IN MEZZO ALLA NEVE


(RACCONTO DI NATALE)

L’inverno era rigido e spandeva dovunque lo squallore. La neve cadeva con una continuità desolante: i convogli erano imprigionati, i corrieri fermati, ed in molti dipartimenti meridionali il traffico era quasi sospeso. Cosa poi doveva essere al nord? Persino nel Devonshire, ordinariamente dolce ed umido, dove le rose fioriscono spesso in inverno, la neve era alta ed il ghiaccio spesso.

I giovanetti che abitavano in un vecchio presbiterio non sapevano che cosa pensare. Meno Ray, che aveva sette anni, ed era il maggiore, nessuno aveva visto la neve coprire il suolo a quel modo. Ray la sapeva lunga a questo riguardo, lui che una volta avea passato l’inverno al Nord, in casa d’una sua madrina, – ma i suoi fratelli e le sue sorelle Rob, Tam e Dikie, e le | piccoli gemelle Susie e Nelly non avevano visto mai nulla di simile: e quella campagna bianca bianca li rallegrava e li inquietava nello stesso tempo.

Il padre di quei sei bimbi era vicario. La mamma non c’era più; quando vennero al mondo le due sorelline Susie e Nelly era volata in paradiso, come era stato detto ai piccini.
– Sono forse penne che si staccano dalle ali della mamma? – disse Rob, che se la ricordaya benissimo e s’era messo a piangere, vedendo quei bei fiocchi bianchi di neve che scendevano silenziosamente a terra.
– Sono certo che se avesse delle ali volerebbe a noi, rispose Ray guardando in alto, – ma non credo le abbia le ali.
– Ma papà dice che è un angelo, e gli angeli hanno tutti le ali, – soggiunse Rob.
– Verrebbe a noi se le avesse, – replicò Ray; – almeno se il buon Dio non glielo proibisse, – aggiunse dopo un istante di riflessione.
Poi rivolgendosi a Rob:
– Se la mamma dicesse al buon Dio d’aver desiderio di abbracciare Rob, Ray, Tammie, perché anche essi lo desiderano tanto tanto, credi tu che il buon Dio potrebbe dirle di no?
Rob rimase un momento sopra pensiero, poi rispose al fratello:
– Il papà dice sempre di no! Il buon Dio fa forse come il papà.
– Può darsi, – sospirò Ray tristamente.
A quei bimbi si diceva sempre di no! Quanto dovevano soffrire quei piccini!

Il presbiterio era una casa di legno lunga e bassa, coperta da piante rampichine, un vero paradiso per i sei bambini, a cagione degli angoli, dei recessi, dei corridoi, delle finestre incavate, degli armadi misteriosi; si prestava magnificamente alle pazze corse del dopo pranzo; alle storielle da narrarsi vicino al caminetto, all’allegria, al baccano, a tutti i giuochi infantili.
Ma nulla di tutto ciò potevano fare i fanciulli che abitavano il presbiterio; e benchè l’allegria di tanto in tanto facesse qua e là capolino, chè non può mai eclissarsi del tutto là dove sei bambini si trovavano riuniti, pure si celava timidamente, e la paura faceva morire talvolta la risata che stava per iscoppiare.
Perchè un’ombra nera e fredda pesava su quella casa e su quei bambini, e quest’ombra era il padre. Era questi vicario della parrocchia remota di Goldenrod, bagnato dalla Dart, in un distretto spopolata della contea nella quale Herrick aveva esercitato il suo ministero; ma quanto egli era diverso da questo pastore affettuoso ed allegro Taciturno per carattere, era severo coi suoi figliuoli, e quando il suo passo pesante si faceva udire Rob e Ray scappavano tremanti, e gli altri bambini si mettevano a piangere.
Il po’ di cuore che aveva avuto in passato l’aveva seppellito insieme a sua moglie, laggiù di fianco alla chiesa, sotto al gran tasso che distendeva i suoi rami sempre verdi.

Tuttavia il vicario era un uomo dabbene, cioè sincero, onesto, laborioso; mai esitava un istante quando si trattava di fare il proprio dovere, anche se la cosa gli riuscisse sgradita o ripugnante; non si permetteva il minimo svago, per quanto desiderio ne avesse; ma era rigido, austero, e più che altro parco.
Colla sua parrocchia, molto estesa, e molto povera, guadagnava assai poco.
A dir molto, si contavano in essa due o tre proprietari agiati, ed il vicario, benchè avesse un bel capitale depositato alla banca della contea, viveva come un miserabile, più perchè così gli piaceva che per bisogno. Le sue viste erano piccole, e le sue abitudini meschine.
In fin dei conti, propriamente infelici non si potevano dire quei bambini. Non avevano per giuocare il vecchio orto coperto di musco, la prateria vicina, le siepi ed i boschetti? E poi, la mucca, le galline e la cucina grande grande, dove s’accovacciavan vicino al fuoco per mangiare la loro zuppa d’orzo e udire le storielle di Kesiah, che era stesso tempo cuoca, massaia, guardarobiera, tutto, in una parola? Kesiah li adorava quei piccini, li aveva visti nascere, e al letto di morte della madre aveva giurato di non abbandonarli, mai, mai.
Essa mantenne la promessa. Era una donna che tutti amavano, e che avrebbe potuto sposare un ricco mugnaio, il padrone del mulino che gira sul fiume otto miglia più in giù. Ma v’erano molte cose che Kesiah avrebbe desiderato fare per i fanciulli a cui doveva rinunciare per non disobbedire al suo padrone! E per questo che doveva inzuppare il pan grattugiato nell’acqua invece che nel latte, e dar loro la minestra fredda che avrebbe desiderato servir calda.
Si vergognava pei vestiti tutti a toppe che portavano quei bambini, che dovevano essere, come essa diceva: «i primi della parrocchia.»
«Va bene essere un santo, ma voler spremere il vetro è troppo, » pensava la buona donna, ma non lo lasciava scorgere.
E quando cominciò a cadere la neve, incolpava in cuor suo il vicario con più asprezza che mai.
I bimbi, poveretti, tremavano dal freddo, ed essa non ardiva mettere sul camino dei ceppi di quercia, per far loro una bella fiammata.
– Andate a correre un po’ fuori, tesoretti miei; andate, cercate di riscaldarvi, – essa disse ai bimbi quando il bianco lenzuolo che a loro sembrava così nuovo, s’era già disteso sulla campagna, resa ancor più monotona dagli alberi spogli, dal fiume oscuro e oltremodo ingrossato.

Robe Ray prendevano tutti i giorni lezioni dal padre, nel suo salottino da studio, una stanzetta tetra e triste, che era per loro come un luogo di tortura, perchè quanto meno conoscevano il sillabario, tanto più facevano conoscenza colla bacchetta del babbo.
Quel giorno però erano liberi. Il padre aveva dovuto recarsi al di là del grande scopeto al letto d’un moribondo. Perciò a salti, uscirono all’aperto, fecero sedere i fratellini e le sorelline nei loro carretti, e li tirarono correndo di qua e di là contenti, beati, come se la terribile bacchetta non riposasse più nel salottino tetro, accanto ai loro quaderni macchiati d’inchiostro.
Facevano delle corse in slitta che sembrarono loro belle come quelle che avevano visto impresse nei giornali illustrati di Natale, figurandosi di essere delle principesse; poi vollero rappresentare l’ingresso di Napoleone a Mosca, che Ray aveva letto allora allora nel suo libro di storia, e furono tanto felici nelle loro marcie, contromarcie, della loro propria morte e del proprio seppellimento nella neve da non accorgersi che il padrone temuto era rincasato. La voce severa del vicario attraversò l’aria fredda come una spada.
– I vostri doveri sono fatti?
Rob, in procinto di sotterrare Tammie nella neve, e Ray che portava Dick sulle spalle, come un soldato intirizzito della vecchia guardia, udirono quelle parole, e un silenzio di tomba successe allo schiamazzo di un istante prima.
Ray, bianco come la neve, ebbe solo il coraggio di rispondere:
– Papà, non li abbiamo mica fatti i nostri doveri.
– Cosa avete fatto, allora?
– Ci siamo divertiti sulla neve.
– Benissimo… Andate ad aspettarmi nel mio studio.
Rob si mise a piangere, le labbra rinunciare di Ray tremavano. I bimbi conoscevano il significato di quelle parole.
– La colpa è tutta mia, signor vicario, esclamò Kesiah, uscendo a corsa dalla casa.
Ma il vicario la cacciò indietro.
– Mi rovinate i bimbi voi, lo si sa. Sono abbastanza vecchi da sapere quello che devono fare.
Kesiah supplicò invano. I bimbi dovettero andare nel salottino da studio.
– Non percuota che me solo, – disse Ray timido timido, – la prego. Se io non fossi uscito, Rob sarebbe rimasto in casa con me.
Il vicario nell’intimo del suo cuore riconobbe la generosità di Ray, si sentì orgoglioso del figlio, ma finse di non averlo udito, e tutti e due sulla palma delle loro manine intirizzite ricevettero la punizione temuta. Poi li rinchiuse perchè facessero i loro doveri; ed invece di pranzo non s’ebbero quel giorno che un po’ di pane. Una disciplina inflessibile era per il vicario il modo migliore di educare i fanciulli.

I bimbi fecero i loro doveri, Ray in fretta, Rob lentamente, bagnando tutti e due di lagrime le pagine dei loro quaderni. Poi si posero nel vano d’una finestra per ripetersi a vicenda quello che dovevano imparare a memoria.
La finestra guardava sopra un praticello, nel mezzo v’era un cespuglio di biancospini, sotto i rami del quale una folla di uccelletti aveva cercato rifugio.
– Guarda, – disse Ray, – come sono tristi e smarriti; come le loro ali sono irte!
– Hanno freddo, – disse Rob aggrottando le ciglia.
Poi aggiunse udendo il cic ciac dei piatti che veniva dalla stanza vicina:
– Forse hanno fame.
– Fame? – ripetè Ray, che non si era mai chiesto come vivevano gli uccelli.
Improvvisamente tornarono a colorirsi le sue guancie smorte, e buttando da parte il libro.
– Sono un vero sciocco. Sicuro che hanno fame, la terra è tutta coperta di ghiaccio e di neve; essi vivono di vermi e di grano, e adesso non trovano niente, niente… Poveretti!
E aperse l’invetriata, fece in briciole il suo pane e lo gettò agli uccelli. Tutti piombarono a stormi rumorosamente sulla provvisione inattesa, passeri bruni, fanelli grigi, fringuelli dalle ali screziate, tordi macchiettati, tre gran merli, una graziosa cingallegra azzurra e non so quanti pettirossi.
Non erano più tristi, saltellavano, beccavano, battevano le ali pigolando e mangiando nello stesso tempo, comportandosi molto meglio di una folla di uomini affamati che si fossero trovati nello stesso caso.

Il cespuglio si protendeva su di loro. Ben presto quelle creaturine felici tornarono a riunirsi sui rami spogli, e riempirono l’aria colle loro gaie canzoni, romanze senza parole; allegri come se il biancospino fosse fiorito, come se fossero occupati a costruirsi il nido.

Robe Ray erano estatici, facevan capolino dalla finestra, sporgevano le manine, gettavano a profusione le loro briciole di pane, un po’ ridevano, un po’ piangevano per aver fatta la scoperta che gli uccelletti sulla neve avevano fame.
Non pensavano più a loro stessi: la simpatia, l’eccitazione aveva fatto dimenticare ai bambini che anche essi erano digiuni e che avevano fame.
Quando ebbero inghiottito fino all’ultima briciola scotendo le ali, gli uccelletti presero il volo. Non rimase che un pettirosso, il quale, sporgendo la testina dalla vetta d’un ramo dei più alti, si mise a cantare, come se i suoi compagni avessero incaricato lui di porgere a nome di tutti i suoi ringraziamenti.

– Com’è bello… Come è bello! – esclamò Ray palpitando dalla contentezza. – Come è divertente! Oh Rob, è stata una stupenda idea la tua, di ricordarti che gli uccelletti avevano fame!
– E poi si dice che io non so niente!
– Disse Rob con una certa compiacenza.
– Che cosa fate alla finestra? – chiese il padre.
La gioia si spense improvvisamente il moro, il pettirosso scappò. Questa volta fu Rob che rispose.
– Si dava il nostro pane a quei poveri uccelletti. L’idea è stata mia.
– Tutto il vostro pane?
– Sì, papà, i nostri due pezzi.
Il vicario mise il broncio.
– Già che avete fatto così, non avrete niente da mangiare fino all’ora del vostro thè. E che la cosa non si ripeta Del vostro pane fatene un uso migliore. Gli uccelli non sono che dei ladri. Rubano il grano e le frutta, è per volere divino che il gelo ne ha ucciso parecchi. È un empio agire il vostro, è contrariare i disegni del Signore.
Ray rimase perplesso; Rob chiese invece con fare deciso:
– Il buon Dio uccide gli uccelli?
– Il gelo che Iddio manda li uccide, – rispose il padre.
– Rob restò un momento sopra pensiero, poi esclamò:
– Allora io non amo Iddio!
– Taci! – soggiunse Ray, – Dio è buono; e il babbo che s’inganna.
Il padre si fece pallido. Erano proprio i suoi figli quei bestemmiatori?
Dovettero sottostare nuovamente al solito castigo, e le loro manine irrigidite dovettero scrivere a lettere grandi a contraggenio: «Il gelo è un contributo della natura che ci vien dato dalla misericordia divina per distruggere la moltitudine di uccelli che devastano i raccolti dei fittaiuoli, e distruggono le gemme dei frutti. »
– Non è vero! – borbotto Ray tra i denti mentre le sue mani tracciavano quella lunga sentenza. – Sono certo che non è vero.
– Non è vero, – ripetè come un’eco suo fratello Rob, che colle sue dita grassottte stentava sempre a fare un O un po’ rotondo e che adesso non poteva riuscirvi affatto. – I fittaiuoli non li amo io; tendono delle reti agli uccelli ecco cosa fanno!
Ray non rispose, aveva il cuore troppo serrato, non poteva parlare. Aveva letto in un libro di storia in casa della matrina, che v’era un paese, al nord, dove quando fa gelo si legava sopra le porte un manipolo di grano per gli uccelli affamati: e voleva trovarsi anche lui in quel paese. Quella sera, i due bambini si addormentarono dopo aver versate tante e tante lagrime.

Appena alzati al mattino seguente, corsero alla finestra. Era l’alba. La luna discendeva dietro agli scopeti; lo stagno era agghiacciato, faceva molto freddo, e sul davanzale della finestra v’era un uccelletto morto intirizzito; era un giovane cardellino.
Ray tremò tutto vedendolo; Rob diventò rosso in faccia dall’ira.
– Oh, il povero uccelletto, – sospirarono insieme.
E l’esistenza sembrò loro così triste che si misero a singhiozzare uno nelle braccia dell’ altro. Davanti a questo mondo freddo e tetro, nel quale il buon Dio lasciava morire gli uccelletti, erano compresi di paura, come quando avevano visto la terra cadere nella fossa della madre.
Ray si riconfortò improvvisamente.
– Darò la mia colazione agli uccelli, – disse, – mi uccida pure il babbo, se vuole.
– Anch’ io, – disse Rob, che non volle mostrarsi da meno del fratellino, benchè il cuore gli si serrasse un po’, che si sentiva molto appetito, col freddo che faceva quella mattina.
– Però ci farà male lo starcene a a digiuno, – mormorò poi, – non ti pare?
– Certo, ci farà male; – rispose il fratello con un fare sdegnoso, – anche i martiri soffrivano, e non cedevano per questo.
Rob chiuse la bocca e non fece più obbiezioni.
Ray gli parlava sempre di martiri, benchè quegli non se ne interessasse punto; si interessava ben più di capinere prese nelle reti.
– Andiamo, – disse Ray.
E tenendosi per mano, discesero la scaletta erta erta ed oscura.

I fanciulli facevano sempre colazione in cucina, per non disturbare il padre, e perché la cosa tornava comoda a Kesiah. Si sedevano in giro avanti al fuoco attorno alla tavola d’abete, i piccini nei loro seggioloni e Rob e Ray sopra degli sgabelli. La mattina mangiavano per solito zuppa d’orzo: questa volta ebbero del latte, dell’acqua e del pane, e Kesiah regalò loro un po’ di miele «perchè, come diceva la buona donna, Natale era così vicino.»
Si era infatti al 23 dicembre. Ray diede un’occhiata al miele ed al pane.
– Questo è mio?
– Sì, mio tesoro, disse Kesiah cercando di indovinare il suo pensiero.
– Posso mangiarlo o non mangiarlo come crederò meglio?
– Certo, figliuolo mio! Ma perché mi fai quegli occhioni, mio Ray!Cosa c’è?
Ray fissava il pane indeciso. Si sentiva la fame d’un ragazzo di sette anni, ma la sua immaginazione gli faceva vedere in quel momento tutti gli ucccelli della terra distesi morti. Si alzò in piedi, prese il pane e lanciando un’occhiata espressiva al fratello s’avviò alla porta. Rob, con una lagrima che gli scendeva lungo la guancia, prese, con fare deciso, il suo pane e seguì Ray. Kesiah, occupata a far mangiare le due sorelline minori, non s’accorse di nulla.
– Il papà ci può ammazzare, ma il buon Dio non sarà certo irritato, – disse Ray con fare pacato.
Nessuno dei martiri che egli amava tanto, mostrò un cuore più fermo del suo. Fece il suo pane in briciole, e lo gittò sulla neve.
Rob non potè resistere alla tentazione di morderne via un boccone, ma il resto poi lo gettò anche lui agli uccelli.
Da una finestra ad inferriata, poco più alta della loro testa, udirono la voce tonante del vicario.
– In casa mia di questi sperperi non ne voglio! Ragazzacci, quando dico una cosa deve essere così….. capite?
– Può uccidermi, non me ne importa, –disse Ray col volto pallido e risoluto.
Rob aggrottò le ciglia e con fare crucciato:
– Non è mica perduto – disse, – sarebbe nel mio stomaco, ed invece è in quello dei poveri uccelletti.
Dagli alberi e dalle siepi vicine giungevano intanto a frotte gli uccelli per prender parte a quel banchetto inaspettato.
Il padre discese in fretta e chiamò Kesiah.
– Job Stevens s’è storpiato tagliando delle ginestre; è in punto di morte; si venne a chiamarmi: prendete i bambini e richiudeteli nel mio studiolo: al mio ritorno li castigherò.
– Sì, reverendo, – disse Kesiah addolorata, – ma, signore, Job Stevens abita a dodici miglia da qui, e colla neve…
– Naturalmente, vi andrò a piedi, – interruppe il vicario, – un cavallo non la potrebbe fare quella strada. E’ un viaggio da nulla. Rinchiudete i ragazzi, e non lasciateli uscire prima del mio ritorno.
E ravvolgendosi nel suo mantello, se n’andò verso lo scopeto, dove imperversava il vento del Nord. Rob e Ray rimasero immobili.
Kesiah venne a prenderli.
– Bambini miei, avete udito cosa ha ordinato il padrone? – disse la buona donna colle lagrime agli occhi.
Rob le mise i braccetti attorno al collo.
– Sì, ma egli se n’è andato, e tu non ci rinchiuderai mica.
Kesiah esitava. Accarezzò i capelli ricciuti del bambino. La faccia di Ray, prima sorridente, si fece seria.
– Bisogna che ci lasciamo rinchiudere, Rob, – disse tristamente, – non dobbiamo, per colpa nostra, far rimproverare Kesiah.
– Fanciullo generoso! – esclamò questa, e sospirò.
Vennero rinchiusi. Al tocco essa portò loro da pranzo, e scotendo tristamente la testa mormorò:
– Il padrone ha detto: «fino al mio ritorno.»
– Non inquietarti per noi; – rispose Ray, – i nostri doveri sono fatti, e ci potremo divertire.
Kesiah tornò a chiudere la porta, incolpando in cuor suo il padrone più che mai.
– Sono dei veri angioli del paradiso, ed egli è così severo. Egli che ogni giorno di comunione beve alla coppa del Signore, dovrebbe essere tutt’altro uomo, – borbottava irritata.
Se avesse conosciuto un po’ di storia dei Santi, avrebbe augurato al padrone di ingojare col vino sacro un ragno, come capitò a san Norberto, il quale da allora in poi si sentì compenetrato dallo spirito di carità.

Quel giorno passò lentamente; fu un giorno di neve e vento, tetro e triste. Al tramonto, il vicario non era ancora di ritorno.
– Tutto deve finire, – pensò Kesiah; – è ora di lasciarli uscire: gli dirò che li tenni rinchiusi tutta la giornata, ed egli lo sa che non sono capace di dire una bugia.
Essa aperse loro la porta. Rob si lanciò fuori cantando e gridando; Ray lo seguì lentamente, domandando a sé stesso se per colpa loro la buona Kesiah non avrebbe da soffrire pei rimproveri.
– Il padrone ritarda molto – disse l’uomo che faceva nella casa i mestieri grossolani, – passerà la notte dallo squire.
– Lo spero, – disse Kesiah.
Lo squire era il più gran proprietario di Tamsleigh, il villaggio dove Job Stevens, il tagliaginestre, era disteso sul suo letto di morte.
– Senza dubbio era rimasto dallo squire, – ripeteva a sé stessa Kesiah, chiudendo le imposte e mettendo i chiavistelli.
Poi disse al servitore, che farebbe bene a dormire nella casa, poiché il vicario era assente.
Nessuno era inquieto. Il vicario era a Tamsleigh e vedendo il cattivo tempo, era certo rimasto dal suo vecchio amico. Niente di più probabile.
E mentre il vento e la neve imperversavano di fuori, i bimbi schiamazzavano e si divertivano. Kesiah, allegra per natura, sapeva una quantità di storielle, e pensando che poco mancava alla vigilia di Natale faceva cuocere per i bambini delle mele con dei chiodetti di garofano, dentro al vino di ribes.
Era molto tardi, erano quasi le otto, quando i bimbi furono messi a letto quella sera.
– Buon Dio! Ti prego, prenditi cura dei poveri uccelletti che sono in mezzo alla neve, – disse Ray alla fine della sua solita preghiera.
– Amen! – borbottò Rob sonnacchioso.
La notte passò tranquillamente; ma quando in tutta la mattina nè dopo il desinare non si vide comparire il vicario, i domestici cominciarono ad essere inquieti; e cominciarono ad esserlo anche i bambini. Il tempo s’era fatto spaventoso, la neve cadeva, cadeva sempre; il cielo era oscuro, il vento fischiava furibondo; da anni ed anni non s’era vista una bufera simile.
– Dove mai poteva trovarsi il padrone? – si chiedeva Kesiah inquieta.
Si era alla vigilia della festa; e come si poteva stare senza il servizio di Natale?

La parrocchia era molto sparsa; la formavano alcune fattorie, alcune casette rustiche distanti delle miglia una dall’altra; intorno al presbiterio v’erano appena due o tre catapecchie.
Gli abitanti di queste ultime vennero pochi alla volta a vedere che ci fosse di nuovo. Tutti avevano da esprimere i loro timori, da rammentare dei lugubri ricordi, caricando a vicenda la dose, avendo sempre l’aria di consolare.
Ray, coi suoi occhioni aperti, prestava orecchio a tutti. Per dir vero, egli non era afflitto: Kesiah gli aveva dato una misura di grano per gli uccelli. Pure, un distino presentimento lo avvertiva che qualche cosa di grave s’avvicinava. Rob correva, gridava e cantava allegramente. La bufera non aveva nulla di spaventoso per lui.
– Strano! – diceva Kesiah, nell’ansia in cui si trovava.
La buona donna non sapeva che fare. Con quel tempaccio orribile non si potevano avventurare nella campagna né gli uomini né gli animali; e poi il vicario, che forse era sano e salvo nella casa dello squire, avrebbe ricompensata la sua premura di mandarlo a cercare, con una sgridata. Non voleva che alcuno si mettesse in iscompiglio per lui. Che fare? Che decidere?
A notte, o meglio, quando il giorno tetro si trasformava in notte nera nera, e la neve saliva sempre più alta dietro le porte e le finestre, arrivò un merciaiuolo girovago. Aveva lottato a lungo contro le raffiche colla sua gerla sul dorso. Era quasi intirizzito e chiedeva ricovero.

Era questo un uomo molto conosciuto nel distretto. Lo si ricevette, lo si fece sedere davanti al fuoco, gli si fece bere del vino caldo, e gli si promise un letto. Appena ristorato un po’ chiese notizie del vicario; e, quando udì che non era ancora tornato a casa, si rizzò turbato.
– Ma se ho incontrato il signor vicario iersera che tornava da Tamsleigh! – esclamò. – Che il Signore l’abbia in grazia! Quanto è vero Dio, si è smarrito nello scopeto.
– Siete certo che era il padrone? – uscì a dire Kesiah.
– Se ne sono sicuro! – soggiunse il merciaiuolo. – M’augurò la buona sera, e mi disse che sarebbe qui prima di me. Ma io presi subito un’altra via per portare alla sora Carew dei fermagli e del filo; e così ci separammo. Io ho dormito in casa dei Carew, donde partii questa mattina. Dio ci aiuti! E’ un uomo morto! è un uomo morto!
In mezzo alle esclamazioni, ai sospiri di tutti, nessuno si curò dei bambini fino a quando Rob esclamò:
– Anche Ray è morto!
S’accorsero allora che Ray era svenuto. – Riacquistò in breve i sensi e aperse gli occhi smarriti.
– Il babbo non volle aiutare gli uccelletti! – Mormorò.
Fremette, e si mise a piangere.
Kesiah, sotto il peso d’una sventura troppo grande per una povera donna, si fece forza, prese in braccio Ray e lo portò nel suo lettino, pregandolo, scongiurandolo di non agitarsi, perchè v’era ancora speranza. Poi ridiscese in fretta, inveendo contro il merciaiuolo che aveva avuto l’imprudenza di parlar così davanti ai bimbi; e si consigliò coi vicini su ciò che doveva fare.
Gli uomini si offersero di andare in cerca del vicario; ma non erano che quattro o cinque, fra i quali due molto vecchi. Tuttavia uscirono coi loro picconi e colle loro lanterne; un minuto erano scomparsi dietro la neve che cadeva sempre.
Avevano pensato prima di salire sul campanile per suonare le due campane; ma con quell’inferno di tempo sarebbe stata fatica perduta.
S’inoltrarono adunque in quell’oscurità spaventosa, cercando quanto meglio potevano, mentre le donne impaurite, sedute nella cucina del presbiterio, provavano uno strano e terribile gusto a udire il merciaiuolo esclamare ad ogni istante:
– Signore, aiutaci! È un uomo morto! Alla fine, Kesiah lo pregò di andarsi a coricare. Ed egli vi andò a contraggenio.
Le donne rimasero accanto al fuoco, bevendo a piccoli sorsi il loro vino aromatizzato, raccontandosi delle storie da far rizzare i capelli, storie avvenute ai tempi dei loro padri, dei loro nonni, condite da una folla di poi, di dunque, di allora.

Intanto Kesiah era seduta vicino ai bimbi. Rob dormiva: ma Ray era perfettamente desto, tremava tutto, e non cessava di ripetere:
– Il babbo non volle soccorrere gli uccelletti. Lo sapevo bene io che il Signore era irritato!
In tutta quella notte, lunga, eterna, né il vento lasciò un istante di muggire, né la neve di cadere. All’alba gli uomini tornarono dopo aver esplorato invano otto miglia della landa, come essi dicevano: ma in fatto, senza essersi allontanati più di un miglio. Essi credevano d’essere andati avanti avanti, ma invece avevano girato sempre nello stesso cerchio, senza accorgersene, a cagione dell’oscurità.

Il giorno passò grigio e tetro; la neve cadeva sempre, ma il vento s’era quetato. Kesiah prese in disparte il più giovane e il più robusto dei vicini, e lo pregò a mani giunte per amor di Dio, di fare ogni sforzo per recarsi a Tamsleigh. Era una impresa rischiosa; i sentieri erano scomparsi; le comunicazioni rotte. Ma quell’uomo nessuno era coraggioso e promise di fare quanto gli sarebbe stato possibile.
– Si faccia ciò che si vuole, – disse allontanandosi, – se ha passato la notte in mezzo alla bufera, il signor vicario è un uomo morto.
Gli altri salirono sul campanile, e suonarono a distesa.

Erano le undici della mattina, l’ora in cui il servizio avrebbe dovuto incominciare. La chiesa era piccola e oscura. Solo qua e là dei rami d’agrifoglio rompevano la monotonia delle pareti. Il vicario non amava gli abbellimenti, e non s’era potuto far nulla per decorare i muri e il pulpito quadrato, e il piccolo santuario umido ed oscuro come un sotterraneo.
Il tempo si schiarò un po’, e le donne cominciarono ad arrivare, ma non rimasero a lungo. La chiesa era fredda, gelata, e pareva più triste del solito, chè in quella mattina non c’era servizio di Natale, ed il vicario era forse sepolto sotto la neve.
Nella cucina del presbiterio, Kesiah si provava a leggere ai bambini le preghiere del mattino, ma la voce le mancava, e i bambini non l’ascoltavano.
Tutti, persino le due sorelline, erano tristi, spaventati. Ray, seduto nel vano della finestra, colla testa appoggiata contro le invetriate, non fiatava. Il suo sguardo impauriva Kesiah quasi quanto l’assenza del vicario.
– Prende le cose troppo a cuore! – pensava sospirando.

Chiuse il librone di preghiere e lasciò entrare i parrocchiani intimoriti; alcuni avevano fatto miglia e miglia in mezzo alla neve per non mancare al servizio divino, trovarono la chiesa deserta, il ministro assente.
Tutti erano persuasi che fosse morto, tanto più che un messo, sfidando la bufera, era venuto da Tamsleigh per chiedere, a nome dello squire, sue nuove.
– Non ve l’ho detto come stanno le cose, increduli che siete? – ripeteva il merciaiuolo, tronfio per l’importanza che gli dava la parte avuta in quel terribile dramma.
Adesso non v’era più dubbio possibile; – Il vicario aveva lasciato Tamsleigh, nonostante le preghiere dello squire; e si era incamminato a piedi per tornare a casa. Certo s’era smarrito per via, e non lo si vedrebbe più ritornare.
È una punizione, – mormorava Kesiah, in modo che i bimbi non la udissero, – sì, una punizione. Egli ha castigato quei poveri piccini perchè avevano dato un po’ di pane agli uccelli che morivano di fame… ed ora… ed ora egli lo sa… cosa vuol dire morire fra la neve.
Vedendo piangere le donne, Rob si mise a piangere anche lui. Ray non versò una lagrima, non fiatò: un pensiero lo dominava tutto: «Il buon Dio era adirato.»

Così passò la mattina di Natale. Sul fuoco non si vide ombra di filetto di bue, il pudding rimasto tutta la notte nella marmitta cuoceva alla meglio, nessuno se ne curava; le campane suonavano sempre. La gente cominciava ad arrivare dai punti più lontani della parrocchia. Tutti avevano da raccontare di disastri cagionati dalla bufera: di montoni agghiacciati, di cavalli morti, di viaggiatori smarriti, di ragazzi scomparsi sotto il ghiaccio. Si diceva che il treno diretto di Londra, a venti miglia di là, era stato costretto a fermarsi per tutta la notte, con tutti i suoi viaggiatori, dei quali alcuni erano morti di freddo.
Kesiah ascoltava e il suo cuore le sussultava forte. Erano le tre. Aveva messo in disparte il desinare di Natale, e dato ai bambini, che teneva raccolti intorno a sè, la minestra di tutti i giorni. Se non era l’affetto che agitava quelle piccole anime per l’assenza del padre, era il sentimento d’una gran disgrazia che pesava su di loro e li teneva immobili. Ray, sempre muto, non si moveva.

Verso le quattro era già scuro. I contadini rimanevano là, sgomenti come i fanciulli. Il giorno di Natale finiva senza servizio divino nella chiesa. Ciò parve loro qualche cosa di così terribile che credevano di vedervi un castigo del Signore. Dalle lande e dagli scopeti non veniva il minimo suono.
Le pecore belavano nelle stalle e la vacca muggiva davanti alla greppia vuota; del resto, un profondo silenzio avvolgeva il villaggio, e le persone non si parlavano che sottovoce. Kesiah si alzò improvvisamente e prendendo in braccio le due sorelline, che avevano la testina bionda avvolta ben bene nei loro cappucci:
– Natale non deve passare senza una preghiera in chiesa, – disse alle persone raccolte in cucina. – Andiamo a pregare per il padrone; almeno non avremo celebrato il Natale da Turchi.
Uscì nell’oscurità che si faceva più fitta. Seguita dai bambini si diresse alla chiesa, sotto gli alberi spogli; le donne le andarono dietro riparando sotto ai mantelli rossi le lanterne che deposero all’ingresso.
La chiesa venne cosi rischiarata da una luce pallida. Kesiah_s’inginocchiò; cominciò a pregare ad alta voce; le donne le fecero eco, e quando essa ebbe finito di pregare e gli altri tacquero, si udì in mezzo al silenzio la voce di Ray.

– Dio mio, te ne prego, non essere più adirato. Il babbo s’è ingannato, non lo fece per cattiveria. Salva gli agnelli, salva gli uccelletti e salva anche lui! Per amore del tuo nome santo, non essere più irritato, non essere…
E la sua voce si spense in un singhiozzo. Anche le donne inginocchiate nell’ombra piangevano. Poi uscirono lente lente come erano entrate. Una aveva detto: «Cantiamo un salmo;» ma non fu possibile; nessuno poteva cantare; i cuori erano troppo straziati; i loro uomini non erano tutti sulla landa? chi poteva sapere che cosa era di loro in quel momento? Kesiah, arrivata alla soglia della sua porta, si volse, e rivolta alle vicine:
– Ed ora vi ringrazio dal più profondo del cuore. Andatevene tutte alle vostre case, chè questo non è tempo di trattenersi in ciarle. Io resterò coi fanciulli. Che Dio ajuti il loro padre!
Le donne, commosse dal tono serio di queste parole, rientrarono nelle loro case. I bimbi si raccolsero vicino al focolare, attorno a Kesiah; le due piccine s’erano addormentate sulle sue braccia.
Nel retro–cucina il merciaiuolo ed un contadino, tutti e due troppo vecchi per uscire in cerca del vicario, parlavano sottovoce degli uragani di mezzo secolo addietro. Kesiah aveva acceso delle candele, e le aveva messe dietro i vetri delle finestre, perchè la luce potesse aiutare il padrone a trovare la casa.
– Signore Iddio, vieni in aiuto di queste povere anime, pensava cullando sulle braccia le bambine, e volgendo la mente ai bastimenti che si trovavano in mare, ai viaggiatori che erano sulla landa, alle mandre smarrite sulle colline. Ray fissava la fiamma, colla bocca semiaperta.
– Ti prego, Kesiah, non mandarmi a letto, – diceva; – te ne prego, non farlo.
– E perchè non vuoi andare a dormire, mio tesoro? – gli chiese Kesiah dopo aver messo tutti gli altri a letto. – Non senti che l’orologio batte le nove?
Ray tremò tutto.
– La scorsa notte, dormendo, ho visto il babbo morto in mezzo alla neve; gli uccelli del buon Dio lo coprivano di foglie. Se m’addormento lo rivedrei, ne sono certo.
– Povero piccino! – disse la buona donna.
Egli appoggiò la testa stanca sulla spalla di lei, e rimasero così insieme accanto al fuoco.
L’orologio suonò le dieci.
Si udì venire da fuori un brusio di voci e di passi, il cane abbaiava; i riflessi rossastri delle torcie rischiaravano le finestre. Ray e Kesiah furono in un attimo in piedi ed apersero i due battenti della porta. Gli uomini portavano una barella.
– Padroncino, – esclamò uno dei portatori, – è vostro padre! Abbiamo fatto una bella notte di Natale! No! No! Non è morto! Non abbiate paura!
Ray fu in un salto in mezzo alla neve.
Vi fu un istante di gran confusione.
Poi gli uomini posarono adagio adagio la barella davanti al focolare, e sollevando la coperta, mostrarono a Ray il padre coricato, colle labbra smorte che mormorava a bassa voce:
– Non temere, figlio mio!
Ray pianse a dirotto e abbracciò il padre con effusione, come non aveva mai avuto il coraggio di fare prima d’allora.
Dopo aver lasciato Tamsleigh per tornarsene a casa, il vicario aveva traversato senza incontrare ostacoli la metà della landa, non ostante la neve che gli offuscava la vista; ma, venuta la notte, si smarrì. Andò a lungo di qua e di là alla ventura, ma si sentì tanto stanco che perdette a poco a poco il coraggio. Sempre più debole ad ogni passo, giunse a una roccia incavata, dove c’era un sasso riparato da alberi grandissimi. Si sedette su quel sasso, ravvolto nel suo mantello, sperando che il giorno non tardasse molto a spuntare.
Ma una vecchia quercia sradicata dalle raffiche, era caduta con gran fracasso davanti al suo ricovero, così che gli fu assolutamente impossibile uscire di là.
Fu in quel luogo che, intirizzito, affamato, disperato, passò trenta ore imprigionato nella neve, mentre i suoi parrocchiani lo cercavano in ogni dove, mentre il suo figliuolo scongiurava il buon Dio «di non essere adirato.»
Con grandi sforzi aveva lottato contro il sonno, perchè sapeva che il sonno era la morte. Ormai egli si teneva perduto; chiuso da quella barriera impenetrabile, nessuno avrebbe potuto vederlo, nè udire la sua voce.
La morte gli si avvicinava: egli lo sentì, e rimpianse molte cose passate, e di molte si pentì. Confusamente ripensò con tristezza ai suoi poveri piccini; e si risovvenne della punizione inflitta ai poveretti perchè avevano soccorso gli uccelletti affamati, perchè avevano dato loro del pane.
E quando udì il passo dei suoi salvatori sulla neve, e i latrati del suo cane, – del cane da lui tante volte percosso e incatenato, – che guidava gli uomini alla sua prigione, il povero vicario era fiacco fiacco; e quando lo si cavò con grandi sforzi di là, egli svenne.

Ed ora egli era disteso sulla barella, davanti al fuoco che mandava degli allegri riflessi sui riccioli biondi di Ray. Aperse le braccia al fanciullo.
– Figlio mio, – disse, – sono stato severo con te perdonami! Poichè la mia vita è stata risparmiata, voglio consacrarla a rendere felice te e i tuoi fratelli.
– E gli uccelletti? – mormorò Ray.
Il padre sorrise.
– Potrai appendere ogni inverno un manipolo di grano per loro, come si fa in Isvezia, a quanto dice il tuo libro di storia. Ah, lo so adesso che significa morire in mezzo alla neve!
– Ray posò la sua testina sul petto del padre; era beato.

E quando venne la mattina, una mattina senza nubi, egli ebbe il suo manipolo sospeso sopra la porta: gli uccelletti, gli arditi pettirossi all’avanguardia, discesero pigolando allegramente, a pigliarsi il grano.
– Il buon Dio m’ha ascoltato quando gli chiesi di non essere più in collera, – disse Ray.
– Anch’io glielo ho dimandato, – soggiunse Rob.
E tutti e due tenendosi per mano, guardavano il cielo azzurro che si stendeva immenso sopra le loro teste.

Ouida.

Articolo tratto da: L’illustrazione popolare – 1883
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