LA PESTE A VENEZIA DEL 1575

F. ZANOTTO

Una delle pestilenze che più desolarono Venezia, fu quella che durò dal primo agosto 1575 al 21 luglio 1577; e la singolarità dei casi, le provvidenze prese da quella saggia Repubblica, e lo splendido voto, che essa fece, per la liberazione, meritano di trovar luogo nelle pagine di questo Emporio, in cui si proponemmo d’illustrar tratto tratto la storia e le arti patrie. Quella di essa peste la traemmo dalle cronache sincrone e dalle Memorie originali di Cornelio Morello, ufficiale del Magistrato della Sanità, intitolata appunto: Relazione della Peste in Venezia del 1575, dedicata da lui il primo marzo 1584 al doge Nicolò da Ponte.

Racconta egli adunque, che il dì 25 giugno 1575 perveniva da Val Sugana a Venezia un cotale di patria trentino; e portatosi ad alloggiare in casa di un Francesco, nella parrocchia di S. Marciliano, moriva il 2 del susseguente luglio.

Tumulato senza alcun riguardo igenico, perchè niun sospetto avea dato di morbo contagioso, accadde, che pochi dì appresso morirono in quella medesima casa tre femmine, che assistito lo avevano nella sua breve malattia. – Perlochè accorsi i medici del comune, chiamati dal caso inopinato, ed esaminati attentamente i cadaveri delle morte donne, giudicarono essere elleno state colpite dall’asiatico morbo.

Si diedero tosto disposizioni le più valide per impedire la diffusione del flagello; ma fatalmente, durante e dopo la malaltia del forastiere, eransi vendute le di lui vesti a più d’un rigattiere; per lo che irruppe in un medesimo tempo il contagio in varii luoghi della città.

Non è a dirsi la strage che fece ad un tratto il dirò morbo. Non valsero provvedimenti, non lazzaretti, non fuochi per la città, la quale divenuta era una spelonca. – Si notò che il morbo non aveva che il breve stadio di quattro giorni, in capo ai quali il malato periva.
Nessuna peste in Venezia, innanzi a questa, mietè tante vittime, e soltanto fu superato il numero dalla posteriore del 1630.

Tutti i mezzi usati da principio per arrestare la propagazione del morbo poco o nulla valsero, come dicemmo. Ma non per questo lasciarono i padri di escogitare ogni modo a porvi riparo. Da altre storie e cronache contemporanee ricaviamo, che non bastando all’isolamento dei malati l’isola del Lazzaretto quell’altra si scelse, situata presso al lido, di Sant’ Erasmo, detta di S.ta Maria in Nazaret, che fino dal 1458 ridotta erasi a Lazzaretto per lo espurgo delle merci, e pel ricovero delle milizie soggette a contumacia. Fu allora che appellossi Lazzaretto nuovo, per distinguerla dalla prima accennata, che assunse allora il nome di Lazzaretto vecchio.
Ora adunque, nella scelta isola, menato veniva chiunque fosse caduto in sospetto di essere tocco dal morbo. – Se non avea di per sè modo bastevole di mantenersi, alimentato era per ventidue giorni a pubbliche spese; durante i quali, se manifestavasi il morbo, traducevasi il malato al Lazzaretto vecchio. In caso diverso, trascorso quel tempo, potea ritornare alla propria casa.

Così di mano in mano la popolazione di Venezia passò nell’isola del Lazzaretto nuovo, e nel vicino lido di Sant’Erasmo. Nell’ una e nell’ altro vennero costrutte ampie case di legno: ma siccome neppur queste bastarono al bisogno, si dispose intorno a quelle acque varie galee sfornite, ed alcune grosse navi spalmate, sopra le quali altre case di legno costrussersi. Nell’ alto di un vascello, posto come vedetta, fu inalberata una bandiera, oltre la quale non era lecito il varco; e poco stante piantate aveansi le forche, pel pronto gastigo dei trasgressori.

Tremila e più persone erano quivi accolte, alle quali se aggiungansi il novero dei servienti, quel dei ministri e l’altro della milizia, da otto a nove mila persone ogni giorno saliva il totale di quei che venivano alimentati dalla Repubblica, durante quella calamità. Magazzini immensi di vettovaglie e di medicine; sacerdoti, professori dell’ arte igenica, farmacisti, mammane, in somma quanto era necessario, tutto aveavi colà pronto e ministrato con ordine mirabilissimo. – Al romper dell’ alba giungevano i visitatori, che, scorrendo l’isola, il lido e la flotta, informavansi minutamente sullo stato di ciascheduno, per ordinare, al caso, il trasferimento dei colpiti dalla lue al vecchio Lazzaretto. – Poco appresso sopravvenivano altre barche cariche di ogni maniera di commestibili per essere dispensati in ragione di quattordici soldi per bocca. – A queste, nuove barche succedevansi coll’ acqua, tolta dal Sile; e sorto già il sole tutto mettevasi in quiete, perchè in mezzo al lido celebravasi la santa Messa, a vista della flotta e dell’isola. – Sul declinare del giorno, le turbe, divise in due cori, facevano echeggiare ogni spiaggia col canto delle salmodie e delle litanie minori; e, surta la notte, dominava per ogni dove il silenzio, non essendo concesso romore alcuno anche il più lieve. Di che si stupivano i nostrali e gli stranieri, e commossi rimaneano alla disciplina e alla polizia osservate in quella occasione funesta. – Di là dal Lido poi vedevasi il mare seminato di navigli, che dall’Istria e dalla Dalmazia recavano vettovaglie d’ogni maniera ed immensa quantità di ginepro. – Quest’ ultimo raccolto in grandi pire, di e notte facevasi ardere sul lido, spargendo l’odoroso suo fumo a grande distanza sulla laguna e sul mare.

Era però conceduto a certe ore del giorno, sì a’ parenti che agli amici, il recarsi a’ loro congiunti e conoscenti, discorrer da lungi e regalarli di vivande e rinfreschi. – Tale dolcezza meglio avvivavasi pegli applausi fatti al sopravvenire di coloro che assumevano i posti de’ licenziati, o de’ trasferiti agli spedali. – Ciascun giorno ne giungevano da 50 a 60 barche; ed i nuovi ospiti sentivano le proteste della felicità provata in quel luogo, e le benedizioni inviate alla Repubblica, che così sapientemente e largamente avea provveduto al ben essere de’ cittadini.

Nella città poi, come notammo, dominava una solitudine pressochè sepolcrale. Imperocchè, una cronaca contemporanea racconta, che i ricchi passavano nelle ville; non tenersi più ragione in palazzo; aversi chiuse le botteghe della Merceria e in altri luoghi, e nondimanco, per bizzarria di alcun venditore, sulla porta di taluna di esse vedevansi scritte parecchie celie, come, ad esempio: Per schivar el scandoloEl mistro ga pauraSe no vogio vender, cossa gaveu vu da far? – Il che mostra il festivo carattere del veneziano, il quale in ogni tempo, anche nelle sciagure più gravi, trova modo di scherzare sull’ infortunio medesimo.

Aveasi ancora deliberato li 3 agosto 1576 di chiudere le contrade per quindici giorni: ma li 7 dello stesso mese fu l’ordine revocato, e solamente venne prescritto, sotto pena capitale, che niuno uscisse di casa dopo un’ ora di notte. Ad onta però di tante cure salutari, non cessava il morbo della sua intensità. Perlochè mosso il doge ed il Senato da sentimenti pietosi, statuirono di porger preci all’ Altissimo per impetrare la liberazione del flagello, e promettere, in voto solenne, la erezione di un tempio a pubbliche spese dedicato a Cristo Redentore.

Per la qual cosa il dì 4 settembre ordinavansi pubbliche processioni pei giorni 6, 7, 8; ed in quest’ ultimo, sacro a Maria, calava il doge ed il senato in S. Marco. – Ivi, alla presenza del popolo tutto, di cui era gremita la ducale basilica, il buon doge, dopo di aver assistito al divin sacrificio, celebrato dal primicerio Luigi Diedo; a piè nudi, e tutto stemprandosi in lacrime, pronunciava una calda orazione, che può leggersi nello storico Gio. Battista Contarini (Stor. Venez. Vol. II, pag. 162). Continuava il morbo a mietter vittime, rimettendo però della sua intensità, e tanto che dal 1.° marzo susseguente fino al 21 luglio 1577, ne perivano sole 4000.

E quantunque una cronaca antica faccia salire il numero de’periti a settantamila, pure il citato Morello, nel modo seguente vien registrando l’accaduta mortalità.

Dal 1° agosto 1575, fino a tutto il febbraio 1576

In città . . . Uomini 1682 – Donne 1699
Ne’ Lazzareti “ 174 – “ 172
————————————————-
1856 1871

In tutti, nel 1575 (more veneto) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . N° 3727



Dal 1° marzo 1576 a tutto febbraio 1577

In città . . . Uomini 11.240 – Donne 12.925:
Ne’ Lazzareti “ 10.213 – “ 8.647
————————————————
21453 21.572

In tutti, nel 1576 (more veneto) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . N° 43.025

Dal 1° marzo 1577 fino al giorno della liberazione circa 4.000

Totale N.° 50.572.

Convien però avvertire che in questo numero pare non sieno comprese le isole di Murano, Malamocco, Chioggia, ecc., per cui potrebbe reggere il calcolo dei 70,000 rapportato dalla surriferita cronaca.

Non sappiamo quindi da qual fonte l’abate Magrini (Memorie intorno alla vita e le opere di Andrea Palladio, ec. Pad. 1845, pag. 210) traesse la notizia, che il dì seguente al voto non ebbesi che a deplorare quattro vittime sole; se dalle Memorie del prelato Morello, abbiamo la notabile varietà in alto recata. E si il Morello dovea saperne più d’ogni altro, sendo uffiziale della sanità, e, per dovere, conoscer dovea ogni particolarità del contagio.

Fra le vittime mielute da questo si annoverarono parecchi personaggi distinti, primo fra’ quali fu il celebrato pittore Tiziano Vecellio, che moriva il 27 agosto 1576, in età di 99 anni; e non pure si estinsero molte nobili famiglie, il numero delle quali si fa salire da alcuni scrittori a novanta, il che noi mettiamo in dubbio.

Alcune particolarità di questa peste vennero descritte da quel bizzarro ingegno di Giulio Lecompte, nella sua Venezia, o colpo d’occhio, ec. (Ediz. di Venezia pag. 512 e seg.), ma esse son tutte prive di ogni fondamento, e talune anche apertamente false, tanto che non giova il qui soffermarsi per ribatterle.

Offerto il voto a Dio Ottimo Massimo, pensossi tosto alla erezione del nuovo tempio, senza attendere che cessasse il diro flagello. – Il quale totalmente spariva nel mese di luglio 1577; a’ 13 del quale deliberavasi che la cerimonia del pubblico risanamento avesse luogo la terza domenica di quel medesimo mese, che in quell’ anno cadeva il giorno ventuno.

Era morto infrattanto, li 3 giugno 1577. il doge Luigi Mocenigo, e li undici dello stesso mese, veniva eletto Sebastiano Veniero, l’eroe vincitore dei Turchi alle Curzolari.

Alessandro Ceggia cancelliere ducale, nelle Memorie delle cose avvenute al suo tempo (Vedi Gallicciolli, Memor., ec. Vol. 11, pag. 203 e seg.) rapporta che la liberazione fu pubblicata il detto giorno 21 in S. Marco dal pulpito, per mezzo di Carlo Scaramella, estraordinario di cancelleria, il quale recitò una breve Orazione. – Dopo di che ebbe luogo la solenne processione fattasi dal doge, dal senato e dal clero, con sterminato concorso di popolo, visitando il luogo scelto per la nuova Chiesa. La descrizione della qual solennità, tratta da una lettera di un Muzio Lumini, diretta a G. F. ed inserita dal molte volte citato Morello nelle sue Memorie, qui riportiamo nella sua integrità, parendoci degna per ogni riguardo, mentre contiene molte cose curiose, e per di più riferite da un testimonio di vista.

1577. 22 Luglio.
Al molto magnifico et Eccel.
Sig. il Sig. G. F.

Già mi è nota la molta attenzione che V.S. Eccel.ma porta, com’è giusto, alla sua patria; ond’io per ciò con giojoso affetto le indirizzo una minuta delle cose fatte per l’illustr. Signoria di Venezia nel giorno della pubblicata liberazione della città di Venezia dal contagio e non ostante che io sia certo, che da molti amici V. Magnific.a avrà diligente ragguaglio, non per ciò ho voluto rimaner di scrivervi quello che io ho veduto e inteso: perchè quantunque io non ispieghi questi concetti con dolce e vago stile, portando con esso loro se non religione, carità e misericordia dell’eterno Redentore, so almeno, che da me sono scritti con gran caldezza, ne di ciò mi pento, perchè giunti alla fredda Germania, non saranno così presto agghiacciati, che da V. S. E. non siano stimati già accesi. – Sappia dunque V. Magnifia che del 1575, a’ 21 Luglio cominciò la peste in Venezia, ed è ita irreparabilmente serpendo, che più di tre dosine di migliaja di case hanno patito infezione. – Alli 4 di Settembre poi del 1576, essendo in colmo il morire, questi cristianissimi Padri fecero unitamente voto di edificare una chiesa alli RR. PP. Cappuccini alla Giudecca, dedicandola al sommo nostro Redentore, perchè cessasse così orrendo male. Ora cessata del tutto miracolosamente la peste, memori del beneficio ricevuto da Dio O. M., presero parte nell’Ill.o Senato di pubblicar la liberazione della città alli 21 Luglio 1577, che a questo modo ha durato la peste due anni giusti, e visitar la chiesa votiva solennemente, nel modo e ordine che vi scriverò con quella brevità, che si potrà; e questa visitazione solenne la faranno ogni anno la terza domenica di luglio. – Dovete avvertire, che la chiesa visitata non è quasi principiata: ma siccome tutte le altre cose sono state fatte con celerità grande, così quel luogo pieno delle rovinate abitazioni, che già vi erano, è stato in tal maniera disposto, che nè rovine, nè mal composti pavimenti hanno dato noja alcuna.

Era fatta una porta a detta Chiesa coperta maestrevolmente di minutissime foglie di albero, levate da tronconi, dentro della quale vi era una assai larga strada coperta di panni fini di molto prezzo, dalla quale si giungeva in uno spazioso coro acconciato graziosamente e addobbato di cuor d’oro ed arrazzi finissimi, nel mezzo del quale era, su per molti gradi, un altare eminente coll’imagine del nostro Redentore fatta da dottissima mano, ornato da illustri spalliere d’oro di seta e di argento. – Servivano qui al sommo Iddio i RR. PP. Cappuccini. — Discendendo poi giù per l’altra parte dell’altare, si veniva ad un’altra strada, come la prima coperta, per la quale si giungeva ad un’altra porta, fatta come quell’altra di foglie, per la quale fu il ritorno. — Sarà questa chiesa capace e bella. — Vi ho detto prima della chiesa, perchè parlandosi molto di essa, si sappia in che termine sia. — Dovendo andare sua Serenità, tutto il clero e le scuole alla Giudecca solennemente era troppo grande disturbo passar un così largo, dirò lago per barca; e per ciò fecero fare un ponte, che giungeva dalla piazza di S. Marco a San Giovanni della Giudecca; cosa grande e ammirabile, fu fatto in quattro giorni, e compita sì grande macchina, oltre il credere d’ogni uno. – E lungo questo ponte 2550 piedi, e largo 18, fatto sopra galee e altri navigli, che eccedono il numero di 80, ed ha un arco nel principio verso la piazza fatto assai bene; e furono tolti via tutti gli infuori, e le botteghe degli artigiani, rimanendo la piazza del tutto libera. —

I panni tirati sopra antenne cominciavano alla porta grande del Palazzo, e andavano con un buon giro alla porta del ponte, essendo il ponte altresì coperto. — La libreria, ch’è posta dirimpetto al Palazzo, era gloriosamente fornita, perchè sotto il porticale vi erano arrazzi preziosi, che coprivano tutte le botteghe ed il muro. — Ad ogni colonna vi erano stendardi dorati, e innumerabili festioni pendenti sopra i modiglioni. — Vi era un fregio di arrazzi, che scorreva per tutto: in somma, non vi era tralasciata cosa, perchè onorevole e ammiranda dovesse riuscire tale fattura, essendovi oltre le innumerabili bandiere e stendardi generali, tappetti e scudi dorati, con l’arme delli signori alla sanità, tutti graziosamente disposti; e nel mezzo un quadro dipinto da eccellentissimo Mastro, nel quale si scorgevano certi medicassi le contagiose piaghe, e da barbuto uomo essere queste guardate con grande stupore, volendo forse dire, che si orribil mostro non aveva altre volte, ancora che molte mirate ne avesse, veduto.

Eravi chi languendo rendeva l’anima, e questo nelle braccia di chi più cara l’aveva. In fine, perchè vi era su molto, tutto dimostratrice del preterito male, io dirò che quivi era dipinta la comune afflizione. — Vedevasi nella stessa pittura su nel cielo l’eterno Redentore, che pregato da un lato da genuflessa donzella, e dall’ altro del beato San Rocco, dall’ una colle mani in croce tutta ristretta e desiosa di esser esaudita; dall’ altro con una mano al petto, e con l’altra dimostrante le sotto giacenti miserie, benedicesse l’afflitto gregge, ed onusto del sacrosanto vessillo, e delle santissime e preziosissime piaghe rasserenasse vèr noi le onnipotenti sue ciglia. —

Eranvi sedici imagini di sommi Pontefici superbamente belle, che rendevano meraviglia e contento; tutte queste cose coperte con decoro, accompagnate da trombe, tamburi e altri istromenti, e da piacevol raggio, e soavissimo zeffiro, che percotendo l’uno, negli orti risplendeva l’aere allegro, e dall’ altro, che facilmente movea i be’ stendardi, potevano, per quanto comporta terrena azione, mostrarci qualche parte del bello del cielo. — Perchè fosse così ben acconcio questo loco, ve lo dirò, ed è; che essendo quivi i preclarissimi Signori alla Sanità, ed essendosi sotto il felice loro reggimento e provvigioni (Dio dator d’ogni bene) nettata la città dal contagio, e volendo mostrar fuori quell’ allegrezza, che sentono del desiato bene, hanno fatto questi acconciamenti. – Sono questi li clarissimi M. Giacomo Soranzo Cav. e Procurator di San Marco; M. Marc’Antonio Barbaro, Procuratore; e M. Paulo Tiepolo Cav.r e Procuratore, meritissimi soprapprovveditori alla Sanità, e li clarissimi M. Pietro da Mosto; M. Nicolò Bernardo, e Mr Marco Antonio Badoer degnissimi Presidi alla Sanità, e amplissimi Senatori. — Essendo le cose in questa maniera, si cominciò la processione, la quale fu fatta devota — E fu prima la scuola di Sta M.a della Carità, la quale mostrò molte, anzi infinite cere ardenti ad onore di Dio O. M. — Fu seconda S.ta Maria della Misericordia; terza S. Marco; quarta S. Giovanni, tutte copiose di gran luminarie; fu quinta la scuola del glorioso M. r Rocco, nella quale furono vedute molte belle significazioni, rappresentate con persone vive riccamente e giudiciosamente disposte. Quanta ricchezza e bellezza di dimostrazioni, e d’ori e di argenti fusse in quella Scuola, per brevità, nella penna lascio; basta questo, che fu così devota e bella questa processione, che rese ammirazione a tutti. Seguirono poi Frati di più ordini raccolti sotto quattordici stendardi, e si sono vedute in questi molte reliquie. — Dopo vennero tutti li sacerdoti raccolti sotto undici stendardi, e pieni d’infinite reliquie, ed onusti di manti d’oro e di perle. — Eravi il R.o Primicerio di S. Marco, e poco dopo il R.mo Patriarca d’ Armenia, poscia in fine l’Illmo e R.mo Patriarca nostro vestito candidamente. — Ebbe qui fine il numeroso clero. — Comparve poi l’invittissimo e serenissimo Sebastiano Veniero, duce, vestito tutto di bianco, e accompagnato da molti.mi Ambasciatori, e gran numero di religiosi Senatori, i quali rendevano vista sommamente beata. — Nell’ arrivo di S.a S.a al ponte parve disfarsi il mondo, perchè da artiglieria, tamburi, trombe e voci di popolo fu repentinameute percossa l’aria. — Signore io confesso bene, che quando io non avessi veduto il contagio in Venezia, ch’ io crederei, che non solamente non fosse morta, ma duplicata la gente. Vi fu tanta gran calca, che non capivano nè in sì spazioso campo, nè ai balconi, nè sui soleri, che tutti quel gran canale era di gente coperto.

Così con la cerimonia descritta ebbe fine quella memorabile pestilenza, per la quale, se da un lato provarono i veneziani il flagello dell’ ira di Dio, dall’ altro conobbero che lddio medesimo non manca mai alle sue eterne promesse, le quali assicurano, per bocca del Re penitente; che se i peccatori alzeranno le loro grida al Signore, mentre son tribolati, egli li torrà della augustia loro (Salmo CVI, v. 6).

Non contenti i Veneziani di avere eretto dipoi il tempio sacro al Redentore che aveano votato, vollero eziandio che questo voto e la prece porta dal piissimo doge Luigi Mocenigo fossero espressi in ampia tela, per nano del Tintoretto, e questa venisse collocata nella sala del collegio del ducale Palazzo; ed è appunto quella che qui offriamo.

La scena si compie entro un atrio eretto all’ ingresso delia Marciana basilica, che però non si vede; e alla destra del quadro è il duce prostrato, che aprendo le braccia in tutta la effusione del cuor suo, prega il Riparatore divino per la salute del pentito suo popolo. A quella prece efficace s’apre il cielo, e discende il Salvatore, il quale col cenno dell’onnipossente sua destra

affida il supplicante nella grazia richiesta. — Essa grazia è significata dall’Angelo, che pur viene dall’ alto. Al destro fianco del duce è l’Evangelista patrono, e dall’altro lato del quadro stanno in piedi, il Battista, ed il vescovo di Tolosa Lodovico. — Nel piano più prossimo è inginocchiato l’apostolo Andrea; e presso al medesimo sta in piedi S. Nicolao. Retro a questi ultimi divi, inginocchiati si mostrano due nobili. Sono essi Giovanni e Nicolò Mocenigo, fratelli del doge. Dopo questi appariscono gli angeli custodi, i quali sembrano scortare all’ Eterno le preci dei loro accomandati.

Il fondo del quadro si apre alla veduta della piazza minor di S. Marco; che per tal si conosce e dalla colonna ove innalzasi il simulacro di S. Giorgio, male creduto fin qui esprimere il guerriero S. Teodoro, come in altro luogo provammo; e dalle fabbriche congiunte della Libreria e della Zecca, non per anco a quel tempo adorne delle statue sugli acroterii spettanti al poggiuolo, che corona l’intero edifizio.

Il dipinto, sebbene alterato dalle ingiurie dell’età, mostra quanto il Tintoretto sapesse addentrarsi nella espressione, quale la sua dottrina nel disegno, quanto il suo gusto di tavolozza.

E più che tutte queste doti pittoriche, varrà il languido disegno che qui offriamo, a dimostrare la pietà dei Veneziani e la splendidezza dell’ insigne lor voto.

F. ZANOTTO.

Articolo da: L’Emporeo artistico-letterario, ossia Raccolta di amene lettere
Digitalizzato da Google Libri


Francesco Zanotto (Venezia, 1794-1863), importante storico dell’arte veneziano dai molteplici interessi, era poco conosciuto tra gli esperti italiani dell’Ottocento.