava, fantasticava, non avendo punto voglia di dormire. La mamma andava e veniva, dava sesto alle masserizie di casa. Poi la bimba vide buttare il solito materassino sul sofà, stendendovi su il lenzuolo piegato in due, che aveva un largo strappo nel mezzo, e la coltre molto logora anch’essa. Quando la cuccia fu pronta, la mamma disse a Rico:
– Su… a letto:
Il piccino chiuse il libro, scivolò dalla seggiola, si avvicinò alla sua cuccetta… Nini non vide più altro, perchè la mamma aveva portato via il lume, dopo essersi venuta ad assicurare che lei fosse addormentata. Senza saper neppure il perchè, la bimba aveva chiuso gli occhi, e fatte le viste di dormire. Cosi la mamma si era chinata a baciarle sulla fronte lieve lieve, e se n’era andata in camera sua.
Il salotto rimaneva ancora un po’ rischiarato dal lampione della strada, la cui luce vi penetrava attraverso l’invetriata della finestra. In quella penombra Nini distinse il fratellino che saliva sul sofà, e si rannicchiava sotto la povera coltre.
Perché la mamma non vuol bene a Rico e lo chiama cattivo?
La bimba, con la candida fronte un po’ corrugata, si volgeva dentro di sè questa domanda: No, no, era buono Rico, e lei sentiva nel suo piccolo cuore una pietà profonda, un affetto vivo, per quell’animo che soffriva senza lamentarsi, che pareva felice della sua felicità, che non si stancava mai di ritagliarle figurine e pupazzetti, di costruirle mobili e utensili per la casa della bambola, col sughero, le canne e i fusti della ferula. Era buono, era caro il piccolo Rico.
Quando era più piccina, la mamma gli diceva: «Rico, tu bada alla Nini.» Che orgoglio, che contentezza, per quel monelluccio, far da guardiano alla sorellina! La portava in collo, la faceva passeggiare su e giù per la casa, atteggiava il viso a certe smorfie graziose por tenerla allegra, per farla ridere. E ora, non avendo mai un balocco per sè, guardava senza invidia i giocattoli di lei, le fabbricava delle graziose scatole di carta, per custodirvi le bambole e il loro corredo.
Quando non lavorava per lei, era sempre seduto innanzi a quella tavola, a leggere o a scarabocchiare sul quaderno. Ella che da un anno andava a scuola, aveva imparato a leggere sui quaderni di Rico. Spesso egli empiva delle pagine, scrivendovi su dalla prima all’ultima riga:

Nini è bella. – Nini è buona. io voglio bene a Nini.

Queste dolci espressioni erano ripetute sulla copertina e sul frontispizio dei libri, nel quaderno d’aritmetica, dopo una sfilata di addizioni e sottrazioni – in quello dei compiti, dopo ogni lavoruccio di scuola, tra una letterina e un dettato, fra una traccia di raccontino o una poesia. E Nini quella sera aveva formato un disegno ardito. Ella fingerebbe di dormire; ma in verità starebbe desta, per aspettare la Befana. La Befana, aveva detto la mamma, è una brutta vecchia, ma vuol bene ai bambini. E bisogna che voglia loro bene davvero, se viene cosi di lontano per distribuire i suoi regali: se fa tanta strada per questo . . . . Ebbene, l’aspetterebbe desta, per domandarle in che modo portasse il regalo a lei e niento a Rico. Si spaventava un po’ a dir vero, nell’idea di vederla apparire . . . . «col naso adunco, il mento aguzzo, gli occhi come quelli della civetta» e tutta vestita di nero. Come entra nelle case la Befana? La mamma lo aveva detto che ella ha le chiavi di tutte le porte; ma si ricordava d’aver anche udito raccontare che scende per le cappe dei camini, e nel ricordar questo le pareva di udire un fruscio indistinto dalla parte della cucina, come un suono cupo della catena appesa al disopra del focolare, quasi alcuno l’agitasse passando.
Allora trattenne il respiro, fissando coraggiosamente la porta della cameretta, aspettando di vedere la sua ombra apparire da un momento all’altro, nel vano di essa. Già la Befana non le farebbe del male, se la trovasse desta: ed ella poi la pregherebbe con tanto fervore: – «Buona Befana, buona Befana che vai di notte a far felici i bambini, lancia un regalo pel povero Rico. lo t’assicuro che la mamma sbaglia, quando ripete che egli è cattivo. Lascia, buona Befana, un regalo anche a Rico, che vuol tanto bene a Nini».

– E oramai ella era preparata alla sua apparizione, per quanto spaventosa. Che colpa ne aveva, la buona vecchia, se i suoi occhi splendevano nell’oscurità, come quelli di una civetta? A lei bastava che Rico fosse contento. Se la Befana gli lasciasse un regalo, anche la mamma finirebbe per non trovarlo più cattivo come prima, e gli vorrebbe un po’ di bene.
Rico dormiva con la testina arruffata sotto le lenzuola mentre la bimba invocava immagini su immagini, per distrarsi e rimanere desta. Ella veniva fin raccontando a se stessa, piano, la bella fiaba della Fata Turchina, cosi come l’aveva udita dalla mamma; e Rico dormiva. Egli si era riscaldato presto, quella sera, nella sua cuccetta: dormiva e sognava. Si era assopito pensando alla Befana, che in quella notte avrebbe attraversato la casa, e sarebbe passata innanzi al suo lettuccio posticcio, senza fermarsi. Nini aveva appeso le lunghe calze di lana alla colonnina del letto: egli no. – Era inutile, tanto la mamma aveva detto che non ci sarebbe nulla per lui, ed era pure stato cosi, anche la notte del Natale, benchè egli avesse voluto tentare la prova. Del resto, era giusto. Nini aveva sette anni; lui, camminava già per nove: era una personuccia seria, un piccolo omino. Gli è ben vero, che anche gli altri anni, Bambino e Befana erano passati senza lasciargli nulla: ma aveva finito per farsi una ragione. Il Bambino e la Befana, in certi anni, son poveri, e allora i regalucci toccano proprio ai bimbi più buoni. Vero è, che se facessero le parti più piccine e contentassero tutti, non ci sarebbe nulla di male: ma essi hanno le loro idee. Sono ben padroni di regalare la roba loro a chi vogliono!

Rico dormiva e Nini lottava col sonno. Le sue palpebre si appesantivano, il suo respiro si faceva uniforme. Ella, non volendo lasciarsi sorprendere cosi, con una piccola scossa del capo tornava a destarsi, spalancava gli occhi, cercava il filo della sua storia interrotta: con uno sforzo della volontà, si ostinava a tener ferma la sua attenzione sulle figure fantastiche della vecchia storia; ma una volta, tra il sonno e la veglia, le parve di udire presso il letticciuolo un fruscio strano, lungo: senti come un respiro caldo, l’impressione di due labbra che si posassero sulla sua fronte… Si agitò tutta, fece uno sforzo, aprì gli occhi, e vide….. vide come una grande ombra silenziosa dileguarsi sulla parete. Ah… ella si era lasciata cogliere dal sonno, e la Befana aveva profittato di quel momento! Puntelló una manina sul letto, e volse attorno l’occhio ansioso. Alla testiera del letto pendevano due grandi filze di marronsecchi e due di noccioli; la calza ricolma dondolava ancora, e accanto alla calza c’era un vestitino nuovo. La bimba giunse le manine, accorata.
E Rico: domando a sè stessa. La Befana è venuta, ed io me la sono lasciata sfuggire, senza dirle nulla.
Con le orecchie tese stette ancora in ascolto. Le parea di udire il fruscio prodotto dalle vesti della vecchia visitatrice che si allontanava, e il suono cupo della catena dondolante sul focolare, per l’urto che ella vi aveva impresso passando.
La bimba, gettate le coltri da un lato, scivolò lungo la proda del letto, coi candidi piedini nudi sul pavimento, attraversò la stanzetta, ed entrata nel salotto attiguo, si avvicinò al sofà dove Ricuccio dormiva, avvoltolato nella coltre, sul suo materassino. Appoggiò cautamente la manina a quel lettino posticcio, e guardò intorno, trattenendo il respiro. No, per Ricuccio la Befana non aveva lasciato proprio nulla! La piccola donnina abbassó le palpebre, e si serrò le mani sul cuore, in atteggiamento di compunzione dolorosa: ma sorrise tosto maliziosamente, e sulla punta dei piedini tornò al proprio letticiuolo. Ah sì? La Befana lo aveva dimenticato?
Tanto meglio, ella dividerebbe con fratellino. Tolse dalla testiera una filza di marronsecchi e una di nocciole, distaccò la calza e la rovesciò sul letticciolo. I suoi occhietti vedevano benissimo nella poca luce che veniva per la finestra del salotto attiguo. Ci era un piccolo necessaire da lavoro, che la piccina mise da parte per se. Ma ecco, subito dopo, un portamonete con parecchie belle lire nuove e luccicanti, e un’infinità di confetti, grossi confettoni colorati, di tutte le forme, fatti a cuore, a pallottole, a ciambella.
Ella raccolse la camicina a mò di grembiale sostenuto per le due cocche, e vi pose le due filza di frutta secche, il portamonete e alcune manciate di quei confetti.
Cosi tornò accanto al piccolo Rico addormentato; sali sul sofà, inginocchiandosi ai piedi del materassino, e tutta seria, adagio, riempi di confetti la prima calza del fratellino che le venne tra mano: pone sui confetti il portamonete, spinse pian piano la calza accanto al visetto del bimbo, appese le filze di castagne e di nocciuole alla spalliera del sofà, e ristette a contemplare il festoso apparato, con la compiacenza di una mammina innamorata, che pensa alla sorpresa con cui il figlioletto svegliandosi, accoglierà dono inaspettato.

Ma proprio allora, due ombre si distaccarono dalla parete. Era entrato poco prima il babbo, quasi di furto. Il fruscio udito da Nini era quello dei suoi passi: il suono ferreo, che le era sembrato della catena pendente sul focolare, non era che lo stridio della chiave nella toppa. Si era fermato sulla soglia: aveva veduto. Quante notti, innanzi di partire col primo treno, egli non saliva in casa a quel modo, quasi di furto, senza che alcuno lo scorgesse, senza che alcuno lo udisse. Veniva a inginocchiarsi accanto a Rico addormentato, lo baciava silenziosamente sulla fronte, poi nascondeva la faccia tra le povere coltri che lo coprivano, e piangeva, piangeva in silenzio, soffocando i singhiozzi, perchè sua moglie addormentata non l’udisse, non lo sorprendesse li in quel modo.
Anche la notte di Natale era venuto. Il bimbo dormiva senza i doni del Bambino Gesù accanto, ma egli non aveva mancato di portargli i suoi baci, tutti quei baci che avrebbe voluto dargli ogni volta entrava in casa, quando invece volgeva duramente lo sguardo altrove, fingendo di non vedere il povero bimbo, anche se questi lo salutava con la sua vocina gentile: Ob….. babbo, babbo!
Gli è che sua moglie, appena egli fermava lo sguardo sul piccino, si faceva scura in volto, e ne’ suoi occhi balenavano lampi di odio. Se avesse mostrato di amarlo quanto sentiva, se ne sarebbe vendicata maltrattandolo, ed egli avrebbe dovuto scegliere: o il bimbo, o lei e non ne aveva la forza, non poteva rinunciare a quella donna, che una strana gelosia rendeva cattiva, ma che pure gli voleva bene, ed era la madre della sua Nini.

Quando l’aveva conosciuta, si era mostrata così buona! il piccolo Rico allora era a balia, ed erano andati insieme tutti e due a vederlo. Il bimbo aveva un anno, e da un anno era orfano. La sua nascita aveva costato la vita alla madre, una bella donnina pallida, bionda, che aveva lo stesso nome, Enrica, e a cui il piccino somigliava tanto;
– Non è vero che gli vorrai bene? «Egli le aveva domandato – Non è vero, che gli vorrai bene come se fosse tuo?»
Ed ella promise: si chinò a baciare quel bimbo addormentato nella culla, come per dare alla sua promessa la santità di un giuramento.
Ebbene, era stato più forte di lei. Il marito, non glie lo aveva detto che Rico somigliava a sua madre; ma essa lo sentiva, e una strana, odiosa gelosia la invadeva. Sarebbe stato capace di ucciderlo, quel bimbo, perchè le ricordava le carezze, i baci dati da suo padre a un’altra donna, a una altra moglie …… che l’aveva preceduta in quella casa, che vi aveva lasciata l’ombra di sè, l’eco della propria voce. Il solo modo per temperare il suo odio era stato quello di fingersi fredda, indifferente, contentarsi che il bimbo crescesse dimenticato, senza baci, senza tenerezze, perché ella non incrudelisse contro di lui in sua assenza, e per non essere obbligato a separarsi dalla moglie, giacchè egli non poteva vivere senza di lei e il solo pensiero di una tale separazione gli metteva nel sangue vampate di febbre, lacerava il suo cuore. Si sentiva debole, vile. Aveva paura di quella donna; veniva di furto, a guisa di un ladro, a baciare il piccino addormentato, e fuggiva pauroso che ella, all’indomani, indovinasse, ritrovando con l’occhio scrutatore, sulle gote di lui, l’impronta di quei baci. Il bimbo ignorava tutto questo dramma che gli fremeva intorno: e Nini aveva ragione di chiedere in che modo la sua mamma, cosi buona, non volesse bene a Rico.

La mamma di Nini, essa pure si era affacciata sulla soglia: Dopo aver colmato di buone cose la calza della bimba, dopo aver appeso alla testiera del letticciuolo la filza di marronsecchi e di nocciole e alla colonnina il vestitino nuovo, nel rientrare in camera per coricarsi, aveva udito il rumore dello svegliarsi di Nini, era tornata indietro, muta e triste, aveva spiato la bimba senza osare d’interromperla. Un’onda di commozione aveva sciolto il gelo del suo odio. Ella non volgeva più in mente che un solo pensiero: la sua bambina aveva reso a quel piccolo diseredato, ciò che ella gli aveva tolto. Quelle due innocenze si erano comprese.
Così il conduttore e la sua donna, pallidi entrambi, commossi, col volto bagnato di lacrime, si trovarono l’uno in faccia all’altro. Egli non aveva forza di parlare; le sue labbra fremevano; le sue lacrime roventi gocciolavano sul pavimento, dopo aver solcato le guancie.
Ma sua moglie trovò la parola che abbisognava alla sua povera anima addolorata, Ella si chinò su Rico addormentato, e per la prima volta lo strinse tra le braccia con tanta effusione, lo bació sulle labbra con tanto affetto, che il piccino si destò.
– Rico! Rico! esclamò Nini, che il suo babbo aveva preso in collo, e di cui comprimeva contro la propria guancia la bionda testina – questa volta la Befana è venuta anche per te!
E volgendosi alla mamma soggiunse:
– È buono Rico, mamma: è bello Rico, é vero?
La mamma non rispose. Ella singhiozzava.

I. Bencivenni

Tratto da: Il Nuovo Educatore Rivista settimanale dell’Istruzione Primaria

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