LA FESTA DEL REDENTORE A VENEZIA

Giuseppe Piccio

Il popolo è sempre fedele a’ suoi tradizionali costumi, poichè crede con ciò di venerare la memoria degli avi i cui fasti vuol rispettati e trasmessi ai discendenti, procacciando a sè stesso nel tempo medesimo il nome di pio. Il veneziano ebbe sotto questo rapporto sempre il primato, ed anche ai nostri giorni non sa dimenticare del tutto quelle solennità religiose che sotto il dominio della Repubblica erano splendide e numerose.
La Festa del Redentore, la quale oggi ricorre, attirava più che tutte le altre l’entusiasmo dei Veneti, e l’ammirazione degli stranieri, sia per la pompa e la magnificenza che la distingueva, si aperchè ricordava l’importantissimo fatto il quale ne diede l’origine, e di cui ora fo’ cenno.
Nell’anno 1576 tutta l’Italia veniva colpita da un miserando flagello: la peste; e Venezia ne fu più crudelmente assalita, come lo era stato più volte nei tempi anteriori, causa l’esteso commercio col Levante e coll’ Asia.
Nel secolo X, XI, XII, essa aveva apportato un desolante sterminio, ma la peste del secolo XV, generale anche in Africa, in Europa ed in Asia, superò al massimo grado la sua nociva influenza, unendosi ad essa la carestia, le quali in 6 mesi decimarono il popolo veneziano a tal punto che si dovette eccitare la gente d’altri paesi a ripopolar la città, anche allo scopo di non completare lo scoramento per sì immeritata sciagura in quei desolati superstiti.
Questi coll’angoscia nell’animo si vedeano rapiti in modo sì barbaro i genitori, la sposa, il fratello, gli amici, senza la dolce speranza di vederli guariti, e senza il mesto ma pur gradito conforto di poter alleviare lo strazio degli sciagurati, colla loro assistenza materiale e morale. Pur si vedevano dei generosi che, per volere ajutati i lor cari appestati, non aveano timore pel contagio del male, nè della morte che ne derivava talvolta quasi immediata.
Novanta famiglie patrizie rimasero estinte, ed oltre 10,000 ammalati raccolse più volte (in quell’occasione luttuosa) una lingua di terra sulla laguna, che fu trasformata, insieme ad un’ altra, in lazzaretto, non essendo a tal uopo bastanti tutti i punti più frequentati o remoti della città. A gruppi e cataste i morti si vedeano sdrajati sulle pubbliche vie, non bastando ad accoglierli il Cimitero. Un ferale silenzio dominava le calli ed i canali, non interrotto che da pochi lamenti dei moribondi, e dall’ingrato stridore delle carrette le quali riboccavano sempre di estinti, senza potere mai liberare quelle strade mortifere ed impraticabili.

Il Governo della Repubblica si prestò con una larghezza e disinteresse incredibili, per iscemare possibilmente il flagello, mentre il popolo di Venezia, sempre animato da sensi di religione purissima, pregava l’Eterno affinchè allontanasse quel morbo fatale, e votava, d’accordo col Senato, d’erigere un tempio nell’isola della Giudecca, il quale fu intitolato e dedicato al Redentore.
Nel 21 luglio 1578, essendo cessata la peste, si fece una processione solenne verso il luogo in cui si doveva erigere il tempio, e nel giorno 3 Maggio dell’ anno seguente fu collocata dal Doge Luigi Mocenigo la prima pietra. Il modello fu dato dal principe dei veneti architetti, il Palladio, ed oggi stesso, chi ne ammira la mole superba ed elegante formata con ricchissimi marmi la quale torreggia sull’acqua, non può non sentirsi stringere il cuore d’ammirazione sincera verso coloro che – dando una prova imperitura ed eloquente del loro amore alla religione ed all’arte,- illustrarono sì degnamente sè stessi, e gli avvenimenti cui presero parte.

Ma le solennità religiose sono svisate e corrotte col tempo dalle baldorie profane, e quindi anche la festa del Redentore subì tal mutamento: la facile comunicazione di Venezia coll’isola per mezzo di un ponte di legno che ogni anno veniva e viene tuttora gettato la terza Domenica di luglio, (giorno in cui si ricorda l’avvenimento) diede pretesto ai popolani di fare la così detta sagra.
La notte che precede il giorno di festa, una folla di gente si riversò sulle pubbliche vie, nei caffè, negli alberghi, si ornarono tutte di lumi, d’ arazzi, di trasparenti, e di fiori le botteghe e le case, e barche in quantità indefinita scorreano festose quel lungo Canale, accogliendo sotto le tende od il grazioso boschetto che le adornava, un’intera famiglia o comitiva che assisa a geniale banchetto mangiava o faceva chiasso…. Il brio della festa oggi decrebbe, e la mattina del Redentore, allorquando risplendono ancora in cielo le stelle, signore e giovanotti convengono, secondo un uso recente, su quel tratto di terra che s’intitola il Lido appunto perchè ivi termina il mare, e di là si può goder lo spettacolo sempre nuovo del sole che sorge baciando le onde del mare…..

Giuseppe Piccio

Articolo tratto da L’Illustrazione popolare, Volumi 5-6
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Giuseppe Piccio è stato un critico letterario veneziano ed editore della rivista letteraria italiana L’Alba. Docente al Real Ginnasio Marco Foscarini, Piccio compilò anche il Dizionario veneziano–italiano, pubblicato nel 1916, significativamente in un momento in cui il veneziano stava gradualmente perdendo il favore del toscano anche tra i circoli letterari veneziani. Il Dizionario rimane uno dei pochi dizionari del veneziano ancora esistenti.