IL FIUME DELLE PERLE

Di Renè De Pont-Jent.
Parte. I.
Una goccia d’acqua.

CAPITOLO I.
IL BENVENUTO DI NOZZE.

Nota: Embroidered Willow è qualche volta tradotto con Salice Ricamato o Salice Willow

Come ombre fantastiche nella morbida foschia serale che seguì la giornata torrida, si levavano gli edifici su tutte le rive bagnate dal Fiume delle Perle; gli uccelli cantavano le loro ultime canzoni; i gigli avevano chiuso le loro corolle; le ninfee si abbassavano sugli steli come in obbedienza ai gong della pagoda, suonando l’ora della preghiera serale attraverso le acque e annunciando che era arrivato il momento del riposo.
Eppure, sulla riva destra di questo grande fiume, unica via di comunicazione tra Macao e Canton, una villa, raggiante di luce e di animazione, faceva un perfetto contrasto con il silenzio e la calma che regnavano intorno.
Un’orchestra, composta di cento musicisti, emetteva note gioiose, che gli echi ripetevano da lontano; mille lanterne colorate davano un aspetto fiabesco ai magnifici giardini di cui era circondata la residenza; e le incessanti esplosioni dei fuochi d’artificio, che tracciavano solchi luminosi nel cielo senza stelle, svegliarono innumerevoli coppie di grandi piccioni azzurri, che volarono via terrorizzati dalle piantagioni di riso.

Questa villa era la dimora del giovane Ling-Ta-Lang, cioè del figlio maggiore di Ling. Si era sposato quel giorno, e il ricevimento che aveva offerto in onore del lieto evento non sembrava essere prossimo alla fine. Nessuno pensava di ritirarsi: le barche a terra imbandierate e le sedie con facchini, che dovevano ricondurre gli ospiti in città, avevano ancora molto tempo da aspettare, nonostante la naturalissima impazienza che Ling provava di allontanarsi dai suoi ospiti e raggiungere colei che era sua moglie, ma i cui lineamenti gli erano sconosciuti quanto lei quelli di suo marito. Infatti così è nel Medio Impero; eppure lì il matrimonio non è un fallimento più che altrove. In Cina i coniugi non si vedono mai finché non sono irrevocabilmente uniti. Ling sapeva solo che la sua giovane moglie si chiamava Embroidered Willow, – Salice Ricamato – e che un bambino normale di dieci anni non avrebbe potuto indossare una delle sue scarpe di raso rosa.

Il padre dello sposo, LingTien-Lo (onori celesti), uno dei mercanti più ricchi di Canton, disse una sera al figlio ed erede che era giunto il momento per lui di smettere di “SEMINARE l’avena selvatica”, e che gli aveva trovato una moglie, dotata di tutte le virtù e di ogni fascino. obbedì, poiché in Cina la mancanza di rispetto verso i genitori è severamente punita. Ben presto aveva scambiato i doni consueti con la sua sconosciuta fidanzata, e tre mesi dopo, la mattina stessa del giorno in cui inizia questa recita, aveva visto un superbo palanchino di ebano viola intarsiato d’avorio giungere alla porta.

Ne discese, accuratamente avvolto in lunghi e spessi veli di mussola a strisce oro e argento, quello che da quel momento in poi sarebbe stato il suo compagno; ma non gli era stato permesso di dirle una parola, né di farsi riconoscere. I suoi servi l’avevano rapidamente portata via per rinchiuderla nell’appartamento a lei destinato. Ling si era consolato di ciò ricordando che aveva adornato quell’appartamento con tutto il lusso immaginabile, e che ogni oggetto su cui lo sguardo di Embroidered Willow si sarebbe posato le avrebbe parlato dell’amore di suo marito.

Ma non gli interessavano più i festeggiamenti, ai quali partecipava una folla di sconosciuti, mentre suo padre riceveva alcuni dei suoi amici intimi nell’appartamento della nuora. Secondo le leggi dell’ospitalità, le porte della casa erano aperte fin dal mattino a tutti coloro che desideravano entrare. C’erano tante persone lì che il giovane Ling non aveva mai visto, ma alle cui congratulazioni era stato comunque costretto a rispondere così spesso, che al tramonto gli faceva abbastanza male la testa, e pensava solo a scappare, appena poteva, a prendere un’aria in giardino.

Calcolò che i suoi ospiti si sarebbero riversati nella grande galleria della villa, quando gli acrobati, che aveva ingaggiato da Canton, avrebbero iniziato i loro esercizi, e aspettò con impazienza che suonasse l’ora, prestando solo un orecchio distratto alle armonie della orchestra, e rispondeva solo meccanicamente ai complimenti che gli venivano rivolti. Se fosse stato meno preoccupato, avrebbe certamente notato due dei suoi ospiti, i cui sguardi spesso si soffermavano su di lui, ma con espressioni diverse, e che non partecipavano all’allegria generale.

Uno di questi era un uomo piuttosto giovane, dal viso pallido e un’espressione malinconica e severa. Dal costume e dal bottone di rame che sormontava la sua acconciatura, era facile riconoscerlo per un letterato legato alla pagoda di Fo. Era entrato nella villa contemporaneamente al palanchino della sposa; aveva seguito quest’ultima con lo sguardo finché le porte del suo appartamento non si erano chiuse dietro di lei; poi si era mescolato tra la folla, ma senza partecipare ai suoi piaceri, e sebbene più volte si fosse avviato verso la porta d’uscita, era sempre tornato sui suoi passi, come trattenuto nella dimora da una calamita irresistibile. Dieci volte durante la giornata, LingTa-Lang, che lo conosceva, lo aveva salutato con un sorriso amichevole e il giovane sapiente aveva risposto, ma con uno sforzo doloroso e una triste costrizione che avrebbero colpito qualunque uomo meno ciecamente felice del marito di Embroidered Willow.

Quanto al secondo personaggio, il cui atteggiamento contrastava anch’esso con quello dei gioiosi ospiti della villa, era un individuo sui trent’anni, magro, alto e di aspetto molto ordinario, sebbene fosse elegantemente vestito, come un ricco mercante. I suoi grandi occhi rotondi e iniettati di sangue avevano sguardi di magnetica fissità, e le sue labbra rosse e carnose, costantemente tese in un sorriso ironico, davano al suo volto un aspetto allo stesso tempo grottesco e sensuale. Non sarebbe possibile dimenticare i suoi lineamenti dopo averli visti una volta.Questo strano essere era senza dubbio arrivato proprio al calare della notte, perché i padroni di casa non lo avevano notato. È vero che aveva trascorso la maggior parte della serata nel parco. Si sarebbe detto che fosse venuto in quella residenza solo per contare i viali del giardino e studiare i gruppi di alberi.

Tuttavia, riconosciuto il letterato, con un sentimento di gioia astutamente dissimulato, decise di seguirlo nella galleria dove i giocolieri davano le loro rappresentazioni. Pur tenendosi fuori dalla vista di colui che seguiva, questo sinistro personaggio non era tuttavia lontano da lui tanto da poterlo toccare proprio nel momento in cui gli ospiti, chiamati dai gong risonanti, si precipitavano verso il teatro. Approfittando dell’improvvisa pressione della folla, staccò rapidamente, per mezzo di un pugnale, il ventaglio di lacca che il servo di Fo portava sospeso alla cintura, e, fatto ciò, indietreggiò, cedendo il posto ai curiosi che si davano di gomito, ansiosi di vedere meglio. Questo singolare furto era stato eseguito con tale astuzia che nessuno, nemmeno la vittima, se ne era accorto.

Nello stesso momento, convinto che l’attenzione di tutti fosse distolta da lui dagli acrobati, Ling scivolò dai suoi amici per sfrecciarsi in giardino, con un sospiro di sollievo, e non senza gettare uno sguardo pieno d’amore verso l’appartamento del suo moglie, dalla quale ormai lo separavano solo pochi minuti.

Embroidered Willow – Salice Ricamato

Lo straniero, i cui occhi non avevano mai lasciato il marito di Embroidered Willow da quando aveva nascosto il ventaglio rubato tra i suoi vestiti, proseguì rapidamente per l’estremità opposta della galleria e, nascondendosi dietro gli alberi, imboccò un vicolo parallelo a quello in cui stava camminando il suo sognante padrone di casa. Cento passi più avanti i due sentieri si incontrarono in mezzo a un gruppo di cactus e aloe.

Le luci si affievolivano a poco a poco, il parco era immerso in una fitta ombra. Un’ora dopo, tre colpi rapidi risuonarono alla porta dell’appartamento nuziale. A questo segnale i servi l’aprirono e, velandosi il volto, fecero posto a colui che si presentava come padrone. Poi uscirono e chiusero le porte dietro di loro. Nella villa regnava il silenzio più profondo. Soltanto i canti monotoni dei barcaioli e dei portatori di sedie, che riportavano a casa gli invitati dalle nozze di Ling-Ta-Lang, risvegliavano gli echi lungo il Fiume delle Perle.

CAPITOLO II.
IL MARCHIO DEL SANGUE.

Poiché gli architetti cinesi impiegano poco materiali pesanti, come pietra e marmo, utilizzati solo per palazzi e templi, le case in Cina non sono così del tutto ridicole come si potrebbe credere. Molte di esse, al contrario, sono dimore affascinanti, costruite secondo gli usi e i costumi di chi le abita.

Queste abitazioni raramente sono alte più di un piano e sono divise in due parti distinte: quella dove il capofamiglia riceve gli ospiti, e quella che appartiene solo alla famiglia; perché per quanto il cinese sia comunicativo negli affari, nelle feste e nei ricevimenti, è altrettanto riservato in tutte le questioni della vita domestica. Il piano terra contiene la sala da pranzo, le cucine e il bagno. Di fronte a questi si trova un appartamento dedicato esclusivamente agli antenati e agli spiriti della dimora.

Tutto è ricco e sontuoso; ma è soprattutto per le loro mogli che i sudditi del “Principe Celeste” dedicano il loro gusto al lusso.

L’appartamento in cui Ling aveva sistemato la sua giovane compagna era un modello di eleganza e buon gusto. Era un insieme di stanze splendidamente decorate, e la camera da letto, severamente vietata nell’estremo Oriente a chiunque altro tranne il marito, era incantevole. Il pavimento a mosaico era quasi nascosto sotto una stuoia morbida e spessa, fine come un tessuto di Cashmere; i tendaggi erano di pesante seta gialla, su cui erano ricamati gli eroi più fantastici della mitologia buddista; e i mobili intagliati erano di legno di sandalo, che profumava tutta l’aria intorno. Un grande divano, ricoperto di pelliccia di volpe azzurra, correva intorno a questo appartamento; cento uccelli svolazzavano nelle loro gabbie dorate; le piante più rare fiorivano in eleganti giardiniere di porcellana smaltata; e il letto, a soli mezzo metro dal pavimento, era provvisto di due grandi cuscini di raso e drappeggiato con tende di mussola di seta.

A capo del letto, sopra un tavolo di porfido, c’era uno splendido scrigno di avorio intagliato, che Embroidered Willow aprì con la più avida curiosità quando ebbe familiarizzato con tutti gli altri tesori del suo appartamento. Sospettava che quello scrigno contenesse il regalo di nozze di suo marito. Sollevando il coperchio lanciò un grido di gioia e, per il momento, rimase abbagliata. In effetti, anche la più esigente delle ragazze americane non sarebbe stata meno sorpresa e compiaciuta. C’erano squisiti braccialetti d’oro, collane di perle, grandi forcine con teste di giada, per raccogliere i capelli che la giovane moglie, da oggi, non poteva più portare pendenti sulle spalle in lunghe trecce, orecchini di corallo pallido splendidamente lavorati, dei meravigliosi ventagli, ed altri venti ninnoli di inestimabile valore.

Quanto alla graziosa sposa, le cui manine dalle unghie rosa giocavano con questi gioielli, era una famciulla di appena quindici anni, con grandi occhi vellutati e un sorriso affascinante, adorabile nella sua ingenua impulsività e nei suoi successivi stupori. Per molto tempo la vista di tutti questi ornamenti dissipò i vaghi terrori dell’innocente fanciulla, e i suoi servi la lasciarono del tutto sola alle sue nuove gioie; ma arrivò finalmente il momento in cui vennero a dirle di prepararsi a ricevere il suo sposo. Era stato loro annunciato che il banchetto nuziale era finito e che gli invitati cominciavano a ritirarsi.

Embroidered Willow arrossì e abbassò gli occhi: sentì le sue ancelle togliere uno dopo l’altro i veli che l’avevano avvolta così modestamente, e di lì a poco si ritrovò sola e tremante in quel misterioso ritiro fiocamente illuminato da una lampada di cristallo, dove risuonavano le note dell’orchestra e gli applausi degli ultimi spettatori, estasiati dagli acrobati di Canton, giungevano solo in mormorii confusi. All’improvviso sentì tre colpi alla porta esterna della sua camera, di cui le era stato spiegato il significato, e il cuore le balzò in gola. Corse e si gettò sul letto, le cui lunghe tende l’avvolsero completamente, soffocando un grido di terrore nel vedere avvicinarsi l’uomo al quale doveva appartenere, e, troppo fragile per resistere alla forza delle sue emozioni, svenne nell’istante in cui sentì un bacio, che sembrò quasi una puntura premuta sulla sua spalla.

La lampada si spense; gli uccelli si addormentarono; la notte trascorse. Trascorsero così lunghe ore, senza che un solo rumore turbasse il silenzio che avvolgeva la villa.

Quando Embroidered Willow riprese conoscenza, pensò di essere passata dallo svenimento al sonno; perché stava per spuntare il giorno e, sebbene si sentisse ancora debole, i suoi terrori erano un po’ meno acuti.

Man mano che si calmava, si sforzava di ricordare ciò che era accaduto, quasi costretta a credere di essere stata solo il gioco di un sogno; e giaceva con gli occhi chiusi, senza osare muoversi per timore di svegliare colui che doveva essere accanto a lei, e di cui sarebbe stata sempre la compagna.

Ad un tratto udì nel giardino un grande grido, che la fece tremare: seguirono poi cento altri gridi, ed ella si sollevò timidamente, ascoltando questi rumori sinistri, in mezzo ai quali le sembrava di udire il suo nome pronunciato con accenti di rabbia. Passi frettolosi risuonarono nella galleria che conduceva ai suoi appartamenti e, spalancatasi, la porta della sua camera fece entrare un uomo dai lineamenti convulsi, che si precipitò verso di lei gridando:

“Figlio mio!… che cosa hai fatto a mio figlio?”
Era Ling-Tien-Lo.

Tutti in casa lo avevano seguito fino alla porta, ma nessuno osava entrare. La giovane moglie istintivamente stese la mano per chiedere protezione al marito.

Il letto era vuoto! Spaventata, ma non capendo minimamente di cosa si trattasse, credendo di fare un sogno orribile, scivolò sul pavimento e, giunte le manine, interrogò con lo sguardo il suocero. Ma lui non la vedeva: i suoi occhi inorriditi erano fissi sul letto nuziale, le sue labbra si contraevano convulsamente senza emettere suono, e con mano tremante indicava il cuscino da cui la nuora aveva appena alzato la testa. Gli assistenti risposero a questo gesto con un mormorio di orrore e rimasero a fissare il letto.

Allora anche Embroidered Willow voltò la testa in quella direzione, ma solo per gettarsi indietro, soffocando un grido di sgomento, e cadere in ginocchio, velandosi il viso. Il cuscino di raso sul quale, cinque minuti prima, aveva dormito, portava il segno di una grande mano insanguinata; e il prezioso scrigno giaceva sul pavimento, rotto e vuoto.

I servi rimasero senza parole, non osando rompere il lugubre silenzio della scena interrotta solo dai singhiozzi della sposa di sera. All’improvviso si sentì costretta bruscamente ad alzarsi. Doveva obbedire. Il padre di suo marito, ripresosi dallo stupore, ripeté di nuovo, questa volta con furia:

“Che cosa hai fatto a mio figlio?”
“Non lo so,” balbettò lei. Pensavo che fosse vicino a me. Perché non è qui? Che cosa——“
“Perché? Disgraziata! Perché? Osi chiedere? Oh! lo saprai!”

L’afferrò tra le braccia, trasportandola con la stessa facilità con cui avrebbe fatto un bambino, e attraversando la galleria e una parte del parco, arrivò a un fitto gruppo di alberi, in mezzo al quale la lasciò cadere brutalmente, dicendo:

“Ecco, disgraziata! Guarda cosa hai fatto tu e il tuo complice a mio figlio, a colui che era il vostro signore e padrone.”

Spogliato dei suoi abiti festivi e con il volto distorto da un’ultima convulsione, il povero LingTa-Lang giaceva lì sulla sabbia, in una pozza di sangue, ucciso da una ferita aperta sul suo cuore. A questo orribile spettacolo Embroidered Willow capì di essere accusata di un crimine infame. Poi cadde a terra accanto al cadavere del marito, in mezzo ai cactus, le cui spine, già macchiate del sangue del morto, le lacerarono il viso.

Ling-Tien-Lo inginocchiato accanto al figlio

Quanto a Ling, dopo essersi pianamente inginocchiato per alcuni minuti, diede il suo ordine ai servi che trovò lì: poi tornò a casa per riprendere le sue meditazioni solitarie e lottuose sull’orribile evento che aveva così misteriosamente posto fine al banchetto di nozze, e non prestò più attenzione alla ragazza, che per lui era solo un’assassina.

CAPITOLO III.
L’ ARRESTO.

SOLA, sulla sabbia del giardino, accanto al cadavere del marito, giaceva Embroidered Willow, parzialmente coperta da un pezzo di stoffa che, più per verecondia che per pietà, uno dei servi le aveva gettato addosso, quando il prefetto di polizia di Canton, che era stato chiamato da un corriere, arrivò con la sua scorta e le sue guardie.
Questo funzionario si chiamava Fo-hop. Era un giovane intelligente, nominato da poco tempo all’importante e difficile posto che occupava, e poiché il padre della vittima godeva di un grande credito, si affrettò sulla scena, felice di avere un’occasione del genere per dimostrare il suo zelo e per dimostrare la sua abilità.
La notizia dell’assassinio del giovane Ling si era diffusa così rapidamente nel vicinato, che, nonostante l’ora mattutina, una folla enorme si era già radunata davanti alla villa. I domestici erano stati costretti a sbarrare fortemente gli ingressi, perché le minacce provenienti dall’esterno, rivolte alla giovane moglie, facevano temere che qualche persona ben disposta potesse entrare nel parco per avanzare l’opera di giustizia. Alla vista della polizia, riconoscibile dagli ornamenti rossi sul capo, la gente gridò di soddisfazione e aprì i ranghi senza aspettare di essere invitato con colpi di scarto.

Fo-hop

Fu annunciato Fo-hop, e la gente di casa si affrettò ad aprirgli la strada; ed entrò nel giardino, il cui cancello, con disperazione dei curiosi, fu subito chiuso dietro di lui. Ling-Tien-Lo, con il volto nascosto tra le mani, era seduto su un divano, a pochi passi dalla porta di casa. Il capo della polizia si avvicinò e gli toccò delicatamente la spalla. L’infelice padre alzò la testa, aveva gli occhi pieni di lacrime, e la sua ira aveva lasciato il posto a quella muta disperazione che è propria degli animi forti. Comprendendo che per il momento doveva superare il suo dolore, fece appello a tutta la sua forza d’animo e fece segno all’ufficiale di accompagnarlo; e ben presto raggiunsero la triste scena senza aver scambiato una parola.

Embroidered Willow, accovacciata a terra, piegata in due come un fiore sul suo stelo spezzato, sembrava inanimata. Solo l’occasionale sussulto del suo petto con singhiozzi convulsi indicava che era ancora viva. Quanto al corpo, vi era stata gettata sopra una grande veste di seta, e accanto a esso vegliavano due servi; ma era nelle stesse condizioni in cui era stato scoperto per la prima volta perché in Cina, come nel nostro Paese, non è consentito toccare una persona uccisa prima dell’arrivo della polizia, non solo perché i magistrati possano accertare attraverso l’esame e la posizione del corpo, in che modo il delitto è stato commesso, ma anche perché un proprietario terriero sui cui beni viene trovato morto un uomo può essere citato in giudizio dalla famiglia del defunto e condannato a pagare pesanti risarcimenti, o anche ad essere mandato in prigione.

Dopo aver gettato un’occhiata indagatrice attorno, Fo-hop pregò il padre della vittima di raccontargli ciò che sapeva di quella misteriosa vicenda. Poi, mentre Ling-Tien-Lo distoglieva lo sguardo, scoprì il cadavere e lo esaminò a lungo. Poi camminò avanti e indietro per il vicolo dov’era il cadavere, studiando il terreno alla ricerca di un indizio, evidentemente abbandonandosi a un lavoro mentale che lo preoccupava completamente. Ciò durò alcuni istanti.

“Signore,” disse infine all’infelice mercante, “vostro figlio non è stato ucciso da sua moglie: è la mano di un uomo forte che ha operato questa profonda ferita. Del resto, tutto mi fa supporre che sia stato colpito senza potersi difendere, perché non vedo traccia di lotta intorno al luogo dove giace, mentre noto, qui vicino, impronte di piedi e frammenti di rami, che indicano dove è caduto. Poichè i detriti sono macchiati di sangue, e poiché la parte inferiore degli indumenti di vostro figlio non è sporca, concludo che il pugnale non è stato utilizzato finché egli non era già adagiato a terra, immobile e alla mercé del suo assassino.”
“Che ne pensi, allora?” chiese Ling, che ascoltò tutti questi dettagli, angosciato.

“O mi sbaglio di grosso, oppure vostro figlio è stato preso nel vicolo, paralizzato e reso insensibile, forse, da due mani forti, poi portato qui e qui è stato colpito il colpo mortale. La prova di ciò è che nello spazio tra questi due luoghi, quello della lotta o dell’incontro, e quello dell’omicidio, si vedono le impronte dei piedi di una sola persona, e queste tracce sono profondamente impresse nella sabbia, come quelle di un uomo che trasporta un fardello pesante. Devo essere nel giusto. Che ne dici, Mim-po?”

Queste ultime parole erano rivolte ad un terzo personaggio, il quale, chinandosi su Ling-Ta-Lang, aveva aperto le sue vesti ed esaminava attentamente la ferita. Questo nuovo arrivato era il medico di famiglia che era stato mandato a chiamare.

“Vostra Signoria ha certamente ragione”, rispose il medico. Questa ferita è stata praticata con una mano pesante e con un coltello a due lame, che nessuna donna avrebbe potuto maneggiare; inoltre, le labbra del cadavere indicano, dal loro colore e dalla loro tumefazione, che prima di essere assassinato gli fu fatto assumere, se non veleno, almeno un narcotico stupefacente. Ma che cosa? Questo mi è più difficile da determinare per me.

“Nobilissimo Ling”, disse Fo-hop, con un sorriso orgoglioso, “puoi rimuovere il corpo di tuo figlio. Lascia che questa donna sia condotta al suo appartamento, e i servi che l’hanno assistita la sera scorsa l’attendano immediatamente. Date ordini, inoltre, che nessuno si lasci il posto.”

Embroidered Willow, pur essendo presente a questa terribile scena, non sembrava comprendere nulla. I suoi occhi stralunati vagavano dal cadavere insanguinato del marito al suocero e alle altre persone che si trovavano lì. Si sarebbe detto che tutta la sua intelligenza l’avesse già abbandonata. Quando sentì che la stavano sollevando, cercò di camminare; ma le sue membra si rifiutarono di sostenerla, tanto che fu necessario trasportarla.

Nello stesso momento i domestici che sollevarono il morto scoprirono sotto di lui un ventaglio, che fino a quel momento non era stato percepito. Uno degli uomini lo consegnò al capo della polizia.
“Questo ventaglio è di tuo figlio?” chiese quest’ultimo a Ling-Tien-Lo.
“No,” disse tristemente il vecchio, scuotendo la testa. “Non lo riconosco. E poi quella non è la sua firma.”
Il ventaglio portava, su una delle sue pieghe, un nome perfettamente distinto, anche se macchiato di sangue, e questo nome non era quello dello sposo.
“Allora è quello del suo assassino!”, gridò il funzionario. “Fatti coraggio, amico mio. Grazie a questo singolo indizio, lo scopriremo: vostro figlio sarà vendicato!”
E confidando la preziosa prova a uno dei suoi ufficiali, Fo-hop ordinò al suo segretario di seguirlo. Si avviarono tutti verso la casa dove erano stati eseguiti gli ordini del prefetto, e dove Embroidered Willow li aveva preceduti.

Fo-hop raggiunse lei e i suoi domestici nella camera nuziale. L’appartamento era ancora in disordine, come lo aveva trovato il povero padre quando aveva trascinato fuori la nuora. Il prefetto esaminò tutto con la massima attenzione, prese numerosi appunti e passò a interrogare le cameriere. Tutti erano d’accordo nel loro resoconto. Dopo aver udito bussare alla porta dell’appartamento della padrona, verso mezza notte, avevano aperto allo sposo, che avevano riconosciuto dal suo ricco costume, nonostante la semioscurità nella stanza in cui lo stavano aspettando. Si erano poi ritirati. Non sapevano, quindi, se Ling-Ta-Lang fosse uscito di nuovo, né a che ora, né se fosse entrato qualche altro uomo. Quanto a Embroidered Willow, non lo sapeva neanche lei.


“A un’ora che non so indicare”, rispose a Fo-hop, sforzandosi di essere un po’ calma, “mio marito entrò in questa stanza. Sono stato presa dallo spavento e svenni: non ho visto più nulla, non ho sentito più nulla, fino alle grida che mi hanno svegliato questa mattina. non posso dire nulla di più.”
“Come?” disse severo il prefetto di polizia. Voi non sapete il momento in cui vostro marito vi ha lasciato, non avete sentito nessuno entrare nel vostro appartamento dopo la sua partenza? Un altro uomo ha preso il suo posto accanto a voi, , ecco l’impronta insanguinata della sua mano sul cuscino dove poggiava la vostra testa, questo sconosciuto ha rotto questo scrigno, ha preso i gioielli ed è fuggito senza che voi ve ne accorgeste?”
“Non so cosa sia successo, lo giuro!” – mormorò la giovane moglie, inchinandosi di nuovo.
“Conosci questo ventaglio?” Chiese Fo-hop costringendola ad alzare gli occhi.
“No”, tentennò Embroidered Willow, “no”.
“Questo nome non ti dice nulla?”.
“Questo nome? Oh, sì: lo conosco”, rispose la ragazza sconfortata, guardando avidamente il ventaglio attraverso le lacrime, mentre le sue labbra cominciavano ad assumere un sorriso di speranza. “È quello di I-té”.
“Chi è I-té?”
“I-té è mio cugino, professore di astronomia alla Pagoda Mi.”
“Ah! Ebbene, questo I-té è l’assassino di tuo marito, perché sotto il suo corpo è stato ritrovato questo ventaglio; e tu sei suo complice.”
A questa terribile accusa, così brevemente formulata, la povera ragazza lanciò un grido di orrore e cadde a terra.
“Guardie, prendetevi cura di questo disgraziata!” comandò l’ufficiale; “deve essere consegnata alla giustizia.”
Cinque minuti dopo, un palanchino chiuso, nel quale giaceva priva di sensi Embroidered Willow, lasciò la villa, tra le imprecazioni della folla. Meno di un’ora dopo, i soldati della polizia depositarono il loro triste fardello nel cortile della prigione di Canton.

CAPITOLO IV.
IN PRIGIONE
.

Bassa, squadrata e cupa, in completo contrasto con la graziosa villa cinese sul fiume, era la prigione di Canton, situata all’ingresso della città tartara e dietro il grande bastione della seconda cinta muraria. – uno dei luoghi di detenzione più orribili che si possa immaginare. Non aveva alcuna apertura esterna tranne la pesante porta rossa che costituiva l’ingresso.

Embroidered Willow, mezza morta e portata laggiù sul palanchino della polizia, era stata messa in una stanzetta umida mentre il capo della scorta andava ad avvisare il direttore, dove era caduta su una panca di legno. Là forse avrebbe potuto ancora credere di essere soltanto tormentata da qualche terribile incubo, se i gemiti e le grida di sofferenza, che d’un tratto colpirono le sue orecchie, non l’avessero richiamata troppo presto alla realtà.

Facendo uno sforzo sovrumano, si sforzò di vedere coloro che pronunciavano quei lamenti, e si avvicinò alla stretta finestra con le sbarre che illuminava la stanza dove si trovava; ma non appena ebbe azzardato uno sguardo all’esterno, si gettò subito indietro, nascondendo il viso tra le mani. Questa apertura dava sul cortile interno dove i prigionieri subivano le pene a cui erano condannati. Alcuni erano attaccati per una gamba ad una catena di ferro rivettata ad un blocco di ghisa di tale peso che era impossibile spostarlo: quando volevano fare un po’ di esercizio, potevano correre come bestie feroci in un raggio di pochi metri.
Altri avevano i polsi attaccati a un’estremità di un pezzo di legno, la cui estremità superiore era fissata a un collare attorno al collo, e non potevano né abbassare né alzare le mani, il che era una vera e propria tortura. Uno dei criminali così sottoposti alla punizione aveva la mano e il piede destro rinchiusi in un’asse alta circa un piede, e così ammanettato era costretto a fare dieci giri al giorno attorno al cortile.
Una guardia, o meglio un boia, lo trascinava davanti per una catena attorno alla vita, mentre un altro lo picchiava per farlo avanzare. La vittima fu quindi costretta a trascinarsi sulla gamba libera, con il corpo piegato nella posizione più dolorosa.

Criminali in punizione.

Per sfuggire a quella scena ripugnante, Embroidered Willow si rintanò nella cella dove era stata rinchiusa. Nascosta in un angolo, cercava di chiudere le orecchie alle urla di angoscia di quelle infelici creature, e pensava alle proprie disgrazie, quando la porta della sua cella si aprì all’improvviso ed entrò il poliziotto che l’aveva scortata. Precedette il direttore della prigione e altri due visitatori, ai quali la vedova di Ling srivolse i suoi occhi affranti.
Il direttore era un uomo di cinquant’anni, dai lineamenti severi; e uno di quelli che lo accompagnavano non aveva nulla di appariscente nell’aspetto, né nell’abbigliamento né nei modi.

Il funzionario, tuttavia, gli mostrò il massimo rispetto e, dopo che entrambi ebbero lanciato uno sguardo stupito alla prigioniera, si scambiarono rapidamente alcune parole, che Liou-Siou, – che in cinese significa Embroidered Willow, – non udì nemmeno, perché il suo sguardo era fisso, suo malgrado, sul terzo dei nuovi arrivati. Questo individuo era un personaggio che non era facile dimenticare, una volta visto. Era un individuo immenso, spaventosamente brutto e dall’aspetto estremamente ripugnante. Il suo volto, profondamente segnato dal vaiolo, sogghignava in un sorriso cinico; i suoi occhi iniettati di sangue sbattevano le palpebre come quelli di un cervo; le sue narici dilatate e mobili sembravano annusare l’odore della carneficina. Portava un cappello di filo intrecciato ed era vestito con una tunica rossa tenuta da una cintura di cuoio nella quale c’era una frusta con cinque sferze, ciascuna terminata con un chiodo affilato. Stando sulla soglia, come per difendere l’ingresso, si appoggiò con la mano destra a un lungo bastone di bambù.

Alla cugina di I-té sembrava di conoscere già questo mostro, di averlo già visto; e senza dubbio la memoria glielo riportò all’improvviso, perché chiuse gli occhi, soffocando un grido di orrore. Si era ricordata che sua madre, per spaventarla quando era bambina e si rifiutava di obbedire, a volte le aveva mostrato, su uno dei quadri che si vendono in Cina il giorno delle esecuzioni, un uomo che somigliava a quello che aveva davanti, e che quest’uomo era il boia.

Il Boia.

Ahimè! non si sbagliava. Il mandarino che accompagnava il direttore era il magistrato incaricato di indagare sulla vicenda dell’assassinio di Ling-Ta-Lang, e le regole prescrivono che i funzionari di quell’ordine siano sempre scortati dal personaggio che deve eseguire l’ultima lettera della legge, come a ricordare loro, ogni momento, le conseguenze delle loro sentenze e la gravità dei loro doveri.

A un cenno del mandarino, il boia si avvicinò alla prigioniera. Quest’ultima si alzò velocemente quando il sinistro personaggio le tese la mano, nella speranza di sfuggire alla contaminazione del suo tocco. L’uomo sorrise con il suo sorriso bestiale e le ordinò di seguirlo. Lei obbedì trascinandosi accanto a lui, e così attraversarono il luogo del tormento, e poi una lunga galleria deserta che conduceva a quella parte della prigione riservata alle donne.

Cinque minuti dopo, la sposa di una sera sentì una porta pesante chiudersi su di lei. Ancora una volta la povera Embroidered Willow era sola con la sua angoscia, separata da sua madre, dai suoi amici, da tutti coloro che avrebbero potuto difenderla. Colei alla quale, ventiquattr’ore prima, la vita dischiudeva tante belle promesse, non aveva ormai per orizzonte che le pareti umide di un’angusta cella, e per l’avvenire solo il tribunale criminale e il suo terrificante verdetto.

Torniamo ora un po’ indietro, per vedere per quale fatale catena di circostanze una ragazza di quindici anni fosse così passata da tante gioie a tutte queste sofferenze.

CAPITOLO V.
LA RISATA DI UNA FANCIULLA.

Erano quasi le otto del mattino e, sebbene fosse solo l’ultima parte di febbraio, la giornata nella provincia di Canton si preannunciava come una di quelle belle giornate calde di inizio primavera che rendono il sud della Cina una delle terre benedette dalla Provvidenza. Il sole aveva individuato l’esile pagoda di Whampoa, in mezzo alle palme gigantesche che la circondavano con le loro ombre misteriose: indorò coi suoi primi raggi i dieci tetti di porcellana smaltata, e i gong di bronzo, che risuonavano sotto ripetuti colpi dati da sacerdoti vestiti di lunghe vesti gialle, chiamando i fedeli alla preghiera mattutina.

Il Fiume delle Perle, le cui sponde erano immerse in una nebbia opaca, sopra della quale le colline vicine apparivano come isole galleggianti, era animato da mille imbarcazioni diverse, dal leggero sampan alla pesante giunca, e le sue onde argentate riflettevano le bizzarre forme e figure grottesche dei vascelli che vi passavano sopra. Le piantagioni di riso si estendevano a perdita d’occhio, un tremulo tappeto di smeraldo, dal quale, risvegliato dai canti dei marinai, tutto un mondo alato si alzava librandosi e cantando; e l’agami – uccello che nel Medio Regno è considerato il guardiano delle pianure – alzò la testa intelligente sopra le canne, per vigilare le anatre che gli erano affidate, e che i cannoni dei forti di Bocca-Tigris, salutando l’arrivo di qualche nave straniera, spaventavata dalle loro successive detonazioni.

Anche sulla terraferma la popolazione si svegliava felice e indaffarata. Tra tutte le altre, la cittadina di Foun-Si, situata sulla riva destra del fiume, presentava già, malgrado l’ora mattutina, l’aspetto più pittoresco. Soprattutto nella Via dei battitori d’oro la folla era brillante e animata. I portatori d’acqua, nudi fino alla cintola, portavano i loro pesanti fardelli alle estremità di un lungo palo di bambù in equilibrio sulla spalla, e andavano da un posto all’altro, lanciando il loro grido rauco.

I barbieri si sistemarono davanti alle loro porte, disputando la strada con i medici all’aperto, con gli indovini, con i cardatori e gli imballatori di lana, che cardavano la lana e la confezionavano in balle per la spedizione, usando la stretta strada come fabbrica e imballatrice- sala e con i pressatori di articoli di lana, che dondolavano le loro pesanti presse di legno con la forza dei piedi, in una sorta di culla attraverso la quale veniva fatta passare la merce. I cambiavalute preparavano le loro piccole bilance d’avorio per pesare i lingotti, e i loro punzoni per segnare le piastre. I bottegai restavano sulle soglie pronti a adoperarsi con zelo, con sguardi seducenti e appelli carichi di promesse, per attirare la clientela dei passanti.

In mezzo alla folla, i bonzi, calzati di alte babbucce bianche, si avviavano a passi lenti e gravi verso il tempio di Fo, e poi, all’improvviso, le file affollate di popolo si aprivano davanti ai corridori di un mandarino della polizia, che scacciava brutalmente i curiosi a colpi di frusta. Anche i commercianti di prelibatezze da tavola preparavano i loro banchi: c’erano montagne di arance e banane; più avanti, i nidi di rondine delle Isole Ladrone e le pinne di squalo del Golfo del Bengala; qui tortini dalla crosta dorata e, accanto, file di cagnolini infarciti, per la tavola dei buongustai.

Davanti a uno di queste botteghe si sarebbe potuto vedere, con le braccia nude e il naso all’insù un grand’uomo dall’aspetto singolarissimo, tanto per l’espressione generale dei suoi lineamenti quanto per la sua corporatura particolare. Questo era Tchou, il macellaio. Le sue lunghe braccia ossute e le sue gambe interminabili, magrissime, attaccate ad un corpo tozzo, corto, di corporatura robusta, sembravano le membra di uno scheletro gigante saldato al tronco di un babbuino. Inoltre, il suo viso rubicondo era illuminato da due grandi occhi prominenti, e le sue labbra erano smorzate in un perenne sorriso beffardo. Questo insieme grottesco era la delizia, e anche il terrore, dei monelli del quartiere e dei cuochi che frequentavano il negozio di Tchou. Era soprannominato il Ragno Rosso. Infatti, quando allungava le braccia insanguinate per afferrare un pezzo di carne, somigliava più a un mostruoso ragno campestre che si avventava sulla sua preda, che a un onesto mercante al servizio dei suoi clienti.

Ma il macellaio della Via dei battitori d’oro non si preoccupava del soprannome che gli avevano dato e fu il primo a riderne, mostrando due file di denti bianchi e aguzzi, da far invidia a una tigre; e quando aveva a che fare con una bella cliente, essendo il suo negozio uno dei più frequentati della città, dava sempre qualche risposta gioviale ai suoi convenevoli. Perché Tchou era galante, cercava di compiacere ed era anche un po’ sciocco, nel suo modo di essere cinese.

Le sue sopracciglia venivano rasate ogni dieci giorni, secondo l’usanza, e la sua treccia di capelli neri veniva arrotolata intorno alla testa solo durante l’orario di lavoro. Appena ebbe finito il suo lavoro, adornò questa treccia con un nastro di seta e la lasciò pendere elegantemente lungo la sua lunga schiena; e, come tutti i cinesi rispettabili, non si allontanava mai da casa senza la sua pipa, il suo ombrellino e il suo ventaglio.

I grandi piaceri che si concedeva, quando il suo negozio era chiuso, erano una partita a carte o una pipa d’oppio in qualche casa da tè, il caffè della Cina, e le rappresentazioni drammatiche che la troupe cantonese dava di tanto in tanto nel teatro di bambù che veniva eretto in alcune occasioni importanti al centro del grande luogo di Foun-Si.

Tchou era, come si vede, un negoziante un po’ come tutti gli altri; e siccome non serviva mai misure sbagliate, vendeva carne di buona qualità, e non rifiutava mai né una tazza di tè né un sapeck, – un’infinitesima moneta cinese, – a un mendicante, godeva di una certa considerazione e, malgrado il suo aspetto singolare, e la sua aria ripugnante lo faceva passare per un uomo abbastanza buono.

Tchou era sulla soglia di casa da alcuni minuti, quando la sua attenzione fu distolta dalla folla dal rumore di una grata che girava sui cardini, al piano superiore della casa di fronte alla sua. I grandi occhi del macellaio si aprirono più che mai e il suo volto brillò di pronta ammirazione. Lo spettacolo che gli si presentò era davvero di natura tale da affascinare e da sedurre anche il cuore più insensibile.

Convinta forse che i fiori tra i quali appariva l’avrebbero protetta sufficientemente dall’osservazione indiscreta dei passanti, una graziosa ragazza sui quindici anni mostrò la sua delicata testa attraverso le rose e le ortensie che ornavano la finestra, e si preparava, supponendo di non essere osservata, a dedicare le consuete cure mattutine alle sue piante preferite. Lo sguardo curioso che dapprima lanciò verso la strada non si posò su Tchou, ma egli la divorò con lo sguardo. Nemmeno per l’usanza di un mandarino dal bottone d’oro avrebbe distolto gli occhi.

Embroidered Willow innaffia i fiori


La sua vicina era davvero affascinante nella sua cornice di fiori e di verde. Si sarebbe detto che un artista avesse tracciato, con un solo tratto del pennello intinto nell’inchiostro di Cina, le sopracciglia che descrivevano curve così aggraziate sopra i suoi grandi occhi di gazzella.

Le sue guance erano rosee e vellutate come il fiore della camelia, e le sue labbra color carminio si distinguevano appena dai boccioli rossi della lienwa su cui si chinava. I suoi bei capelli neri, divisi in due folte trecce che le ricadevano sulle spalle, dicevano che era una giovane ragazza; infatti nella provincia di Canton solo le donne sposate hanno il diritto di raccogliere i capelli sulla sommità del capo e di caricarli di ornamenti. Infine, le sue piccole mani affusolate, che maneggiavano un leggero annaffiatoio di porcellana smaltata, erano abbellite dalle loro brillanti unghie ovali, che avrebbero potuto essere scambiate per foglie di rosa.

Questo fu tutto ciò che Tchou poté scoprire sulle bellezze di questa affascinante ragazza, ma bastò a gettarlo in un’estasi perfetta; e stava attentamente osservando il suo più leggero movimento, quando una goccia d’acqua, destinata a uno dei fiori del parterre aereo, ma portata via dal vento, gli cadde nell’occhio destro e lo costrinse ad abbassare la testa. Quasi subito risuonò una risata di gioia, e il negoziante alzò rapidamente la testa; ma, per quanto rapido fosse il suo movimento, colse appena l’ultimo sorriso beffardo della bella ragazza.

L’anta a graticcio era chiusa, l’apparizione fiabesca era scomparsa; ma aveva portato con sé il cuore infiammabile del macellaio. Era un dato di fatto: Tchou era innamorato.

Dopo alcuni istanti di inutile attesa, entrò nel suo negozio, e per il resto della giornata fu più gioviale che mai con i suoi clienti. Potevano chiamarlo Ragno Rosso quanto volevano, non gli importava; ma quando giunse l’ora della chiusura, senza attendere i clienti ritardatari, chiuse il negozio, e fu visto affrettarsi a passi rapidi verso le rive del Fiume delle Perle.

CAPITOLO VI.
GLI AMORI DI TCHOU.

Verso l’alba del giorno seguente, il macellaio della via dei Battitori d’Oro aprì la sua bottega e iniziò a servire i suoi numerosi clienti con il consueto zelo. Tuttavia, diversi di loro furono costretti a dargli due volte lo stesso ordine, cosa che non era mai successa prima a memoria di alcun cuoco.
Evidentemente Tchou era preoccupato. Mentre sbrigava i suoi affari, lanciava spesso sguardi furtivi, non solo verso la finestra dove la sera prima era apparsa la ragazza, ma anche verso la porta di casa sua, come se aspettasse che qualcuno uscisse.
Infatti, nelle ultime ventiquattr’ore, il Ragno Rosso aveva preso le sue misure e aveva cominciato a tessere la sua tela.
L’amoroso mercante aveva saputo che la sua graziosa vicina si chiamava Liou-Siou e che viveva sola con sua madre, di cui era unica figlia. Il motivo per cui non sapeva nulla di tutto questo prima era perché il padre di Liou-Siou era morto da diversi anni, e in Cina le donne escono molto raramente. Quindi non aveva mai avuto occasione di vedere o incontrare coloro che ormai lo interessavano tanto. Aveva saputo, inoltre, che una giovane ragazza, che aveva spesso notato tra i suoi clienti, era la loro serva, ed era questa cameriera che aspettava con impazienza, avendo deciso di acquistare i suoi buoni uffici, ad ogni costo.
Il povero sciocco pensava davvero che Liou Siou si fosse accorta di lui nella sua grottesca fatuità, aveva preso il piccolo incidente della goccia d’acqua per una provocazione, e si disse che il minimo che potesse fare era dichiararle il suo amore senza indugio. Perciò aveva scritto, su una superba carta color rosa, una lettera ardente, ispirata dalle sue fantasticherie. sulle rive del Fiume delle Perle, e aveva intenzione di inviarla all’indirizzo di lei.
Si vedrà che il nostro eroe aveva ottimi motivi per preoccuparsi. Cominciava perfino a disperare; quando, all’improvviso, proprio mentre si era appostato, probabilmente per la decima volta, sulla soglia della sua bottega, la porta di fronte si aprì e apparve la serva cercata. Era una donna di diciotto o vent’anni, vivace e di buon umore, come lo sono tutte le ragazze del popolo cinese, alle quali il costume permette la più perfetta libertà.
Quando la vide, Tchou si ricordò che si chiamava Me-Koui, vale a dire, Rose; e non dubitò, neppure per un istante, che sarebbe riuscito a legarla ai suoi interessi. La chiamò, lei attraversò in fretta la strada, e quando lui le chiese, con tutta la grazia di cui era capace, di farle subito i suoi acquisti, lei lo seguì nel negozio senza esitazione.

“Ascolta”, le disse subito, perché voleva approfittare del fatto di essere per il momento solo con lei. “Sei al servizio della signora Liou-Siou?”.
“Sì”, rispose Me-Koui, piuttosto sorpresa da questa domanda, perché si aspettava piuttosto alcuni di quei complimenti che il macellaio era solito fare.
“La signora Liou ha una figlia?”, continuò Tchou, senza dare l’impressione di percepire lo stupore di Rose, “una figlia giovane e graziosa?”.
“Come fate a saperlo?”, disse la serva, sopraffatta dallo stupore.
“L’ho vista mentre innaffiava i fiori. Sicuramente osserva anche me, e io sono innamorato di lei”.
“Voi, innamorato?”.
“Cosa c’è di strano in questo?”. Mentre lo diceva, le fece scivolare in mano una piastra.
“Oh! – niente”, – rispose Me-Koui, soppesando il pezzo di denaro, che per lei rappresentava un mese di fatica. “Perché no, dopotutto?”.
“Mi assisterai? Oh! Non temere, le mie intenzioni sono solo buone: il mio unico desiderio è quello di sposare la tua adorata padrona. Si chiama Liou-Siou?”.
“Sì”
“Bene! Portale questa lettera all’affascinante Liou-Siou, e potrai contare sulla mia eterna gratitudine”.
Porse la sua famosa lettera d’amore alla giovane, ma lei fece un passo indietro con un gesto di spavento.
“Non vuoi?”, le chiese, avvicinandosi a lei. “Può essere fidanzata?”.
“No”, tentennò Rose, “ma questa è una questione molto seria”.
“Ma io desidero sposarla. Sono ricco; inoltre, sono sicuro di non dispiacerle. Per diversi giorni ci siamo scambiati degli sguardi”.
Naturalmente non era la verità, ma lui voleva essere sicuro del successo.
“Ah! Allora le cose cambiano”, disse Me-Koui, soffocando uno scoppio di risa e abbassando le palpebre sui suoi beffardi occhi a mandorla. “Va bene! Datemi la tua lettera. La porterò alla signorina Liou”. E, strappando leggermente il biglietto dalle mani di Tchou, se lo infilò in seno.
“Quando?”
“Il più presto possibile; ma dovete avere pazienza. Capite che non posso affrettarmi a consegnare questa lettera alla mia signorina. Prima devo parlarle un po’ di voi”.
“Sì, è vero. Bene, agisci per il meglio e cerca di ottenere una risposta da lei”. Detto questo, fu costretto a fermarsi; perché entrarono in negozio diverse persone, che dovette servire.

Rose approfittò dell’occasione per fuggire, ma il giorno dopo, e in seguito, non mancò di fare visita al negozio di Tchou. Solo che, vuoi per caso, vuoi perché la scaltra domestica preferiva che fosse così, capitava sempre che entrasse quando il negozio era pieno di gente. Il poveretto faceva del suo meglio per trattenerla, ma lei non rispondeva mai se non mettendosi un dito sulle labbra e, dopo aver fatto i suoi acquisti, fuggiva.

Le cose andarono così per una settimana e il nostro eroe, non sapendo cosa pensare, cominciò a perdere la testa, perché il suo amore aumentava in proporzione diretta alla sua incertezza; ma un giorno, cedendo finalmente ai suoi sguardi imploranti, Me-Koui rimase finché tutti gli altri clienti non furono usciti dal negozio.

“Ebbene?”, domandò lui impaziente, “hai consegnato la mia lettera?”.
“Sì”, rispose lei; “ma, vi assicuro, non senza qualche problema”.
Lui capì e corse alla sua cassetta dei soldi, da cui prese una manciata di spiccioli, che fece scivolare nella mano della giovane ragazza: “Cosa rispose la tua padrona?”.
“All’inizio si è arrabbiata e mi ha restituito il tuo biglietto, minacciando di raccontare tutto a sua madre; ma l’ho pregata di non farlo: Le ho detto che l’amavate più di quanto foste in grado di esprimere, che eravate ricco, generoso e che volevate sposarla”.
“E poi?”, mormorò Tchou, tremando per l’emozione.
“Poi la signorina Liou lesse la vostra lettera, arrossì e andò alla finestra, senza dubbio per osservarvi attraverso la grata.
Poi è tornata da me, mi ha restituito la vostra dichiarazione perché sua madre non la trovasse e si è gettata tra le mie braccia”.
“E dopo questo, mia piccola Rose, dopo questo?”.
“Ma non c’è altro. È passato l’altro ieri. Da allora non si parla più di voi. La signora Liou è quasi sempre con sua figlia. È solo per caso che mi trovo da sola con lei”.
“Mi risponderà?”
“Ah! Questo non lo so. Quello che so, però, è che ora è spesso nascosta dietro i suoi fiori”.
“Davvero? Allora posso chiederla in sposa, io…”.
“Come andate avanti! Non fatelo: perderete tutto! Vi ho detto che dovete avere pazienza. Se non ne avete più, ho chiuso con voi”.
“Oh! Non mi abbandonerai ora! Dal momento che lo desideri, non mi muoverò: Seguirò il tuo consiglio. Ma almeno fatti dire qualche parola per me dalla tua adorabile padrona”.
“Ci proverò, anche se non è certo che ci riesca. Capite che un giovane ben educato difficilmente può scrivere a una sconosciuta”.
“Il giorno in cui porterai anche solo due righe da lei, potrai scegliere il più bel braccialetto di giada di tutto il negozio del mio vicino Shio, il gioielliere”.
“Vedrò. Nel frattempo, non una parola, non un gesto! Tanto per cominciare, ora state zitto”.

Alcuni clienti di Tchou entrarono e, vedendolo in conversazione con la sua vicina, cominciarono a scherzare con i due. Ma il macellaio era diventato invulnerabile: si limitò a rispondere ai loro convenevoli soltanto con la sua solita risata da cavallo, e si fregava le mani. Quanto a Rose, i cui modi erano abbastanza disinvolti da consentire quasi ogni libertà, finse tuttavia imbarazzo e se ne andò arrossendo.
I giorni passavano senza alcun progresso nelle relazioni amorose di Tchou. Rose veniva quasi ogni mattina, ma solo per ripetere quasi le stesse frasi: “La signora Liou osservava sua figlia; non voleva che lei parlasse; doveva avere pazienza; il momento non era ancora arrivato”; e mille altre cose simili che lo portavano alla disperazione.

Il poveretto non ebbe un attimo di pace: perdeva percettibilmente carne e, nonostante gli sforzi che faceva per apparire calmo, i suoi clienti, per i quali non aveva le parole piacevoli di un tempo, cominciarono a notare il cambiamento in lui. Mentre li aspettava, era pensieroso e, finito il suo dovere, si accucciava dietro una delle persiane semiaperte del suo negozio, rimanendovi per ore intere, senza mai staccare gli occhi dalla finestra della sua amata, tremando al minimo svolazzo dei fiori che la adornavano, immaginando in ogni momento che lei stesse per apparire in mezzo alla sua cornice profumata per sorridergli, agendo, di fatto, come un innamorata che si crede adorata.

La sua campagna di osservazione fu molto sfortunata; poichè, un bel giorno, nel momento in cui meno se lo aspettava, vide un giovane, che gli era sconosciuto, bussare alla porta della signora Liou, e quando Rose aprì, osservò, con allarme, che lei gli aveva dato un’accoglienza amichevole. Il giorno dopo, quando lo sconosciuto si presentò una seconda volta, la cameriera lo fece entrare con le stesse attenzioni, e Tchou si sentì rodere il cuore dalla gelosia. A lui il nuovo arrivato sembrava un pericoloso pretendente, poiché gli era stato permesso di entrare dalla porta che era chiusa per lui.

Ma Rose dissipò le sue paure. Affermava che quello che lui aveva preso per rivale era un nipote della signora Liou, che non poteva sognarsi di sposare sua figlia: in primo luogo perché era senza fortuna; e poi perché intendeva diventare sacerdote presso la pagoda di Buddha, dove già era professore di astronomia. La creatura maliziosa non omise di aggiungere che, inoltre, Embroidered Willow era ben lungi dal trovare sua cugino di suo gusto; che solo lui, Tchou, aveva attirato la sua attenzione e il macellaio, completamente rassicurato, ritornò in toto alle sue speranze.

Una cosa lo inquietava in mezzo ai suoi sogni di felicità: il silenzio della sua bella vicina. Non riusciva a spiegarsi perché non gli scrivesse qualche riga, perché non gli facesse qualche cenno amichevole dalla finestra, perché insomma non manifestasse in alcun modo l’interesse che provava per lui. Aveva finalmente deciso di avere un’intesa seria con Me-Koui, quando lei, che sembrava sempre indovinare i suoi pensieri, una mattina lo prese da parte per dirgli: “La signorina Liou non può scrivervi; ma stasera, quando i gong del tempio suoneranno le sette, passate lentamente davanti alla sua porta e avrete sue notizie;” e corse via, facendo segno a Tchou di essere molto prudente, e lasciandolo pazzo di gioia e di speranza.

Quel giorno i suoi clienti lo trovarono affabile e attento come un tempo; solo che si affrettò a sbrigarei suoi affari molto più del solito e non erano ancora le sei quando, appena sbarbato e vestito con gli abiti della festa, era pronto a recarsi all’appuntamento. La lunga ora che doveva aspettare gli sembrò infinita. Nascosto dietro la porta semiaperta, aspettava il momento propizio, maledicendo le persone che andavano e venivano, minacciando di essergli d’intralcio, e giurando che il battitore di gong del tempio era in ritardo. Finalmente arrivò la notte e con essa la strada divenne deserta; e Tchou, ritenendo che il momento fortunato non fosse lontano, scivolò lungo il muro, nell’ombra. Era lì da pochi minuti quando suonò il primo colpo di gong.

Allora avanzò gentilmente, ascoltando ansiosamente e trattenendo il respiro; e quando fu esattamente sotto la finestra di Embroidered Willow, alzò la testa, sentì un oggetto leggero cadergli sul viso e lo afferrò. Poi, sebbene fosse assolutamente solo in strada, fuggì come se avesse commesso un furto.

Duecento piedi più in là, si fermò davanti alla porta di un medico e alla luce della lanterna verde che la adornava (in Cina i medici sono obbligati a tenere illuminate le loro abitazioni durante la notte) esaminò il misterioso messaggio. Era composto da due boccioli di rosa, uno bianco, l’altro rosso, che erano legati insieme da un nastro d’argento simile a quello che la sua adorata usava per legare le lunghe trecce dei suoi capelli neri. A questa vista il romantico macellaio quasi perse la ragione. Per lui quei due boccioli di rosa uniti non erano altro che un eolem, una casta dichiarazione da parte di colei che amava e che, ormai ne era sicuro, amava lui.

Si affrettò a casa per riflettere con calma sui mezzi che avrebbe dovuto impiegare per farsi ricevere dalla signora Liou. Quando finalmente andò a dormire, verso la metà della notte, il suo piano era pronto. Aveva deciso di consultare, il giorno successivo, una delle matrone più sagge della città, la mei-jin nota per essere riuscita nella più difficile delle imprese coniugali. Le mei-jin sono le vecchie donne che si occupano dei preliminari del matrimonio. Nessuna unione in Cina viene realizzata senza la loro intermediazione. È solo quando i Mei-jin hanno fatto accettare le condizioni dei loro candidati da ciascuna delle famiglie interessate, che queste famiglie si scambiano le prime visite. Tutti allora possono vedere la giovane, tranne il suo futuro marito, che è costretto ad accontentarsi degli elogi del suo mei-jin e delle affermazioni dei suoi genitori.

Ma Tchou non aveva bisogno di vedere Liou-Siou: conosceva il suo sorriso da molto tempo, e Rose non aveva trascurato di descriverla in modo ancora più completo. Egli era dunque più avanti di molti altri, e le cose, secondo il suo punto di vista, avrebbero dovuto procedere più rapidamente del solito, poiché era pronto a sacrificare metà delle sue ricchezze per fare a colei che già chiamava la sua promessa sposa, regali degni di lei e della sua bellezza.

Pieno di questi pensieri, aprì il suo negozio all’alba, con una sola intenzione: far conoscere i suoi progetti a Me-Koui e lanciarsi immediatamente nella campagna. Purtroppo attese invano la giovane serva: lei non venne; ma, essendo ormai completamente deciso, non appena esauriti i suoi doveri, si vestì. La sua toilette fu completata in venti minuti al massimo, scese allegramente e si avviò sbattendo la porta dietro di sé.

Ma all’improvviso i suoi occhi divennero stravolti e, tremando sulle lunghe gambe, cadde all’indietro contro il muro per sostenersi. Ben presto, passandosi la mano sulla fronte come per scacciare l’allucinazione di cui credeva di essere vittima, attraversò la strada con un balzo e, giunto sulla soglia della porta della signora Liou, lanciò un grido inarticolato. Lesse, su ciascun lato dell’ingresso, l’avviso rosso che, a norma di legge, è affisso su ogni residenza dove si celebra un matrimonio.

Dapprima ci volle credere; e, sforzandosi di calmarsi, lo lesse una seconda volta. Ma non c’erano dubbi: il nome della fidanzata, quello del futuro marito, il giorno della loro unione, tutto sembrava uscire dal muro in lettere di fuoco. Sì, era Liou-Siou che avrebbe sposato un altro, un altro oltre a lui, Tchou, di cui lei allora si era presa gioco.

Gli occhi dell’uomo disilluso si iniettarono di sangue, la sua testa sembrava vorticare, le sue labbra mormoravano parole incomprensibili. All’improvviso una strana trasformazione si manifestò sul suo volto. Si raddrizzò, gettò una rapida occhiata attorno e, vedendo che nessuno lo aveva osservato, si allontanò rapidamente; poi, dopo aver fatto una deviazione, tornò a casa con aria tranquilla, come se fosse tornato dalla sua consueta passeggiata.

Ma appena fu solo, diede libero sfogo alla sua ira; e la piccola stanza inferiore, alla quale i nostri lettori sono già stati introdotti, divenne il teatro di uno spettacolo orrendo. Dopo essersi tolto l’abito festivo, Tchou si armò di un grosso coltello come quelli usati in tutto il suo mestiere, e brandì la sua arma minacciosa contro la casa di colei che accusava di averlo ingannato. I suoi occhi brillavano come quelli di un pazzo, schiumava alla bocca, pronunciava le bestemmie più orribili e le minacce più atroci.

Non era più Tchou il grottesco, Tchou l’amante: era il brutale macellaio, l’orribile Ragno Rosso, assetato di vendetta. Dopo un po’ si calmò un po’; poi, caduto su un sedile, vi si accovacciò, con il mento tra le mani e gli occhi semichiusi.

CAPITOLO VII.
DIETRO LA PROFUMATA TENDA DI SALICE RICAMATO.

ROSE, come abbiamo visto, era ben lontana dall’aver detto a Tchou l’esatta verità. Nella casa di fronte alla sua, nessuno, a parte lei, gli aveva rivolto un pensiero.

Questa casa, di cui solo due o tre finestre si affacciavano sulla strada, come è consuetudine quasi ovunque in Cina, era occupata da una donna ancora giovane, sebbene fosse la madre di Salice Ricamato. Suo marito, morto da qualche anno, l’aveva lasciata in un’ottima posizione sociale e, poiché nell’Impero di Mezzo le donne rispettabili raramente si sposano una seconda volta, la signora Liou si era dedicata interamente all’educazione della sua unica figlia, che era cresciuta perfetta sotto ogni aspetto.

Su un punto, almeno, Rose non aveva esagerato: Salice Ricamato era davvero la ragazza più bella di tutta la provincia. Inoltre, il suo carattere era adorabile e la sua mente colta quanto consentito dalle leggi del suo paese, dove se le donne sanno leggere, scrivere, dipingere e ricamare, non è richiesto altro. Probabilmente ci vorrà ancora un po’ di tempo prima che le ragazze si trasformino in medici, sulle sponde del Fiume delle Perle. La felicità domestica in Cina è considerata in qualche misura dipendente dalla relativa ignoranza di mogli e madri.

La signora Liou viveva così quasi sola con sua figlia, poiché non aveva parenti in città, tranne suo nipote l-té, al quale era molto affezionata e che era sempre felice di vedere. Questo nipote era un bel giovane di ventidue anni, orfano fin dall’infanzia, il quale, trovandosi senza eredità, si era messo in testa di diventare un letterato, professione che in Cina porta alle più alte cariche. Grazie alla zia, che lo aveva aiutato negli studi, aveva superato gli esami preliminari in maniera così brillante che, nonostante la giovane età, era già liou tsai, un grado che gli dava il diritto di portare il bottone di rame. Questo primo successo gli diede diritto anche di diventare professore di astronomia alla Pagoda Mi.

Tuttavia, mentre osservava le stelle, I-té a volte dava un’occhiata anche intorno a sè sulla terra; e quando andava a trovare la madre di Salice Ricamato, l’intimità in cui si trovava naturalmente coinvolto con lei lo portò a innamorarsi della sua bella cugina.

Ma la signora Liou percepì questa passione nascente al momento opportuno, e poichè, con legittimo orgoglio materno, sognava un matrimonio più brillante per sua figlia, fece capire al povero I-té che non avrebbe mai potuto essere suo genero. Il giovane si sottomise rispettosamente a questa decisione, alla quale sapeva che non c’era appello; e per sopraffare il suo amore si dedicò al suo lavoro più assiduamente che mai, lasciando la pagoda solo a rarissimi intervalli.

Questo tempio di Mi è un celebre luogo di pellegrinaggio: i pellegrini vi giungono dagli estremi confini della provincia. Ricchi e poveri implorano Chin, i primi per la continuazione dei loro benefici, i secondi per la cessazione delle loro miserie.

Un giorno, quando il nipote della signora Liou ebbe terminato le sue devozioni e stava per ritirarsi, fu colpito, mentre passava davanti all’altare, dal fervore con cui uno sconosciuto si stava rivolgendo alla divinità. Lo sconosciuto era un personaggio distinto, lo si capiva dal suo aspetto; e pregava a mezza voce, il che diede a I-té l’opportunità di sentire che stava implorando Buddha di permettergli di trovare per suo figlio una moglie degna della sua unione.

La parola matrimonio, mentre evocava con forza nella mente dello studioso un triste ricordo, portava sempre alle sue labbra l’amato nome di Salice Ricamato, di cui non avrebbe mai potuto sognare di diventare marito, ma al quale augurava ogni felicità; così, del tutto spontaneamente, con quel semplice e vero eroismo di tutti i cuori devoti, si rivolse al pellegrino e, dopo averlo salutato cerimoniosamente, disse:

“Signore, ho ascoltato la vostra preghiera. Chin senza dubbio desidera esaudirla, poiché sono in grado di esaudirla.”
“Che Cosa! tu?” – chiese stupito lo sconosciuto, esaminando con curiosità il suo interlocutore.
“Io stesso.”
E dopo aver detto allo sconosciuto chi era, parlò di Liou-Siou come di colei che possedeva tutto il fascino e tutte le virtù che poteva desiderare nella moglie di suo figlio. Metteva persino così tanto calore nelle sue lodi, che la persona a cui si rivolse non poté trattenere un sorriso mentre diceva:

“Siete un parente eccellente: ma visto che siete il cugino di questa ragazza, perché non la sposate?”.
“Non sono abbastanza ricco”, rispose I-té, arrossendo. “Inoltre, intendo dedicare tutta la mia vita allo studio”.

“Questo cambia la situazione, ovviamente, e posso solo ringraziarvi. Invierò oggi stesso e chiederò il permesso alla signora Liou di presentarmi; e se sua figlia è come l’hai descritta, vi dovrò la più grande gratitudine, perché la chiederò in sposa per il mio erede. Mi chiamo Ling-Tien-Lo e sono uno dei membri degli Hoppo. Quindi vedete che se questa unione avrà luogo acquisirete tutti i miei crediti”.

La Hoppo è una società commerciale di Canton, ricchissima, onnipotente riguardo alle entrate doganali delle province del Sud, che specula pesantemente sui tè: insomma, una sorta di Stato nello Stato.
Un po’ vergognoso di essersi rivolto a un personaggio così importante con così poche cerimonie, il giovane sapiente si scusò, diede l’indirizzo di sua zia e si ritirò, inchinandosi rispettosamente, ma con gli occhi pieni di lacrime.

Lasciandosi così influenzare da un sentimento di abnegazione, non poteva ancora fare a meno di sentire di aver innalzato una barriera insormontabile tra colei che amava e se stesso. Desiderava vedere la signora Liou e sua figlia per l’ultima volta, raccontare ciò che era accaduto alla pagoda Mi e salutarle per sempre. Non avendo trovato la parente in casa durante la prima visita, ritornò il giorno successivo: erano queste le due visite che avevano suscitato la gelosia di Tchou.

Nel frattempo il ricco Ling non perse un attimo: ventiquattr’ore dopo il suo incontro con I-té inviò confidenzialmente un meijin alla madre di Salice Ricamato, e due settimane dopo le due famiglie erano giunte ad un’intesa, ed il matrimonio di Fu deciso Liou-Siou e Ling-Ta-Lang. Il padre dello sposo era rimasto incantato dalla fanciulla, e il figlio, al quale, secondo l’usanza, non era stato permesso di vedere colei che sarebbe diventata sua moglie, credette implicitamente al racconto del padre e attese con impazienza la giorno della cerimonia.

Quanto a Salice Ricamata, dopo aver accettato con sottomissione il marito che le aveva offerto la madre, forse soffocando di tanto in tanto un sospiro di rammarico pensando al cugino, ella tuttavia, da vera figlia di Eva, era immensamente interessata ai preparativi del suo matrimonio; mentre il macellaio amoroso, come abbiamo visto, si lasciava illudere da Rose, e sognava che presto sarebbe diventato il marito della sua graziosa vicina. Sappiamo quanto terribile fu il suo risveglio.

Il giorno successivo alla sua crudele scoperta, Tchou aprì il suo negozio come al solito, e i suoi clienti non sospettarono mai le sue torture, tanto perfettamente aveva composto i suoi lineamenti; ma Me-Koui non osava avvicinarsi a lui, perché sapeva che doveva aver visto l’avviso rosso che annunciava il matrimonio della sua padrona, e temeva la sua ira. Passarono diversi giorni, quando una mattina, mentre la cameriera aspettava un momento favorevole per uscire senza che Tchou se ne accorgesse, per comprare le sue provviste in un altro quartiere, notò che la sua porta e le finestre erano chiuse. Lei si informò e le fu detto che la sera prima, dopo aver sistemato i suoi affari, aveva annunciato ai suoi amici che avrebbe lasciato la città per sempre. Alcuni pensavano che intendesse andare in America; altri dissero che, stanco del paese ed essendo nomade per natura, desiderava semplicemente stabilirsi in un’altra provincia.

Questo è tutto ciò che Rose riuscì a sapere e questa improvvisa partenza la terrorizzò. Sopraffatta dalla paura e dal rimorso, pensò per un momento di raccontare tutto alla signora Liou; ma per l’avversione di incorrere in rimproveri le fece rimandare questa confessione, e l’ora fissata per il matrimonio di Liou-Siou arrivò senza che lei avesse osato parlare. Quando la sua mente si calmò un po’, decise che forse Tchou si era ucciso per la disperazione; e, senza dargli nemmeno un rimpianto, non pensò più a nulla se non a farsi bella per le nozze.

Il giorno in cui Salice Ricamato entrò nella portantina che l’avrebbe portata da suo marito, era da tempo che a Foun-Si non si pensava più al macellaio della Strada dei Battitori d’Oro. Non c’era più traccia di lui, tranne un enorme ragno rosso che i ragazzi di strada del quartiere avevano disegnato sulla saracinesca della sua bottega, uno schizzo orrendo che spesso faceva tremare Me-Kour, anche dopo che la pioggia lo aveva quasi cancellato.

CAPITOLO VIII.
LA TORTURA.

DOPO la partenza del boia, – si ricorderà che egli l’accompagnò alla porta della sua cella, – e quando ebbe sentito i pesanti chiavistelli tirati sulla porta che la separava dal mondo esterno, Salice Ricamato si accovacciò su una rozza stuoia, dove rimase per molte ore immobile, senza avere la forza di raccogliere i pensieri, e temendo di perdere la ragione.

Finalmente, essendosi gradualmente calmato il suo primo turbamento, cominciò a rendersi conto della sua situazione, e il suo cuore volò subito a sua madre, che non poteva rimanere a lungo all’oscuro di ciò che era accaduto a colei che aveva desiderato rendere felice, la sua cara figlia, accusata di un crimine orribile. Ricordò allora la sua infanzia, circondata da ogni cura e affetto, nella sua cameretta sulla via dei Battitori d’oro, Rose, i suoi fiori cari, le sue semplici e dolci occupazioni quotidiane, il povero I-té, che il prefetto di polizia osò accusare; e ad ognuno di questi ricordi le lacrime le scorrevano a torrenti dai suoi occhi.

Quanto a quell’episodio spaventoso, avvolto da un mistero così profondo, lei si rifiutava ancora di prestarvi fede: negava a se stessa che potesse essere possibile, e chiudeva gli occhi, pregando Buddha che le portasse via l’orrendo incubo; ma quando apriva gli occhi e il suo sguardo si posava sulle pareti della cella, non poteva più dubitare della sua sventura.

Ben presto venne la notte, e con essa una nuova serie di terrori che, sebbene di natura diversa da quelli patiti fino a quel momento, non furono meno spaventosi. Era sola in quel luogo infame, abbandonata da tutti, forse in balia di quel terribile individuo che non riusciva a scacciare dalla sua mente. La stretta grata della sua cella lasciava passare solo pochi raggi di luce provenienti dai fuochi che illuminavano la prigione, e, benché morisse di fame, non osava muoversi per raggiungere la focaccia di riso e la tazza d’acqua che ricordava di avere vista in un angolo quando era stata messa in cella. Le sembrava che, se avesse allungato la mano nell’oscurità, avrebbe potuto metterla su qualcuno di quegli insetti immondi di cui il muro portava tracce e che immaginava di sentire strisciare intorno a lei. I gemiti dei torturati giungevano continuamente alle sue orecchie, come a dimostrarle che in quel luogo abominevole il dolore era senza fine.

I capelli sciolti le ricadevano sulle spalle, coperte da un mantello di lana scura, invece dello splendido abito da sposa che aveva indossato nella villa di Ling; le palpebre dei suoi bei occhi, consumati dalle lacrime, erano rosse e gonfie; le sue guance pallide e infossate erano già solcate dal pianto; le sue labbra erano contratte da un singhiozzo incessante; e le pantofole di raso rosa che portava ai piedini erano macchiate di fango e sangue.

Il mattino dopo, verso le nove, sentì un passo pesante vicino alla sua cella: i cardini scricchiolarono, la porta si aprì e lei cominciò a tremare, aspettandosi di rivedere il boia. Non era lui, per fortuna. La persona che entrò nella sua cella era una donna anziana, di aspetto meschino, ma il suo volto era dolce e triste. Volse gli occhi sbiaditi verso la prigioniera e sembrò interrogarla con lo sguardo. La ricamata Willow si sentì subito rassicurata, e tese le mani verso la nuova arrivata, mormorando con un filo di voce: “Ho fame. Ho freddo.”

La vecchia si avvicinò rapidamente e l’avvolse in una delle coperte di lana che aveva portato, quindi offrì alla povera fanciulla un pezzo di torta di riso, invitandola con un gesto a mangiare. La sfortunata creatura obbedì meccanicamente; e avendo in parte placato la sua fame, mille domande le salirono alle labbra. Voleva sapere se sua madre era stata informata, se i giudici l’avrebbero presto interrogata, se sarebbe dovuta rimanere a lungo in quel luogo lugubre, dove l’acqua gocciolava dai muri, dove il terreno umido era come una fogna infetta, dove la paura sicuramente l’avrebbe presto fatta impazzire. Ma la sconosciuta non rispose, benché i suoi lineamenti esprimessero la più viva compassione.

“Oh, una parola! Ti imploro, una parola! Che cosa faranno di me?” supplicò Willow Ricamata, che quel silenzio terrorizzava.
La donna fece segno con la testa che non poteva rispondere.
“Perché hai paura?”
“No, no,” dichiarò la guardiana con un gesto; e indicando le labbra fece comprendere all’interrogante che era privata dell’uso della parola.

La figlia della signora Liou abbassò la testa: fu costretta a rinunciare alla speranza che il suo cuore ferito aveva così presto accolto. Tuttavia, tra lei e la sua carceriera si stabilì presto un’intesa. Willow ricamata le diede due anelli, pregandola di venderli e di procurarle due o tre stuoie spesse e pulite su cui potesse sdraiarsi, alcune scarpe e cibo diverso da quello ordinario della prigione. La muta le promise di fare tutto questo senza indugio; ma quando parlò di portare un messaggio a sua madre, la vecchia rifiutò con un’espressione di terrore tale che la più giovane non osò insistere.

Ma pensava che non fosse possibile che sua madre potesse rimanere a lungo all’oscuro di ciò che le era accaduto, o la polizia era andata da lei a Foun-Si, e lei sapeva già tutto quello che era successo, o non aveva ricevuto la visita suo genero avrebbe dovuto farla il giorno dopo il matrimonio, secondo l’etichetta della società cinese, lei sarebbe andata a villa Ling e avrebbe saputo tutto. Non poteva tardare ad arrivare, questo pensiero diede un po’ di coraggio alla povera bambina.

Ma quando passarono tre giorni senza che ricevesse alcuna notizia dall’esterno, cadde nella più profonda disperazione. Quasi con la forza la sua compagna la costrinse a prendere un po’ di nutrimento, ma Salice Ricamato non pronunciò una parola. Passava giornate intere distesa sulla stuoia, ardente di febbre, col mento stretto tra le mani magre, e i grandi occhi cerchiati di anelli neri, fissi nel vuoto. La sua anima e il suo corpo sembravano diventati insensibili.

Trascorsero così due settimane e lei sembrava aver perso coscienza di tutto.

Una mattina la porta della sua cella si aprì e vi entrarono non solo la muta, ma tre uomini, tra i quali riconobbe subito il prefetto di polizia e il boia, il terzo era un magistrato. Egli la informò freddamente che era giunta l’ora della sua comparsa in tribunale e le ordinò di prepararsi a seguirlo immediatamente.

La povera creatura si consegnò meccanicamente alla sua vecchia protettrice, che riparò per quanto possibile il disordine della sua toilette. All’ordine del boia tese le mani tremanti, che egli allacciò saldamente insieme, come se temesse qualche tentativo di resistenza o di fuga da parte sua, e poi le gettò un cappio di corda attorno al collo. Fatto ciò, con spietata brutalità, si rivolse ai suoi superiori. Il prefetto diede l’ordine e il lugubre corteo si mise in moto. Per primi camminarono il prefetto e il magistrato; il boia lo seguiva, conducendo la vedova di Ling, i cui piccoli piedi storpi riuscivano a malapena a reggerla; la muta la sorresse, cingendole la vita con un braccio. Attraversarono così la prigione e un’oscura galleria che comunicava con l’edificio dove teneva le sue sessioni il tribunale penale.

Cinque minuti dopo, ancora in balia della sua orribile guida, ma abbandonata dalla sua tutrice muta, a cui non era permesso andare oltre, la povera Liou-Siou entrò nella sala delle udienze. Era una grande sala, le cui pareti, tappezzate di drappi rossi, erano adorne qua e là di massime stampate e di articoli del codice penale. Era diviso in tre parti distinte. Alla fine, su una pedana rialzata, sedeva il presidente della corte, il mandarino Ming, in abiti d’ufficio, circondato dai suoi consiglieri. Questi giudici erano seduti davanti a un tavolo ricoperto di stoffa rossa, sul quale c’erano le carte relative al caso, pennelli e tavolozze per l’inchiostro cinese, codici e libri di giurisprudenza che i giudici avrebbero potuto consultare, e una valigietta piena di piccoli, pezzi di legno numerati, di cui presto impareremo l’uso.

Dietro Ming c’era il suo portatore di ventaglio, e più indietro, appoggiati al muro, una mezza dozzina di europei privilegiati, che avevano ottenuto il favore, raramente concesso, di assistere allo svolgimento. I dodici gradini della scala di pietra che conduceva dalla piattaforma al centro della sala, – una parte riservata agli imputati, al loro avvocato, ai testimoni e alle guardie, – erano occupati dal boia, dai suoi aiutanti e dai servitori della giustizia. Questi uomini facevano rumorosamente sferragliare diversi strumenti di tortura e pronunciavano, a intervalli regolari, minacce e imprecazioni, allo scopo di terrorizzare i criminali.

Quanto allo spazio destinato al pubblico, esso comprendeva, oltre all’estremità della sala, anche ampie gallerie che correvano da ogni lato fino alla tribuna, affinché i curiosi non dovessero perdere nulla del terribile spettacolo che, troppo spesso, la corte penale concedeva.

A un ordine di Ming, le guardie aprirono entrambi i lati delle porte che conducevano al cortile esterno, dove la folla gridava impaziente, e il pubblico si precipitò nel tribunale così violentemente che i soldati dovettero usare la forza delle armi per mantenere un minimo di ordine. Per più di vent’anni nessun caso aveva suscitato tanta emozione nell’opinione pubblica. Innanzitutto Ling-Tien-Lo, il padre della vittima, era uno dei mercanti più importanti di Canton; poi, essendo una delle accusate una donna, sarebbe stato interessante vedere se avrebbe confessato il suo crimine e come avrebbe sostenuto la tortura.

Nel frattempo, né tutto questo trambusto, né tutte queste grida, avevano scosso Liou-Siou dalla sua immobilità. Quando fu portata davanti ai giudici, cadde sulla panca di legno che il boia le aveva indicato, e con le mani legate e la corda ancora intorno al collo, attese, pregando con tutte le sue forze affinché una morte più rapida la liberasse da questa vergogna e questo dolore. Quando Ming si rivolse a lei, dopo averle ordinato il silenzio, fu costretto a parlarle due volte prima che lei capisse.

“Sei accusata,” le disse, “di aver assassinato tuo marito la notte stessa delle tue nozze. Vuoi confessare il tuo crimine e nominare il tuo complice?”
“Ho già giurato,” rispose Willow Ricamata, con una voce dolce e bassa, che non ne so nulla, che sono innocente dell’omicidio; e lo giuro di nuovo.”
“Onorevolissimo Ling,” continuò il presidente senza insistere, perché si aspettava queste parole, “rivelate al tribunale ciò che sapete”.

Ling-Tien-Lo e I-té nella Pagoda Mi

Il ricco mercante, che occupava un posto riservato sulla tribuna, si alzò, salutò i membri della corte, inchinandosi fin quasi a terra, e dopo aver scagliato una violenta maledizione alla nuora, raccontò, senza omettere alcun particolare, tutto ciò che sapeva dell’assassinio di suo figlio, il suo caro Ling-Ta-Lang, “figlio maggiore”. Né omise l’incontro con il giovane I-té alla Pagoda Mi, né le proposizioni di quest’ultimo relative alla cugina; né il ritrovamento del ventaglio, appartenuto al sacerdote di Fo, sotto il corpo della vittima; né lo stato di disordine in cui era stato ritrovato l’appartamento nuziale, l’impronta di una mano insanguinata sul cuscino, e, infine, il furto dei gioielli e degli oggetti preziosi che il figlio aveva offerto in dono alla disgraziata che, senza dubbio, aveva premeditato la sua morte.

Questo ardente racconto, per quanto appassionato e interrotto dai singhiozzi che l’indignazione e il dolore paterno strapparono a Ling, fu seguito da un grido di rabbia della folla.

“Hai sentito,” disse Ming, rivolgendosi di nuovo a Ricamato Willow, quando il clamore del pubblico si fu un po’ calmato; “vuoi confessare i il tuo crimine e nominerai il tuo complice?” “Non ne so nulla,” mormorò la sfortunata ragazza. Il giudice stese la mano verso il contenitore davanti a lui, ne prese una tavoletta su cui erano scritte alcune parole: e la gettò sui gradini della tribuna. Il boia la raccolse, la lesse, fece un segno a uno dei suoi assistenti ed entrambi si avvicinarono all’imputata. Uno di questi uomini portava un tavolino di ferro, sul quale ordinò a Liou-Siou di tendere le braccia. La povera creatura obbedì, e subito si sentì le mani strette in una stretta custodia, come in una morsa, che le teneva piatte, con le dita unite, ma separate da lame mobili.

Confesserai il tuo crimine?” le chiese Ming una terza volta.

Paralizzata dall’orrore, non udì nemmeno questa domanda; aveva chiuso gli occhi e lasciò cadere la testa in avanti sul petto; ma quasi subito lanciò un grido di dolore. Ad un cenno del giudice, il boia aveva toccato tra le dita della mano sinistra una piccola punta di legno rosso collegata alle lame, e la pressione era stata così forte che il sangue schizzava dalle unghie rosee della vittima.

“Confessa il tuo crimine!” ripeté il magistrato.

Ma Willow Ricamata non stava ascoltando: i suoi occhi selvaggi, pieni di lacrime, erano fissi sulla sua mano sanguinante. Ming fece un segno: il pubblico sentì un leggero clic e lanciò un selvaggio grido di gioia. Era la mano destra della povera Liou-Siou che, come la sua sinistra, era stata schiacciata tra lame di ferro. Ma non emise un solo gemito: era svenuta.

Un medico, incaricato a questo scopo, le si avvicinò e le fece bere un forte cordiale, sicché si riprese ben presto, ma solo soffrendo, forse ancora più di prima. E ora alle sue torture fisiche si aggiungeva un pauroso dolore morale. Il primo sguardo che la figlia della signora Liou lanciò attorno a sé cadde su un civile che due agenti di polizia avevano condotto ai piedi della tribuna del tribunale, e in questo civile riconobbe I-té, nonostante il disordine dei suoi abiti. e i suoi lineamenti convulsi.

Arrestato la sera stessa della scoperta dell’omicidio di Ling-TaLang, grazie al ventaglio ritrovato sotto il corpo del povero sposo, e alle informazioni fornite dalla stessa cugina, il giovane studioso aveva raccontato il suo colloquio con il padre della vittima al Tempio Mi, così come la proposta di matrimonio che aveva fatto. Aveva anche confessato il suo passato amore per la cugina, e la sua presenza a villa Ling la notte dell’omicidio; ma egli aveva ripudiato con energia e indignazione ogni partecipazione all’assassinio dello sposo, benché fosse stato sottoposto al supplizio, e giacesse lì davanti ai suoi giudici, con le gambe rotte da carrucole di ferro, e il corpo contuso dai colpi di bambù.

Da quel momento Willow Ricamata non pensò più alle proprie sofferenze, ma solo a quelle che il suo sfortunato parente sopportò a causa del suo amore. Al grido di disperazione che aveva lanciato al suo arrivo in aula, I-té aveva riconosciuto la sua voce e si era voltato verso di lei, e si scambiarono un lungo sguardo, dal quale ciascuno sembrava aver tratto nuovo coraggio per sopportare la propria sofferenza.

L’ansiosa curiosità della folla fu distolta dalla giovane e concentrata sul sacerdote di Fo, uno dei confratelli della Pagoda Mi si era impegnato a difenderlo; poiché in Cina, quel paese che noi chiamiamo barbaro, ma dove i più poveri sanno leggere e scrivere, non ci sono avvocati né procuratori: qualunque amico dell’accusato può difenderlo.

Ma nessuno ascoltò colui al quale fu imposto l’arduo compito di dimostrare l’innocenza di I-té e Liou-Siou. Al pubblico, così come alla corte, il loro crimine sembrava evidente, indiscutibile. Invano il sacerdote ricordò la virtuosa giovinezza dei suoi due clienti e l’impossibilità che essi avessero commesso l’atto di cui erano accusati; invano citò la testimonianza delle serve che, in quella notte fatale, avevano spogliato la loro nuova padrona, e implorò la pietà dei magistrati. L’opinione di questi ultimi era fissa. Era facile capire che attendevano, con non minore impazienza del pubblico, la fine dell’arringa. L’oratore aveva appena finito, che Ming riprese la parola.

“I vostri giudici hanno ascoltato ciò che è stato espresso in vostro favore”, disse, rivolgendosi questa volta a I-té, “ma nulla può modificare la loro convinzione. Per loro voi siete altrettanto colpevole quanto vostro complice. Tuttavia, la legge mi obbliga, prima di pronunciare la sentenza, a fare tutto ciò che è in mio potere per strappare da te la confessione del tuo crimine. Vuoi informare il tribunale come hai attirato Ling-Ta-Lang nel luogo dove è stato trovato morto?”

“Come Salice ricamato, sono innocente,” sospirò il nipote della signora Liou, lanciando un lungo sguardo d’amore sulla sua compagna di miseria. “Lo giuro sulla memoria dei miei antenati!”

“Non aggiungete blasfemia alla vostra infamia”, lo interruppe severamente il presidente. “Dato che vi rifiutate di confessare, vedremo se il vostro corpo resisterà alla tortura e se la vostra anima si ribellerà al rimorso. Si compia la legge!”

A quest’ordine, rivolto al boia, questi cinse la testa di I-té con una fascia di ferro, la cui circonferenza poteva essere ridotta a piacimento mediante una morsa. Morbosamente interessata, la folla non si lasciava sfuggire un mormorio, tanto temeva di perdere qualcuna delle scene del terribile dramma che si svolgeva davanti a lei. Willow ricamata guardò con sguardo selvaggio questi preparativi. Intuiva infatti che stava per succedere qualcosa di terribile, ma si sforzava invano di comprenderlo.

“Per l’ultima volta: confesserai il tuo crimine?”, chiese Ming, i cui lineamenti solitamente amabili tradivano una violenta emozione.

“Non ho nulla da dire. Che Buddha abbia pietà di me!” rispose il giovane professore con voce ferma.

Non aveva ancora pronunciato queste parole quando il suo volto assunse un pallore cadaverico e un gemito inarticolato gli sfuggì dalle labbra. Il torturatore aveva fatto un primo giro di morsa: il cerchio di ferro era stato premuto intorno alla testa della vittima. Questa pressione impietosa sulle tempie e sulla fronte provocava un dolore lancinante. Gli spettatori avevano rotto il silenzio per applaudire, tranne gli sconosciuti presenti sulla palco, che avevano voltato la testa disgustati.

Dimenticando le proprie ferite, Salice Ricamato scattò in avanti. Era evidente che avrebbe voluto parlare, ma i singhiozzi la soffocarono.

“Vuoi confessare il tuo crimine?”, ripeté ancora il mandarino, la cui voce tremava per la rabbia o l’eccitazione. I-té rispose con un gesto negativo pieno di rassegnazione. Il boia fece un secondo giro di morsa e il volto del martire subì immediatamente un’orribile trasformazione. Le sue guance si incavarono improvvisamente, come se fosse diventato tutto d’un colpo magro, i suoi occhi si spalancarono a dismisura, come quelli di un folle, e il sangue sgorgò dalle sue narici dilatate.

“Misericordia, nobile giudice, lo confesserò.”

Ming fece un segno. Il cerchio di ferro attorno alla testa di I-té fu rimosso e il sofferente, contuso, sanguinante e privo di sensi, ricadde, ansimante, sulla lettiga che era così diventata il suo letto di tortura.

“Sì, lo confesso!” – continuò, senza neppure attendere che qualcuno glielo chiedesse, – povera bambina dal cuore tenero! – senza mai staccare gli occhi da suo cugino. “Confesso tutto! Sono io che ho ucciso mio marito. Uccidete me, ma abbiate pietà di lui”.

L’eccitazione che la possedeva le aveva dato una forza decuplicata e le aveva fatto dimenticare ogni sensazione di dolore fisico, tanto che aveva strappato le sue piccole mani mutilate dalla custodia di ferro che le teneva, e uno degli assistenti del boia riuscì a fatica a trattenere i suoi movimenti.

“Allora confessi finalmente!” – disse il giudice, dopo aver ordinato il silenzio alla folla, che davanti a quell’inaspettato incidente era scoppiata in acclamazioni entusiastiche.
“Sì, confesso tutto, tutto!” ripeté con entusiasmo Willow Ricamato.
“Come hai commesso questo crimine?” chiese Ming, incapace di nascondere la gioia per questo insperato successo.
“Non lo so,” continuò in fretta l’eroico fanciulla. “Non amavo colui che mi fecero sposare. Uscimmo insieme in giardino. Gli dissi di fare questa passeggiata nel cuore della notte. Là gli feci bere il veleno e l’uccisi con un colpo di il coltello. Poi tornai nella mia stanza senza farmi vedere da nessuno. I miei servi si erano ritirati».
“E questo ventaglio che è stato ritrovato sotto il corpo della tua vittima?”
“Questo ventaglio? Ah! Sì, ricordo! L’avevo dimenticato da mia madre, al momento della sua ultima visita: lo conservavo come suo ricordo, e non ne sono mai rimasta senza. Devo averlo lasciato cadere mentre scappavo.”
“Dunque, secondo il tuo racconto, I-té non è l’assassino, e tu non sei il suo complice. Tu stessa sei colpevole, tu sola!”
“Io sola, io sola, sola!”

“Non è vero! Lei mente!” urlò una donna, che, scarmigliata ed eccitata, aveva sfondato le file delle guardie e si era precipitata verso Salice Ricamato, che prese tra le braccia e coprì di carezze.

“Silenzio!” ruggì Ming, furioso di indignazione. “Chi è questa donna?”

“Chi sono io, nobile giudice?” rispose la nuova venuta con un indicibile accento di dolore: “Sono la madre di questa innocente martire. Vi giuro, mente! Vedete com’è selvaggia, che non capisce quello che dice. Figlia mia un assassina? La mia amata figlia un avvelenatrice? Ah! maledetti siano coloro che per primi hanno avuto un simile pensiero! Possa il Buddha punirli dando loro una vecchiaia solitaria e aborrita!” Queste parole erano rivolte a Ling, che l’arrivo della signora Liou aveva molto turbato; infatti, costretto dalla legge ad assistere alle torture degli imputati, il vecchio dubitava da alcuni minuti se avesse davvero davanti a sé gli assassini di suo figlio.

“Silenzio!” ripeté il mandarino, affrettandosi a porre fine alla scena. “Lasciate che questa donna rimanga con sua figlia, ma che tutti ascoltino con rispetto la sentenza che il codice mi ordina di pronunciare dopo l’ammissione di uno dei colpevoli”.

Il pubblico si tranquillizzò immediatamente: l’epilogo del dramma era vicino. Ming rifletté un attimo, scambiò qualche parola con i suoi assistenti, sfogliò le pagine di uno dei volumi che aveva davanti e poi, con voce grave, pronunciò queste parole:

Noi, Ming-Lon-ti, mandarino di terza classe, che oggi ricopriamo la carica di Presidente del Tribunale Penale di Canton, dopo aver interrogato gli imputati portati in giudizio come assassini di Ling-Ta-Lang e aver ottenuto la confessione di uno di essi, li dichiariamo colpevoli di questo abominevole crimine. Applicando, quindi, la legge del nostro grande legislatore, li condanniamo entrambi alla pena: la cosiddetta Liou Siou, che ha confessato la sua colpa, all’impiccagione, e il cosiddetto I-té, che ha persistito nelle sue negazioni, alla morte lenta. I condannati saranno giustiziati ogni volta che l’Imperatore, il nostro celeste e onnipotente padrone, lo ordinerà. Abbiamo giudicato secondo le nostre conoscenze. Guardie, prendete i condannati e lasciate che siano trattati, fino ai loro ultimi istanti, come comandano la legge e l’umanità.”

La folla ha accolto questo annuncio con la consueta indifferenza che i popoli dell’estremo Oriente mostrano verso la vita umana. Per loro lo spettacolo finiva il giorno dell’esecuzione e poco importava il modo in cui sarebbero morti coloro di cui si occupava la legge. L’esecuzione della morte lenta, raramente inflitta e ormai non consueta, che presto dovremo descrivere, non aveva nemmeno destato la curiosità del pubblico.

Quanto alle due povere creature che avevano i giorni contati, nessuno dei due aveva sentito pronunciare la sentenza. Incosciente di tutto ciò che la circondava, Ricamata Willow singhiozzava convulsamente tra le braccia di sua madre, che non riusciva a distogliere lo sguardo dalle mani ferite di suo figlia; e, nonostante le cure del medico, I-té non riprese conoscenza. Nel frattempo i giudici e il popolo avevano lasciato l’aula, e le guardie avevano chiuso le porte. La signora Liou stava per accompagnare sua figlia alla prigione, quando si sentì toccare delicatamente sulla spalla. Lei si è voltata. Dietro di lei c’era uno straniero. La povera madre non riuscì a trattenere un sussulto di spavento; ma lo sconosciuto aveva un sorriso così benevolo che si sentì subito rassicurata. Era un giovane alto, dai lineamenti intelligenti.

“Signora”, le disse in macaista, una specie di francese sconosciuto parlato da tutti gli abitanti delle province marittime del sud della Cina, “non perdetevi di coraggio. Ho assistito a questi atti mostruosi e sono certo quanto voi dell’innocenza di vostra figlia”.

Perkins in soccorso

“Grazie, signore, grazie!” disse la signora Liou, stringendo le mani; “ma ahimè, cosa si può fare?”

Molto: almeno lo spero. Abbiamo più di un mese prima dell’esecuzione dell’ingiusta sentenza appena pronunciata, perché l’ordine da dare deve venire da Pechino. Mi troverete domani mattina alla fabbrica americana. Chiedete del capitano Perkins. Scopriremo l’assassino di Ling-Ta-Lang, ve lo prometto”.

“Che gli dei vi ascoltino, signore! Verrò domani”. E tenendo la bambina in braccio, con un raggio di speranza che le illuminava il volto, tornò con Salice Ricamato alla prigione, dove la giovane doveva essere trattata con l’umanità che la legge cinese prescrive per i condannati a morte.

Quanto all’infelice I-té, era stato portato all’ospedale. Il medico incaricato era responsabile per lui con la propria testa. Vivi o morti, i condannati devono essere consegnati alla giustizia il giorno dell’arrivo dell’ordine di esecuzione da Pechino.

CAPITOLO IX.
IL PIANO DEL CAPITANO PERKINS.

BASSO, vicino al Fiume delle Perle, dove un tempo una palude pestilenziale esalava la sua mortale malaria, c’era la fabbrica americana dove il Capitano Perkins aveva fissato l’appuntamento con la signora Liou. Altre dodici fabbriche dello stesso tipo, per la maggior parte europee, si trovavano lì, nell’unico quartiere di Canton allora aperto agli stranieri. Erano lì, un po’ appartati, lontani dai fastidi della polizia cinese, ma esposti alle febbri maligne generate dalla natura del suolo che il governo aveva finalmente concesso loro dopo una lotta di quasi duecento anni.

Queste “fabbriche”, immensi edifici dallo stile imponente, circondati da giardini e terrazze, e all’epoca di cui parliamo comprendevano solo tre strade: Old China Street, New China Street e Hog Alley. In queste tre strade avevano i loro magazzini i mercanti cinesi, che la sera lasciavano per ritornare in città. In questo spazio ristretto si effettuavano ogni anno affari per centinaia di milioni di dollari, anche se l’apertura delle città settentrionali ha tolto a Canton una parte del suo antico commercio. I vasti magazzini della fabbrica americana avevano i loro moli su una piccola baia in cui i canali della città scaricavano le loro acque, dietro i quattro grandi alberghi sopra i quali sventolava lo stendardo britannico.

Il giorno dopo la condanna di Salice Ricamato e I-té, verso le dieci del mattino, quattro persone si radunarono su una di queste terrazze. Al riparo dai raggi del sole da una tenda, i cui tendaggi aperti permettevano loro di godere dello splendido panorama che si svolgeva davanti a loro, ma scrutavano però solo l’orizzonte sopra le risaie e attraverso le palme e i tetti scintillanti delle pagode; il curioso spettacolo della rada di Canton, con le sue barche da fiori, le sue migliaia di imbarcazioni varie e le sue pesanti giunche da guerra, aveva per loro ben poco interesse.

Queste persone erano i nostri conoscenti della sera prima, il capitano Perkins, uno dei contrabbandieri di oppio di maggior successo dei mari cinesi; Il signor Lauters, uno svizzero che era stato il primo a importare gli orologi di Ginevra nell’estremo Oriente, e che doveva la sua grande fortuna all’abitudine che tutti i cinesi eleganti hanno di portare due orologi: la signora Lauters, sua moglie, una bionda delicata bellezza, per la quale questo soggiorno a Canton fu un perfetto esilio; e infine Sir Arthur Murray, uno di quegli eccentrici inglesi che si incontrano in ogni angolo del globo dove c’è pericolo da correre o c’è qualcosa da visitare, da vendere o da comprare. Eccellente marinaio, come tutti i gentiluomini di questa razza, ricco ma splenico, Sir Arthur aveva incontrato un giorno il capitano Perkins in una delle sue visite nel Bengala, e aveva chiesto di essere accolto a bordo della sua nave come passeggero permanente.

Dopo essersi assicurato che avrebbe avuto con sé un uomo simpatico e un compagno fedele, il capitano aveva acconsentito alla singolare richiesta, e per quasi tre anni Sir Arthur Murray era rimasto con lui. Senza interessarsi alle operazioni commerciali, aveva accettato allegramente i pericoli degli affari più lucrosi del capitano, compresa la possibilità di farsi spaccare la testa o addirittura di essere impiccato.
Accadeva spesso, infatti, che le fragili navi impegnate in questa rischiosa impresa riuscissero solo a sfuggire ai pirati della foce del Fiume delle Perle per cadere in qualche imboscata delle navi della dogana, nonostante l’accordo segreto che ogni frodatore intelligente del governo non ha mai mancato di concludere con il mandarino incaricato di impedire l’importazione dell’oppio.

Questo mandarino abitava in una splendida villa sulle rive del fiume, in un punto chiamato Boca Tigris, a metà strada tra Macao e Canton. Nessuna nave straniera poteva spingersi più oltre senza la sua autorizzazione, senza aver prima dichiarato la natura del suo carico e assolto i dazi doganali. L’oppio era una merce assolutamente proibita; ma gli audaci contrabbandieri si limitavano a dichiarare davanti al mandarino che le loro navi erano cariche di riso o di qualunque altra merce utile, e poiché in precedenza gli avevano pagato una grossa somma, questo funzionario infedele chiudeva gli occhi. I velieri veloci adibiti a questo traffico, chiamati in Cina “clippers dell’oppio”, passavano solitamente senza difficoltà la postazione di Boca Tigris. È vero che talvolta il mandarino colluso faceva il doppio gioco; cioè dopo aver ingannato il suo governo veniva subito preso da zelo per i suoi interessi, e si opponeva al passaggio delle stesse navi che aveva favorito. Allora il fiume di Canton diventava teatro di sanguinosi combattimenti. Anche con i piani migliori, per i trafficanti d’oppio in Cina non era sempre una “navigazione tranquilla”.

Nonostante gli editti dell’Imperatore contro il fumo di oppio, esistevano nel porto di Canton più di venti stabilimenti dove gli Celestiali amanti di questo terribile narcotico potevano venire a consumarlo a loro piacimento; ma di tanto in tanto, affinché si conservasse una parvenza di zelo nel proprio dovere, il capo della polizia e il guardiano di Boca Tigris facevano irruzione nei luoghi, e poi era un contrabbandiere a pagare, a volte con la vita e con i suoi beni. Era qualcosa di simile che il coraggioso Perkins stava raccontando ai suoi amici sulla terrazza quando il suo servitore gli annunciò la presenza di una signora cinese.
“Una signora cinese?”, disse la signora Lauters, sorridendo.
“Oh, non c’è bisogno di sorridere, mia cara amica, non sono un ammiratore della bellezza cinese”, rispose il capitano, ordinando che la signora fosse accompagnata alla tenda; “questa signora è semplicemente la madre di quella povera creatura condannata a morte ieri. Quell’imbecille di un Ming è convinto che sia stata lei ad assassinare il marito, o almeno di averlo fatto fare”.
“Ma cosa vuole da te?” chiese il signor Lauters, sorpreso quanto la moglie.
“Vuole che trovi l’assassino di Ling”.
“Te?”
Sì, io; e poiché sono convinto dell’innocenza di sua figlia, sono sicuro che sarò in grado di fornirne la prova”.
“Ma, capitano, che interesse avete a intraprendere questa pericolosa missione, il cui risultato è problematico? Ming è, senza dubbio, un imbecille; la signorina Liou è innocente, lo concedo, ma questa è una cosa che non riguarda noi stranieri e credo che la giustizia cinese non vedrà di buon occhio la vostra intromissione nei suoi affari”.
“Quale interesse, mio caro Lauters? In primo luogo la comune umanità; per il resto, chiedete a Sir Arthur. Forse, dando la caccia all’assassino di Ling, potrei essere in grado di salvare la colonia europea e il nostro commercio, entrambi minacciati in questo momento più gravemente di quanto possiate credere”.
“Non vi capisco”, disse il mercante svizzero, agitandosi, mentre la moglie non riusciva a trattenere un gesto di allarme.
“Silenzio!”, disse Perkins, “ecco la povera madre. È necessario che lei pensi che il mio unico scopo sia quello di servirla”.
Il servitore ricomparve sulla terrazza, precedendo la signora Liou, che camminava con difficoltà perché, secondo l’uso del paese, aveva i piedi storpi, e anche perché era sopraffatta dalla fatica e dall’emozione. Era forse la prima volta, dalla fondazione dell’insediamento, che una signora cinese ben educata osava entrarvi. L’amore materno aveva superato tutti i suoi pregiudizi. Non le importavano più quelle consuetudini sociali che vietano ogni contatto con i Fou-Koei, i cani degli stranieri. Ciò che voleva era la vita di sua figlia: il resto contava poco.
La signora Lauters, vedendo la sua evidente confusione, la prese per mano e la condusse verso un divano, dove entrambe le signore si sedettero.
“Coraggio, signora, sono pronto a tentare ciò che vi ho promesso”, disse il capitano.
La signora Liou alzò gli occhi, arrossati dal pianto. Il suo sguardo triste era la domanda più eloquente.
“Il mio piano è molto semplice”, continuò il marinaio, “e le informazioni che ho ottenuto dopo avervi lasciato ieri mi fanno sperare che riuscirà. Domani il principe Kong entrerà a Canton, e la sentenza che ha condannato vostra figlia gli sarà sottoposta immediatamente. Ho preparato per voi un memoriale da presentare a Sua Altezza”.
“Io? Come? Non sapete che è impossibile avvicinarsi al viceré?”.
“Ho previsto questa difficoltà, ed è quello che cosa propongo: il giorno dopo il suo arrivo, il principe si reca alla pagoda di Honan. A noi stranieri non viene mai impedito di seguire la strada che lui prende. Voi rimarrete con noi, e a appena passerà potrete dargli il vostro memoriale. Fosse anche solo per la nostra presenza, lo accetterà.”
“Lo credete davvero?”
“Non c’è dubbio. È solo per interessare il viceré e convincerlo che Ming è stato grossolanamente ingannato. Penso di farcela. Prendete questo e fatelo tradurre in cinese e copiarlo dal sacerdote della Pagoda Mi che difendeva vostra figlia, e ci vediamo di nuovo qui dopodomani.”

Con queste parole il capitano consegnò alla signora Liou un manoscritto di una dozzina di pagine, che lei afferrò avidamente, e di cui intuì intuitivamente il senso, sebbene fosse scritto in una lingua a lei sconosciuta. In questo documento il contrabbandiere aveva dimostrato che il passato di Ricamato Willow la poneva al di sopra di ogni sospetto, e che lei non era né l’assassina né la complice dell’assassino di suo marito, poiché I-té non aveva colpito Ling-Ta-Lang.

Poi raccontava come il presidente Ming, senza fare alcuna indagine, aveva imprigionato e torturato crudelmente una creatura giovane e innocente che avrebbe dovuto lasciare alle cure della sua famiglia. La signora Liou, piena di speranza, ritornò in direzione della villa cinese, ma all’improvviso si accasciò sulla sedia con un grido di orrore. I suoi portatori si erano fermati davanti a una folla che sbarrava la strada e applaudivano con entusiasmo un agente di polizia. Quest’uomo, distribuendo al popolo dei pezzetti di carta rossa, gridava ad alta voce alla gente:

“Ecco la sentenza che condanna a morte gli assassini del nobile Ling. Sua moglie, Liou-Siou, sarà impiccata; il sacerdote I-té subirà una morte lenta. La loro esecuzione, secondo l’ordine impartito dal nostro sublime Imperatore, avrà luogo tra un mese, al sorgere del sole, nel solito luogo, davanti alla prigione”.

Dieci minuti dopo, l’infelice donna, con queste terribili parole che le risuonavano ancora nelle orecchie, strinse convulsamente la figlia tra le braccia. Le sembrava che il mese di tregua non fosse che un giorno, e che ogni momento Embroidered Willow stesse per essere strappata dalle sue braccia per dondolare su una gogna.

CAPITOLO X.
PIRATI E CONTRABBANDISTI.

MOLTO dotato per natura di un’intelligenza pronta e ben inserito nelle questioni europee, grazie ai gesuiti sotto la cui direzione aveva terminato la sua educazione a Pechino, il principe Kong, viceré delle tre province del sud-est e cugino dell’imperatore, era in quel tempo ancora giovane, e disapprovava la leggendaria politica di isolamento degli stranieri, praticata con tanto ardore dal governo: al contrario, riceveva sempre bene gli stranieri. Se rimase nemico dei missionari e dei contrabbandieri di oppio, aveva alcune ragioni particolari. Molto scettico in materia religiosa, come lo sono tutti i cinesi delle classi elevate, avrebbe lasciato che i preti cattolici catechizzassero a loro agio se non avessero così spesso indebolito l’autorità con le loro istruzioni; e il popolo del suo vicereame avrebbe potuto fumare oppio notte e giorno senza che lui ci pensasse, se non avesse visto in questa importazione la vera causa della crisi monetaria di cui il paese soffriva da tanto tempo.

Infatti, prima dell’introduzione dell’oppio, la Cina era piena di oro e argento; poiché l’Europa non avendo nulla da fornire in cambio, le sue navi arrivavano in Cina come zavorra, e per riprendere porcellane, tè ed altri prodotti, gli stranieri erano costretti a sborsare somme considerevoli, che naturalmente rimanevano nel paese, dove veniva trasformata in lingotti. Il marchese di Wellesley, allora governatore generale dell’India, si era reso conto di questo pericolo e, per affrontarlo, aveva inventato questo commercio dell’oppio, allo scopo di estrarre dal Medio Impero la maggior parte del denaro rimasto lì da Europa e America. In questo, è molto evidente, egli non agì per la salute pubblica o per la morale, ma era semplicemente interessato a realizzare l’equilibrio finanziario.

Il Principe Kong, dal canto suo, guardò la questione da un punto di vista diverso; ma poiché per scacciare i contrabbandieri si affidava più ai pirati che alle navi da guerra, i banditi che infestavano la costa e il basso fiume godevano di una perfetta immunità quando attaccavano gli stranieri.

In tal modo il viceré ottenne il suo scopo senza compromettere i suoi rapporti con potenti stranieri. Il capitano Perkins aveva intuito questa complicità. Ming, che per lungo tempo aveva svolto le funzioni di mandarino a Boca Tigris, lo aveva quasi confessato nella sua amichevole espansività, e glielo aveva dimostrato un evento drammatico accaduto poco tempo prima dell’assassinio del giovane Ling-Ta Lang.

Due navi contrabbandiere di oppio, la “Naiad” e l'”Agile”, erano state attaccate, saccheggiate e affondate dai pirati, alcune miglia al di sotto di Macao, e le navi da guerra cinesi di stanza in quel punto non avevano fatto il minimo tentativo di venire in soccorso. Gli equipaggi di queste due navi erano stati massacrati, e tutta la soddisfazione ottenuta era che il principe aveva condannato a morte alcuni disgraziati catturati nella parte inferiore del fiume, e presto sarebbero stati impiccati a Hong Kong.

Il governatore della colonia inglese si era invano offerto di mettersi a capo di una spedizione contro le Isole Ladrone, che erano il ritrovo di quella terribile feccia del mare, ma le autorità di Canton si erano opposte formalmente; e poiché nessuno osava fare di questi attacchi contro persone che sfidavano la legge un casus belli, tali attacchi venivano spesso rinnovati. I contrabbandieri, quindi, avevano deciso di difendersi, o con la forza o con il denaro, cioè combattendo i pirati, oppure comprandoli, come compravano i mandarini di Boca Tigris; e nell’interesse generale avevano dato pieni poteri a Perkins, che riconoscevano come il più energico e anche il più abile di tutti.

Perkins era convinto che i banditi del fiume appartenessero a quella formidabile associazione di malfattori, “La Ninfea Bianca”, che teneva in scacco la polizia cinese tanto in terra quanto in acqua; e il difensore di Salice Ricamato ebbe davvero occasione di ottenere informazioni su questa misteriosa società, per raggiungere certi scopi che aveva in mente.

La prima cosa necessaria nel caso di Liou-Siou era interessare il principe Kong alla sorte dei condannati, e il suo piano fu ingegnosamente concepito a questo scopo. Il giorno stesso della sua visita al capitano, la signora Liou aveva fatto tradurre e copiare la sua richiesta, e il penultimo giorno successivo era con il capitano e i suoi amici sulla banchina dove il viceré si sarebbe imbarcato. Ben presto le detonazioni dell’artiglieria annunciarono l’arrivo del rappresentante dell’Imperatore, e la testa del suo corteo apparve all’estremità della spianata, dove si era radunata una folla innumerevole.

Per primi arrivavano due corridori in livrea imperiale, armati di fruste per aprirsi un varco tra la folla, nel caso il rispetto non bastasse. Questi corridori gridavano a gran voce il nome del loro padrone. Erano immediatamente seguiti da una scorta di cavalieri e servitori, che a intervalli regolari suonavano dei gong di bronzo. Dopo questi venivano tre uomini con alti elmi a catena ornati di piume verdi, che portavano, come emblemi del potere del principe, catene, le cui maglie scuotevano con cadenza misurata; e dietro di loro, in mezzo ad uomini armati di verghe di bambù, c’erano due servi che portavano sopra la testa una grande tavola su cui erano scritti, in grandi lettere d’oro, i nomi e le qualità di Sua Altezza.

Seguì la lettiga del viceré. Si trattava di un superbo palanchino, dotato di tende di seta e coperto da un baldacchino a volta di argento a traliccio. Era portato da quattro uomini, seguiti da altri quattro portatori che li sostituivano. Su ogni lato c’erano tre o quattro ufficiali d’ordinanza e servitori con grandi ombrelloni; un po’ più avanti arrivavano i dignitari del palazzo. Questo corteo davvero regale si concludeva con un secondo gruppo di cavalieri tartari, con le sciabole in mano. La folla si fece largo rispettosamente e rimase in silenzio, perché in Cina, esattamente all’opposto di quanto è da noi, il silenzio dimostrava rispetto, e il palanchino raggiunse presto quella parte del quny dove una splendida navicella attendeva il governatore. Altre dieci barche erano pronte a ricevere le persone della sua suite.

Quando il principe scese dal palanchino, la madre di Salice Ricamata sentì vacillare il coraggio; ma Perkins e i suoi amici, ai quali Sua Altezza aveva gentilmente ricambiato il saluto, la spinsero avanti e, senza sapere come fosse successo, lei all’improvviso si trovò subito inginocchiata davanti al cugino dell’Imperatore. La sua improvvisa apparizione creò un grande scompiglio tra gli ufficiali e due di loro scattarono in avanti per spingerla indietro; ma il principe ordinò loro di desistere e, chinandosi verso di lei, le chiese gentilmente cosa desiderasse.

“Giustizia! Mio signore, giustizia per mia figlia”, singhiozzava la signora Liou. “L’hanno condannata a morte, ma è innocente. Lo giuro!”.

Il viceré scambiò qualche parola con uno dei suoi segretari, invitò la supplicante ad alzarsi e disse, prendendo il pacchetto che lei gli offriva:
“Sono a conoscenza di questo caso e vi prometto di esaminarlo prima di inviare i documenti a Pechino. Non posso fare altro. Nessuno di noi è superiore alla legge”.

Dopo aver pronunciato queste parole con grande dignità, diede un ordine a uno dei suoi aiutanti mentre si dirigeva verso la sua barca, e la signora Liou stava per ritirarsi quando l’ufficiale si avvicinò per dirle:
“Signora, Sua Altezza vi prega di non andar via. Desidera rivedervi al suo ritorno dal tempio. Vi prego di seguirmi. Tornando dall’Honan, vi prega di entrare in uno dei palanchini del corteo, che vi porterà a il Palazzo.”

A questo inaspettato invito, la povera donna guardò la sua amica, e Perkins, dopo averle fatto un segno di incoraggiamento, rispose all’aiutante di campo che era a sua disposizione.

Il viceré era già sulla sua gondola in rotta verso l’isola di Honan, sospinto da venti rematori, e salutato da ripetute scariche dell’artiglieria dei forti. Mentre prendeva posto nella barca sulla quale era stata condotta, la signora Liou vide di nuovo il capitano e Sir Arthur, imbarcarsi per andare al tempio; ma né lei né il suo protettore si accorsero di due marinai cinesi, i quali, nascosti tra la folla, avevano osservato ogni dettaglio della scena che abbiamo appena descritto.

Dopo la partenza del principe non persero di vista gli europei e seguirono la loro imbarcazione con un leggero skiff. Uno di questi marinai era alto e magro, e se Rose avesse accompagnato la signora Liou, non avrebbe mancato di riconoscerlo, nonostante il suo travestimento e il grande cappello di paglia calato sul viso; poiché quest’uomo altri non era che Tchou, il macellaio della Via dei battilori, che era scomparso da Foun-Si due mesi prima e da allora non se n’era più saputo nulla.

“Quindi sei proprio sicuro”, chiese al suo compagno tirando vigorosamente il remo, “che questo cane di uno straniero sia il comandante del Lightning’?”. Questo era il nome della goletta di Perkins.
“Ne sono certo”, rispose il marinaio. “L’ho visto una dozzina di volte alla stazione doganale di Boca Tigris, quando è andato a trovare il mandarino Ming”.
“Dove è ancorata la Lightning’?”
“Sotto l’isola di Lintin. Sta aspettando la svolta degli alisei prima di prendere il largo”.
“Beh, non tornerà mai nel Bengala, lo giuro! O il mio nome non è il ‘Ragno Rosso'”. Poi aggiunse, sottovoce, con un inesprimibile accento di odio: “Diventando il difensore di Liou-Siou, quel disgraziato che si è preso gioco di me, il capitano della ‘Lightning’ è diventato doppiamente mio nemico”.

Il viceré arrivò all’approdo di Honan, dove lo attendevano i sacerdoti di Buddha. Ben presto entrò nel primo portico del tempio, e Tchou percepì nuovamente Perkins e Sir Arthur, che, dopo aver salutato amichevolmente la signora Liou, entrarono anch’essi nella pagoda. Lì il macellaio scese a terra con leggerezza e scomparve tra la folla.

Questo tempio di Honan, nonostante la celebrità di cui gode, dà un’idea molto triste dell’importanza attribuita ai temi religiosi in Cina. Se è davvero, come professano i suoi guardiani, il più ricco dell’impero, allora ci sono pochi paesi le cui divinità sono così mal alloggiate. Se non si va in barca, l’unica alternativa è raggiungere l’isola di Honan attraverso un ponte che la collega alla terraferma, e per farlo bisogna attraversare il quartiere più sporco e peggiore di Canton. Dalla fine di questo ponte fino al primo recinto del luogo sacro, ci sono stretti vicoli fiancheggiati da punti di ristoro, case da gioco e dai banchi di pegno che si trovano sempre nei pressi di queste tane di iniquità.

Quando si è sfuggiti ai mille pericoli di questo quartiere infetto, si arriva, dopo aver imboccato una stretta inferriata, in un luogo dove regna il silenzio più perfetto e la calma più religiosa. È un immenso recinto, circondato da mura alte più di trenta piedi, e il tempio di Buddha, un grande ammasso di edifici bizzarri, ne occupa il centro. Per entrare è necessario passare sotto un secondo portico, difeso da due statue gigantesche, orribilmente colorate, che hanno resistito alle incursioni del tempo solo grazie alla protezione offerta dai tetti dorati che le sovrastano, poiché sono solo di cartapesta. Tuttavia, esse rappresentano due dei più famosi guerrieri dell’Impero di Mezzo.

Per quanto riguarda l’edificio principale, il tempio vero e proprio, si tratta di un edificio enorme, diviso in una serie di piccole cappelle, ciascuna consacrata a particolari divinità. Il luogo più notevole è il santuario dove regna Buddha. Si tratta di una galleria lunga un centinaio di metri, pavimentata con squisiti mosaici; ma, in onore del viceré, era stato steso uno spesso tappeto. Grandi cornici, in cui sono riportate massime in lettere d’oro, adornano le pareti. Il dio è rappresentato da tre statue, chiamate i tre Pao, cioè il Passato, il Presente e il Futuro, che hanno dato al celebre riformatore quei tratti insipidi che piacciono agli indù. Queste statue sono circondate da piccoli altari d’argento massiccio, sui quali bruciano profumi; ma la parte più straordinaria del tempio sono certamente i due grandi draghi di bronzo ad ali spiegate, che occupano le estremità della galleria e che, con i loro grandi occhi scintillanti e ingioiellati, sembrano vegliare sul luogo sacro.

Il principe prese posto sul trono a lui riservato di fronte alle statue del Buddha, i suoi ufficiali si raggrupparono intorno a lui e la cerimonia ebbe inizio. Si trattava di un canto molto semplice, limitato a canti religiosi, che i bonzi eseguivano mentre i monaci li accompagnavano con note sufficientemente armoniose per il gong. In circa quindici minuti tutta la cerimonia si concluse, ed il viceré lasciò la pagoda dopo aver fatto un ricco regalo al monastero.

La sua navicella lo riportò sulla terraferma, dove trovò il suo palanchino ad attenderlo, e ritornò alla sua residenza, seguito questa volta dalla signora Liou su una portantina. Appena giunta al palazzo fu condotta nell’appartamento delle donne, e la giornata trascorse per lei in un’alternanza di speranza e disperazione, poiché aspettava invano che il principe chiedesse di lei. Venuta la notte, la sua angoscia crebbe e riuscì a malapena a controllare il dolore che provava per non poter raggiungere sua figlia. Incapace di trovare riposo, i suoi pensieri erano costantemente con Ricamato Willow, e ricordava la vita calma e felice che aveva condotto così poco tempo prima, nella sua piccola casa a Foun-Si.

Non sospettava che quella modesta dimora, già visitata dalla sfortuna, e della cui cura aveva confidato a Rose, fosse in quel preciso momento il teatro di un nuovo dramma. Sapendo benissimo che né Liou-Siou né suo cugino I-té potevano essere gli autori del delitto per il quale furono sottoposti a tortura, l’imprudente ragazza visse in preda a ogni sorta di terrori. Venti volte era stata sul punto di andare a Canton per raccontare al prefetto di polizia tutto quello che era successo tra lei e Tchou, perché era convinta che quest’uomo fosse l’assassinio di Ling; ma aveva sperato fino all’ultimo momento che i due innocenti non venissero condannati, e dopo aver conosciuto veramente la sorte che li attendeva, il timore delle conseguenze che la sua dichiarazione troppo tardiva avrebbe potuto attirare su di lei la indusse a mantenere un silenzio che la rese davvero complice dell’assassino.

Non osava nemmeno uscire; perché appena aprì la porta i suoi occhi furono affascinati dalle finestre chiuse della macelleria, e le parve che il mostro che i monelli si erano divertiti a disegnarvi con il gesso rosso si animasse alla sua vista, e stava per saltarle addosso. In questo stato d’animo, Rose rimase chiusa in casa della signora Liou la sera dello stesso giorno in cui avvennero gli episodi che abbiamo raccontato; e, come la sua padrona nel palazzo del governatore, invocava invano il sonno.

Era ormai passata il tramonto: la città era avvolta nel riposo, le strade erano deserte. Il silenzio stesso la terrorizzava: la paura, così come il rimorso, la tenevano sveglia. All’improvviso sentì un rumore di passi nella strada e, quasi nello stesso momento, prima che potesse muoversi, fu soffocata e imbavagliata al punto che non poteva nemmeno gridare. Le sembrava che in casa fossero entrati almeno tre uomini; ma era così buio che non riusciva a distinguere i loro lineamenti. Ben presto riuscì a distinguerli, perché due di questi individui la portarono nella sala da pranzo, dove avevano acceso una lampada. Erano, come aveva pensato, tre in numero, vestiti come pescatori del fiume, e oggetti molto spaventosi da vedere.

“Sbrigatevi!” disse quello che sembrava essere il loro capo. Legate questa ragazza come una balla di merci. Se grida, strangolatela!”.
La povera ragazza si diede per persa. I due banditi che la tenevano in pugno le gettarono sul viso un panno, che le legarono al collo, e la legarono con corde che le ferirono crudelmente le membra.
“L’avete fatto?”, chiese la stessa voce che aveva sentito prima.
“Sì”, rispose uno degli uomini.
“Dai su.”
“Oh! non a mani vuote. Abbiamo sbrigato gli affari del capo, ora ci occuperemo dei nostri.”

E senza aspettare il permesso scomparve con il suo compagno nella stanza accanto. Dopo pochi minuti ritornarono, portando ciascuno un pesante pacco sulle spalle. In un batter d’occhio derubarono la casa di ogni oggetto di valore.

Il rapimento di Rose

CAPITOLO XI.
IL RAPIMENTO DI ROSE.

“VENITE! Andremo adesso”, disse il capo. I due disgraziati sollevarono la serva, mentre l’altro li precedette nella strada per accertarsi che fosse deserta. Non passava nessuno e non c’era nemmeno una luce nelle case vicine. Chiamò i suoi uomini a bassa voce e, dopo aver chiuso dolcemente la porta, si mise alla testa di questo sinistro gruppo e si avviarono tutti verso un vicolo poco distante, che conduceva direttamente al fiume. Dopo aver confidato all’amico la sua parte di merce rubata, uno dei marinai si era gettato Rose sulle spalle e, legata com’era, sembrava un fascio di reti da pesca. Raggiunsero presto il fiume. La notte era buia, non c’era la luna e il cielo era senza stelle. Le onde del Fiume delle Perle, che sciabordavano mestamente sulle rive quasi indistinguibili, facevano urtare le barche, legate alle palafitte, l’una contro l’altra, con un rumore sordo. Il capo di questa strana spedizione tirò su una di queste barche e, dopo essersi assicurato che avesse i remi, fece salire gli altri; poi, tagliando la corda che la tratteneva, si lanciò con un vigoroso colpo di remo.

La corrente era rapida, ma i rapitori raggiunsero presto la sponda opposta, dove le acque erano più tranquille. In quel punto il Fiume delle Perle si divide in tre rami, di cui solo due sono navigabili e sboccano sopra i forti di Boca Tigris. Il terzo, pieno di scogli e di secche, è inoltre interrotto nel suo corso da una cascata d’acqua, il cui ruggito, moltiplicato per gli echi, si può udire a tre o quattro miglia di distanza. Fu verso questo pericoloso braccio del fiume che si dirigevano i barcaioli; ma non avevano fatto molta strada, quando il loro pilota lanciò un grido, che somigliava sorprendentemente a quello del guamala, l’uccello del diavolo. Gli rispose un grido simile, e un uomo apparve sullo scoglio contro il quale si infrangevano le onde. I marinai alzarono i remi e la barca stridette sulla spiaggia.

“Sei tu, Woum-pi?”, chiese l’uomo, che sembrava essere stato appena gettato fuori dalle acque.
“Sono io, padrone”, rispose il pescatore.
“È fatta?”.
“Sì: la donna è qui”.
“Allora mettetevi al lavoro, voi!”.

Queste parole furono rivolte a una dozzina di individui, le cui teste erano a malapena distinguibili tra le erbe alte. Evidentemente si aspettavano questo ordine, perché scesero immediatamente nel fiume, dove molti di loro scomparvero fino alle spalle, e cominciarono a lavorare vigorosamente. Divisi in gruppi di tre, afferrarono le estremità di pesanti corde attaccate a boe e unirono tutti i loro sforzi per sollevare qualcosa che sembrava essere sul fondo del fiume. Ben presto l’oggetto sconosciuto emerse: si rivelò una lunga imbarcazione, dipinta di rosso, di tipo corsaro o piratesco, perché la sua prua era molto affilata e poteva trasportare venti rematori. Poteva essere affondata all’istante, per mezzo di una grande valvola su un lato, e di conseguenza mettere fuori strada chiunque la cercasse.

In pochi minuti gli arcigni operai sollevarono la barca e la capovolsero per svuotarla dell’acqua, chiusero la valvola, la misero sul fiume e vi presero posto. Woum-pi vi fece salire anche Rose che, quando le tolsero il velo dal viso, assistette terrorizzata a questi preparativi. All’improvviso la barca tremò violentemente. Il capo dei pescatori vi saltò dentro con un balzo tremendo e afferrò il lungo remo che gli serviva da timone.
“Tchou!” mormorò la povera serva, con un urlo soffocato dal bavaglio. Aveva riconosciuto il macellaio della Via dei Battitori d’Oro.

“Sì, Tchou!” ripeté quest’ultimo, chinandosi su di lei come se volesse godere del suo terrore. “Tchou, che la falsità della tua padrona ha reso un assassino; Tchou, il Ragno Rosso, che vendicherà su di te il suo strazio, come ha già fatto con Salice Ricamato”.

Scacciando brutalmente la povera disgraziata, diede un breve ordine, i venti pirati si piegarono ai remi e in un attimo lo yawl raggiunse il braccio del fiume, dove presto scomparve tra le ombre della notte, mentre in lontananza si sentiva solo il rumore cadenzato dei remi.

CAPITOLO XII.
LA GIUSTIZIA DEL VICERÉ.

Contrariamente ai timori della signora Liou, il principe Kong non l’aveva dimenticata; ma prima doveva occuparsi di molti altri affari che lo chiamavano a Canton, e solo la sera successiva esaminò il manoscritto di lei. In questo documento il Capitano Perkins espose i fatti con tale abilità analitica e trasse conclusioni così logiche, che il viceré rimase immediatamente colpito, non tanto dall’innocenza di Willow Ricamata e di sua cugina, quanto dalla mancanza di sforzi da parte di Ming per ottenere alla verità.

Il contrabbandiere, che si era recato sul luogo del delitto e aveva chiesto informazioni a Ling-Tien-Lo, spiegò come venti testimoni fossero stati pronti a giurare che il giovane I-té non aveva lasciato la villa per un solo istante, e che era uscito dalle stanze quando gli ospiti se ne erando andati dopo la fine dell’intrattenimento. Quanto a Salice Ricamata, contro la quale il giudice non aveva mosso un’accusa diretta di omicidio, non era ragionevole, secondo il commerciante di oppio, crederla complice, poiché sua madre, che l’adorava, non l’aveva costretta a sposare Ling-Ta-Lang. Quindi non aveva alcun interesse a togliere di mezzo suo marito prima ancora di vederlo.

Inoltre, non avevano trovato nessuno dei gioielli rubati con I-té, continuava il rapporto; e senza considerare l’idea che il giovane sacerdote non fosse abbastanza robusto per aver sopraffatto Ling, dato che sembrava che questo sventurato fosse stato prima avvelenato, era comunque evidente che né le impronte sulla sabbia del giardino, né l’impronta di una mano insanguinata trovata su uno dei cuscini del letto, potevano essere state fatte dall’accusato, perché queste impronte erano lunghe e grandi, e la mano quella di un uomo alto. I-té era fragile e delicato, e aveva piedi e mani da donna.

Ming non aveva pensato a queste considerazioni. Quanto all’incontro di I-té con il padre di Ling alla Pagoda Mi, fu certamente del tutto fortuito. Se il giovane aveva fatto questa proposta di matrimonio – che al giudice sembrò una premeditazione infernale – al ricco mercante, ciò dimostrava solo il buon sentimento di colui che così presto fu considerato un criminale. Per quanto riguarda il ventaglio del professore trovato sotto il corpo di Ling-Ta-Lang, il capitano affermò che era, al contrario, una prova irrefragabile della sua innocenza; perché questa prova di condanna era stata scoperta troppo facilmente per non essere stata messa lì intenzionalmente. Sembrava indiscutibile che l’assassino conoscesse I-té, così come la sua parentela con la madre di Salice Ricamato, dal momento che era stato reso così facilmente oggetto di sospetto, distogliendo così l’attenzione dal vero colpevole. Era quindi necessario cercare l’assassino, se non tra gli amici della signora Liou, almeno tra i suoi conoscenti o le persone che conoscevano le sue abitudini. A questo scopo sarebbero state preziose le informazioni fornite dalla serva Rose.

Il risultato di tutte queste osservazioni fu che, sebbene avesse finito di leggere il rapporto solo a notte fonda, il principe Kong mandò a dire al mandarino Ming di presentarsi davanti a lui il giorno seguente di buon’ora. Ordinò inoltre a uno dei suoi aiutanti di campo di recarsi a Foun-Si all’alba e di andare a prendere la domestica della signora Liou, che né il prefetto di polizia né il magistrato avevano pensato di interrogare.

Ming, che finora abbiamo visto solo al suo posto di Presidente del Tribunale Penale di Canton, fu molto emozionato quando fu svegliato dall’annuncio di un messaggio proveniente dal palazzo. Non avendolo trovato in città, il corriere era venuto a cercarlo sull’isola di Honan. Il mandarino capì così che si trattava di un caso importante. Interrogò invano l’ufficiale. Non sapeva nulla, ma l’ordine era decisivo: il viceré lo voleva vedere al mattino.

Ming passò il resto della notte chiedendosi cosa potesse volere da lui il cugino dell’Imperatore. Il degno magistrato, infatti, come i suoi colleghi, aveva qualche peccatuccio sulla coscienza, soprattutto quelli relativi ai suoi recenti incarichi a Boca Tigris, dove i suoi trattati segreti con i contrabbandieri avevano raddoppiato la sua fortuna; ma questi premi rientravano talmente nella consuetudine dei funzionari del suo rango, che non poteva essere questo il motivo dell’ordine del principe. Qualunque cosa fosse, lo inquietava. Aveva il presentimento che la sua vita, fino ad allora calma e felice, stesse per essere turbata.

Ming a quel tempo era un uomo corpulento e di bell’aspetto, istruito, sì, poiché aveva raggiunto una posizione elevata, ma di intelligenza molto ordinaria. Era soprattutto un sibarita nel senso completo del termine. La sua tavola era uno delle migliori della provincia. Si mormorava anche che la sua navicella era stata vista di notte nelle acque di Canton, in prossimità delle barche piene di fiori, e che non eravamo estranei all’influenza del narcotico di contrabbando di cui trattava il capitano Perkins.

A Ming costò quindi qualche inconveniente lasciare il suo lussuoso giaciglio all’alba; ma sapeva che il governatore delle tre province non avrebbe sopportato sciocchezze da parte dei suoi subordinati, quindi all’ora stabilita il suo palanchino era sulla soglia del palazzo. La passeggiata, l’aria fresca del mattino, di cui aveva ricevuto omaggio durante il viaggio, lo avevano un po’ calmato, ed egli rispose al saluto militare della guardia con il suo solito sorriso. Ma mentre si avvicinava alla porta della galleria che conduceva alla sala dei ricevimenti di Sua Altezza, si trovò improvvisamente di fronte alla signora Liou, che il principe aveva mandato a chiamare. Capì subito di essere ricercato per il caso di Salice Ricamato e si calmò perfettamente. Nella sua fatuità di consigliere impeccabile, era convinto di aver condotto questo caso con cura e giustizia verso tutti, e si disse che, senza dubbio, era solo per rispondere ad alcune ultime domande che lo avevano chiamato. Fu quindi con l’aria di un uomo irreprensibile che si presentò al viceré.

Fu solo quando, dopo aver fatto le tre consuete genuflessioni, alzò gli occhi verso il principe, che rimase colpito dallo sguardo severo di quest’ultimo, e cominciò a temere di poter essere ingannato nelle sue piacevoli supposizioni. Il principe Kong, infatti, aveva appena risposto al suo saluto. Chino sulla scrivania, circondato dai suoi segretari, sfogliava un voluminoso in-folio, che Ming riconobbe come quello del caso Ling, e per un quarto d’ora non prestò più attenzione al mandarino che se quest’ultimo fosse ancora nella sua villa di Honan. La signora Liou fu presentata contemporaneamente a Ming e, a un cenno del principe, si sedette. Tutto ciò turbò molto l’exmandarino di Boca Tigris, che stava timidamente esaminando la sua coscienza, quando il cugino dell’Imperatore alzò improvvisamente la testa e disse:

“Signor Presidente, ho esaminato attentamente le carte relative all’assassinio di Ling-Ta-Lang, ma non ho trovato tutti i documenti che la soluzione di un affare così grave richiede. Per questo vi ho fatto venire; perché, prima di inviare questi documenti a Pechino, ho bisogno di alcune informazioni che solo voi potete darmi”.

“Sono agli ordini di Vostra Altezza”, disse Ming, sforzandosi di apparire calmo.

“Non mi sembra”, ha proseguito il principe, “che i fatti relativi a questo caso siano stati studiati con tutta la cura auspicabile. Mi dispiace soprattutto che il prefetto di polizia e voi abbiate ritenuto necessario sottoporre questa giovane sposa a una prigionia molto dolorosa, anche se naturalmente i vostri primi sospetti sono ricaduti su di lei. Un esperto come lei non dovrebbe ignorare il fatto che le donne di una certa classe, accusate di una delinquenza o di un crimine, possono essere affidate ai loro parenti più prossimi, che risponderanno per loro. La signora Ling ha una madre. In assenza di motivi che possiate invocare per spiegare la vostra severità nei suoi confronti, penso che avreste potuto affidarla alla sorveglianza della madre”.

“Il crimine di cui questa persona si è macchiata”, rispose Ming con fermezza, “mi è sembrato di natura così eccezionale che ho ritenuto mio dovere mandarla in prigione per soddisfare l’opinione pubblica”.
“Un giudice non dovrebbe mai lasciarsi influenzare da voci provenienti dall’esterno. È con orecchie sorde che dovrebbe portare a termine il suo compito”.
“L’imputata ha confessato il suo crimine”.
“L’ha confessato sotto tortura. Ma passiamo a un altro punto. Avete confrontato le tracce dei passi nel giardino della villa con quelle dei sandali di I-té?”.
“Devo confessare che non l’ho fatto”.
“Ebbene, in questo avete commesso una colpa; perché avreste dovuto vedere che questo giovane sacerdote, i cui piedi sono estremamente piccoli, non avrebbe mai potuto lasciare tali tracce”. Sono quelle di un uomo grande e alto. Lo stesso vale per il segno di sangue visto su uno dei cuscini del letto nuziale. Nessuno dei due condannati avrebbe potuto farlo, è il segno di una mano enorme. Avete fatto qualche indagine a Foun- Si, la città dove Salice Ricamato viveva prima del matrimonio, prima del delitto?”.
“No”, mormorò Ming, sempre più turbato.
“Non avete scoperto se la signora Liou avesse qualche nemico, se sua figlia non fosse stata cercata da qualcuno oltre a LingTa-Lang?”.
“Certamente, da suo cugino I-té. È questo che mi ha fatto supporre che questo pretendente geloso fosse l’assassino”.
“È falso!”, disse la signora Liou, che non perse una parola di questa domanda. Mio nipote ha manifestato, è vero, il desiderio di diventare mio genero, ma mi è bastato dirgli una volta che questo matrimonio era impossibile, e si è sottomesso”.
Il principe fece cenno alla povera madre di tacere e riprese:
“Non avete nemmeno pensato di convocare e interrogare la serva Me-Koui. Avrebbe potuto darvi informazioni preziose sulle persone che aveva visto aggirarsi per la casa”.
“È vero”, riconobbe il mandarino, cominciando a perdere il controllo di sé. “Non ci avevo pensato. Le confessioni degli accusati, il ritrovamento del ventaglio di uno di loro sotto il cadavere della vittima, l’interesse che solo I-té aveva nella morte di Ling, mi sono sembrate prove sufficienti”.
“Credo che quella ragazza debba essere interrogata e l’ho mandata a chiamare”. Il viceré diede un ordine a uno dei suoi aiutanti. Quest’ultimo uscì per eseguirlo, ma tornò quasi subito con uno dei suoi colleghi, il cui volto era comicamente espressivo di sgomento.
“Qual è il problema?” chiese il principe. “Perché non ha portato la persona in questione?”.
“Perché non sono riuscito a trovarla, mio signore”, rispose l’ufficiale.
“Non siete riuscito a trovarla?”.
“No. Quando sono arrivato a Foun-Si, stamattina prima dell’alba, con i miei acerrimi poliziotti”, ho bussato invano alla porta, indicata. Poi l’ho aperta per vedere la casa. Non c’era nessuno lì. L’ho frugata da cima a fondo: era vuota. Le stanze erano spogliate di quasi tutto, i mobili erano rotti. Il furto non può essere stato commesso molte ore prima, perché nella sala da pranzo c’era ancora una lampada accesa.”
“Hai interrogato i vicini?”
“Non ho trascurato di farlo. Nessuno di loro aveva visto o sentito nulla.”

Il capo delle tre province, visibilmente irritato, si era alzato e passeggiava su e giù per la stanza. Ming non osava dire nulla; Anche la signora Liou, sopraffatta da questa nuova disgrazia, rimase in silenzio.

“Vedete, signor Presidente”, disse il viceré, fermandosi subito davanti al mandarino, “ecco un secondo crimine, che certamente è la conseguenza della vostra negligenza. Questo basta a convincermi dell’innocenza di coloro che avete condannato, perché mi sembra evidente che i veri assassini di Ling, per impedire alla serva di raccontare, l’hanno fatta sparire, se non fosse che la ragazza stessa è loro complice. Comunque sia, mi sembra che abbiate mancato ai vostri doveri, e nel modo più grave. Questo è ciò che ho deciso: Le prove documentali di questo caso stanno per andare a Pechino con le annotazioni che ho ritenuto opportuno aggiungere. Non può tornarmi prima di trenta giorni. Avete quindi un mese di tempo. Se in un mese scoprirete i veri colpevoli, l’innocente sarà giustificato e avrete riparato alla vostra colpa; ma se allo scadere di questo tempo le cose saranno ancora nello stato in cui le abbiamo trovate, e se il nostro augusto sovrano mi invierà l’ordine di lasciare che la giustizia faccia il suo corso, la signora Ling e I-té saranno giustiziati. Prima di tutto, devo dare l’esempio del rispetto della legge; ma tu, il giudice, riceverai cento colpi di bambù”.

“‘Cento colpi con il bambù’?” disse Ming vacillando, “cento colpi con il bambù?”. Sperava di non aver capito bene.
“Cento colpi con il bambù!” ripeté Sua Altezza.
“È la morte!”.
“Forse. Moriranno anche due innocenti, andate, e che Lao-tsu venga in vostro aiuto!”.
E senza prestare ulteriore attenzione al grande presidente della Corte penale, il principe Kong uscì immediatamente.
Ming era paralizzato: sprofondò su una sedia. Quando finalmente riuscì a trascinarsi fino al suo palanchino, i suoi servitori furono costretti a farlo sdraiare.
“Cento colpi di bambù!”, ripeteva incessantemente il pover’uomo durante tutto il tragitto, “a me, Ming, mandarino di terza classe!”.
Quando raggiunse la banchina dove i suoi barcaioli lo aspettavano per riportarlo a Honan, il suo volto era davvero convulso e dovette essere aiutato a salire sulla barca da due facchini.
“Cosa vi succede, mio caro signore?” gli chiese uno straniero mentre stava per salire sulla barca. “Sembrate infastidito. Le è capitata qualche disgrazia?”.
Ming si voltò e vide Perkins.
“Che cosa mi succede?”, ripeté l’infelice giudice, riconoscendo il suo vecchio amico di Boca Tigtis. “Qual è il problema? Sono disonorato, perduto, morto! Cento colpi di bambù! Cento colpi con il bambù!”.
E cadde nella barca, incapace di dire altro.

P A R T E I I

LA NINFEA BIANCA.

CAPITOLO I.
IL PREZZO DI UN’IMPICCAGIONE.

Erano passati appena otto giorni dagli eventi narrati nella prima parte di questo racconto, quando due uomini, che già conosciamo, a mezzanotte attraversarono il ponte di pietra che collega l’isola di Honan alla terraferma. Giunti alle prime case di quell’orribile quartiere di Canton che abbiamo già descritto, presero a destra, seguendo la riva per circa un centinaio di piedi, e si fermarono davanti ad una misera capanna le cui pareti erano bagnate dalle onde quando il il fiume era in piena.

Questi due uomini indossavano il costume campagnolo e, sebbene fosse così buio che dovessero quasi procedere a tentoni, avevano calato sugli occhi le larghe falde dei loro cappelli di feltro.
“È qui”, disse uno di questi uomini, designando la miserabile casa in cui erano venuti. “Era ora, perché non posso andare oltre. Che posto schifoso!”
Il fatto è che i suoi colleghi incaricati del benessere delle nostre strade non se ne preoccupano molto,” rispose il suo compagno. “Siete sicuro che questo sia il posto giusto?”
“Perfettamente sicuro”, rispose l’altro, che sembrava di pessimo umore. Mentre parlava, colpì due volte la porta con l’elsa della sciabola e, poiché solo l’eco rispondeva, bussò una seconda volta, brontolando: “Quella bestia di Roumi non è in casa. Questo è troppo, capitano!”.

“Abbiate pazienza, Presidente. Ecco che arriva qualcuno.”
Un debole raggio di luce brillò attraverso le fessure della porta, e quasi subito la porta fu aperta con molta cautela, ma non abbastanza larga da far passare chi si presentava così inaspettatamente a un’ora così tarda.

“Chi sei? Cosa vuoi?” – chiese burbero il proprietario del locale.
“Maledizione!” esclamò colui che l’altro aveva chiamato “presidente”, “ecco un jnconveniente che non avevamo previsto. Non voglio che il mio nome venga gridato sui tetti”.

“Roumi non vi riconoscerà subito voi, – voi non siete il suo fornitore ufficiale?” osservò il suo compagno, alzando le spalle.
“Ma certo!” disse Ming, perché è proprio lui; “Sto davvero diventando stupido!”

Il capitano Perkins, che era il compagno dell’onorevole magistrato, fece capire con un gesto che una simile trasformazione non sarebbe stata molto difficile, e seguì il suo amico, poiché la porta della misteriosa casa si era subito aperta al nome del presidente.
Il proprietario condusse i suoi visitatori in una stanzetta miserabile e maleodorante, il cui unico mobilio consisteva in una grande cassapanca di legno nero, in cui l’abitante di quella tana teneva i suoi vestiti, e un letto, vicino al quale fumava ancora una pipa di oppio. Alla vista di questa prova di trasgressione alle ordinanze relative all’uso del pericoloso narcotico, il mandarino si ricordò d’un tratto della sua alta funzione e, indicando con il dito la prova di condanna, stava per rimproverare severamente il fumatore, quando il trafficante lo fermò, dicendo in inglese.

“Non avete intenzione di intentare un processo verbale contro questo disgraziato?”
“Perché no?”
“Semplicemente perché è possibile che io gli abbia venduto questo oppio e che voi l’abbiate lasciato passare”.
“È vero”, disse con un sorriso forzato l’ex ispettore della dogana di Boca Tigris. “Inoltre abbiamo altre faccende a portata di mano.”

Poi, rivolgendosi a Roumi, che, piegato in avanti quasi a metà, aspettava umilmente l’interrogatorio del suo visitatore, chiese: “Sei tu colui che, dopodomani, giustizierà, a Hong Kong, i pirati condannati a morte la settimana scorsa? “
“Sì, signore”, rispose l’uomo alzando lo sguardo.

Se la sfortunata Salice Ricamata fosse stata lì avrebbe riconosciuto quest’individuo: era lui il boia che l’aveva condotta nella sua cella, e che l’aveva torturata così crudelmente per farle confessare un crimine che non aveva commesso.

“Decapiterete o impiccherete questi uomini? Mi risulta che il viceré fosse in attesa degli ordini.”
“Li ha ricevuti oggi. Come sapete, la legge condanna alla decapitazione solo coloro che si sono ribellati all’autorità sovrana. I pirati hanno aggredito e derubato solo gli inglesi e verranno impiccati.”
“Solo inglesi! Che distinzione lusinghiera per lo standard britannico!” mormorò Perkins.

Il boia delle esecuzioni capitali ha detto la verità. La decapitazione era allora una legge eccezionale in Cina; poiché, sebbene i Celestiali professino il più profondo disprezzo per la vita umana, desiderano almeno morire senza essere mutilati. Conservano con cura sulla sommità del capo una ciocca di capelli affinché l’Angelo della Morte li porti via, e quindi temono il castigo che divide il loro corpo e ne lascia così una parte sulla terra.

“Conosci questi uomini?” proseguì Ming.
“Sì,” rispose Roumi, cominciando a chiedersi cosa significassero tutte quelle domande.
“Uno di loro si chiama Peï-ho. È il capo della banda.”
“Lo conosco. È un tipo duro! Nessuno riusciva a farlo parlare.”
“Dove sono adesso i condannati?”
“A Hong Kong. Il governatore ha ordinato di lasciarli lì fino all’esecuzione. Verranno portati fuori sotto scorta di soldati inglesi.”
“Ebbene, sono venuto a comprare il corpo di colui che si chiama Peï-ho.”
“Il corpo di Peï-ho?”
“Sì: che ti importa? Non è necessario che tu lo consegni prima di averlo impiccato.”
Roumi continuava a fissare il suo interlocutore come se non comprendesse.
Impaziente, Ming continuò: “Allora, quanto vuoi? Vedi, è abbastanza? Se è troppo poco, fai il tuo prezzo”. Così dicendo gettò sul letto una borsa pesante che conteneva più denaro di quanto il disgraziato potesse guadagnare in un anno; ma il boia non rispose.
“Che cosa vuoi di più?” chiese con rabbia il mandarino.
“Dimmi perché vuoi fare questo scambio?”
“Non sono affari tuoi. Sei molto insolente a osare fare una domanda del genere!”
“Ma voi, mio signore, sapete bene quanto me che la legge punisce con cento colpi di bambù chiunque consegni un cadavere.”

“Ah! Allora voi credete che io sia un ladro di cadaveri per i chirurghi,” ribatté brutalmente il magistrato, nel quale le parole “cento colpi di bambù” avevano suscitato le riflessioni più malinconiche. Non è niente del genere. Accettare o rifiutare. Se accetti, riceverai il doppio di questa somma dopo la consegna del corpo di Peï-ho; se rifiuti, domani mi ricorderò di averti sorpreso mentre fumavi oppio.”
“Va bene, accetto,” si affrettò a rispondere il disgraziato terrorizzato.
“Allora ascolta e presta attenzione alle mie istruzioni. In primo luogo, abbi cura di impiccare Peï-ho tu stesso, ma fai molta attenzione ad appenderlo delicatamente, senza fargli male, e quando l’avrai appeso, lascialo tranquillamente all’estremità della sua corda.”
“Bene.”
“Mezz’ora dopo verrai come al solito a portare giù i corpi. Sarà notte e sarai solo con i tuoi uomini. Metterai i corpi su un carro per portarli via, ma dimenticherai quello di Peï-ho, e lascialo ai piedi del patibolo. Non ti chiedo altro.”
“Tutto sarà fatto esattamente come dici.”
“Sarete pagati la sera stessa. Non ho dimenticato niente?” – chiese Ming, rivolgendosi a Perkins, che era rimasto silenzioso testimone di questa scena.
“No, niente”, disse il capitano. “L’interesse e la paura costringeranno quest’uomo a mantenere il suo patto. Andiamo, altrimenti non potrò rientrare nella fabbrica, i cancelli saranno chiusi.”

Uscì davanti al presidente, al quale Roumi espresse la sua gratitudine in un omaggio che lo piegò a terra, e poi afferrò la lampada fumante per illuminare i suoi ospiti. Non appena la porta fu chiusa davanti a loro, si affrettò a tornare indietro per contare il prezzo dell’impiccagione di Peï-ho e per riprendere la sua pipa d’oppio.

Perkins e Ming tornarono di corsa sul ponte. Quando ebbero finito, il mandarino fece un sospiro di compiacenza e fermò il suo compagno dicendo:
“Ho fatto tutto quello che volevate, anche se non capisco il vostro disegno. Spero che anche adesso manterrete la vostra promessa.”
“La mia promessa! Quale promessa?” chiese l’americano con aria sorpresa.
“Quale promessa?” esclamò l’infelice giudice. “Perché la vostra promessa di aiutarmi a scoprire il vero assassino di Ling, visto che sembra che non sia I-té. Non riesco a trovare alcun indizio.”
“Ah! è vero, scusate. Me ne ero proprio dimenticato. Come va?”
“Affatto bene. Ho assunto agenti, ho visitato tutte le prigioni, ho interrogato un centinaio di prigionieri, ne ho bastonate venti. Inutile.”
“Avete fatto domande a Foun-Si, tra i vicini della signora Liou?”
“Sì; ma sfortunatamente la sua serva Rose è stata rapita, e le persone intorno non sapevano quasi nulla. Se non mi aiutate sono perduto.”
“Oh, non ancora! Non avete traccia dei rapitori di Rose?”
“No-sì: in riva al mare, dove i banditi che l’hanno portata via dovevano aver rubato una barca che mancava, è stato ritrovato un cappello da marinaio.”
“Cinese o europeo?”
“Cinese, come quelli indossati dai pescatori, o dai vostri amici pirati delle Isole Ladrone.”
“Ah! questo è un indizio; perché se questi sono davvero i pirati che hanno portato via la serva della signora Liou, possiamo supporre che sia stato uno di loro ad assassinare Ling-Ta-Lang.
“Forse è proprio così.”
“Ora devo concludere che se riusciamo ad avere la prova che sono stati loro a rapire Rose, saremo sulle tracce dell’assassino. Può darsi che proprio stasera, comprando il corpo di Peï-ho, abbiate reso a voi stesso un servizio più grande di quello che avete reso a noi.”
“Ah? Non riesco proprio a capirlo.”
“Se non sbaglio, capirete tutto molto presto; ma dopodomani dovete venire a Hong Kong.”
“Il giorno in cui i pirati verranno giustiziati?”
“Lo stesso. Sarà del tutto naturale per voi venire alla colonia. Accettate il mio invito a cena, forse potrete imparare qualcosa di interessante per voi. Fatevi coraggio. Buonanotte.”
Durante la conversazione i due amici erano arrivati alla fabbrica americana, dove i portatori di Ming lo aspettavano fuori dal cancello.
“Ebbene, buonanotte. Allora ci vediamo dopodomani,” sospirò il mandarino svegliando a calci i servi; “ma vi assicuro che non posso supporre quale sia il vostro piano.” E si distese sul suo palanchino, fatalista, rassegnato al peggio.

Perkins andò direttamente all’appartamento che occupava con Sir Arthur Murray quando erano a Canton, ovvero circa venti giorni ogni tre mesi.
“BENE?” – chiese l’inglese, che era rimasto seduto ad aspettarlo.
“È fatto,” disse gioiosamente il capitano. “Ming è stato molto abile, quasi intelligente.”
“Allora ci daranno Peï-ho?”
“Non appena sarà calato dal patibolo: cioè circa mezz’ora dopo che sarà stato impiccato.”
“Abbastanza bene! Sono andato a Hong Kong e ho visto il mio vecchio compagno dottor Clifton. Lui si occuperà del lavoro. E Peï-ho? Ti è costato molto?”
“Molto economico: quaranta dollari prima della corda e cento dopo.”
“Per niente, davvero.”
“Nient’altro che un mascalzone di circa un metro e ottanta, che sarebbe andato alla sua esecuzione benedicendo il suo sovrano, ‘il Figlio del Cielo’ perché non gli sarebbe stata tagliata la testa.”
“Allora va tutto bene. Possiamo dire, come Titus, che non abbiamo perso la giornata.”
E con questa riflessione filosofica, poco lusinghiera per la memoria dell’imperatore romano, poiché è dubbio che il figlio maggiore di Vespasiano abbia mai comprato un malfattore impiccato, Perkins augurò “sogni piacevoli” a Sir Arthur, e si ritirò nella sua camera da letto.

LA NINFEA BIANCA.

CAPITOLO II.
I DUE CONDANNATI A MORTE.

IMPRIGIONATA in un alloggio più confortevole rispetto all’inizio, e costantemente assistita dalla sua devota madre, Ricamata Willow soffriva meno fisicamente che mentalmente. Le ferite nelle sue piccole mani erano completamente cicatrizzate, ma il suo cuore era spezzato; e la signora Liou esaurì le proprie forze in sforzi di tenerezza per calmare sua figlia. La dolce creatura si afflosciò rapidamente, le sue guance si incavarono e pianse incessantemente. Per giorni interi non riuscì a spiccicare una parola: sembrava preda di un dolore segreto, la cui dichiarazione sembrava arrestata sulle sue labbra scolorite. Venti volte si gettò tra le braccia della madre singhiozzando, e quest’ultima pensò che stesse per parlare; ma ricadde di nuovo nel suo silenzio e nella sua prostrazione.
La signora Liou non sapeva cosa pensare e temeva per la ragione di sua figlia; così una mattina, vedendola ancora più triste del solito, prese la figlia sulle ginocchia, e le disse, accarezzandola teneramente:
“Dimmi, tesoro mio, non hai più affetto per me, che taci quando ti interrogo? La tua condanna non deve allarmarti: l’assassino di tuo marito sarà scoperto, e presto ritorneremo alla nostra casetta a Foun-Si, dove saremo felici e sereni, e ricorderemo questi giorni tristi solo come un brutto sogno. Il Cielo ti ricompenserà delle prove che ti sono state inflitte. Parlami, ti prego!”

La prigioniera abbassò la fronte gelida sul petto di sua madre.”I-té è morto, perché non parli mai di lui?” – mormorò Liou-Sion senza alzare gli occhi.”No, davvero”, rispose rapidamente sua madre; “tuo cugino, anche se molto debole, sta molto meglio.””Davvero?” disse la ragazza, con un sorriso ineffabile.”Lo giuro! Lo sento tutti i giorni. Stamattina ho avuto una bellissima notizia. Temevano per questo perché…—-“

“Oh! Lo so, lo so!” interruppe con un brivido la povera bambina. Non poteva dimenticare le terribile torture a cui era stato sottoposto il giovane sacerdote.”Ma ha recuperato la sua intelligenza, e almeno è coraggioso.”Quest’ultimo rimprovero fu fatto con un accento di infinita tenerezza.”Vorrei poterlo vedere,” disse Willow Ricamata con una voce così bassa che la signora Liou lo indovinò più che sentirlo.”A vederlo?” ripeté la madre.”Sì: non sono io la causa delle sue sofferenze? Non sono io che l’ho fatto arrestare e condannare? Non è per me e per me che morirà come un assassino? Se potessi chiedergli perdono!”

A queste strane parole dette con crescente esaltazione, la povera donna comprese ciò che passava nel cuore di sua figlia, e glielo disse a bassa voce.
“Lo ami, allora?”
“Non lo so; vorrei soltanto che mi perdonasse prima di morire tutti e due.”
“Ma nessuno dei due morirà, ne sono certa. E oggi potrai vedere I-té.”
Portò Willow Ricamata sul letto, le diede un ultimo bacio, la raccomandò alle cure dell’inserviente muta, e uscì. In meno di quindici minuti ritornò, e la povera ragazza, il cui sguardo ansioso non si allontanava mai dalla porta della camera, lesse subito sul volto di sua madre che era riuscita nella sua missione. Il direttore del carcere le aveva subito concesso l’autorizzazione desiderata. Temendo che lui stesso, così come il presidente Ming, potessero diventare oggetto dell’ira del viceré, a causa della severità con cui aveva trattato la sua prigioniera il primo giorno del suo arrivo, fu felice di avere l’opportunità di mostrarsi umano e generoso.

Quando Ricamata Willow seppe che era libera di far visita a suo cugino, sentì il suo cuore quasi cessare di battere, per la gioia; e, nonostante la sua debolezza, era pronta a partire immediatamente. Ma ahimè! non era più la ragazza fresca e in fiore a cui la cartomante della Via dei battilori aveva predetto ricchezza e felicità. In un mese era invecchiata di dieci anni. Riusciva a malapena a salire sulla portantina che era stata mandata per portarla all’ospedale dove era detenuto I-té.
Questo ospedale è uno degli stabilimenti più notevoli di Canton ed è situato nel mezzo di splendidi giardini nella città tartara, a poca distanza dal palazzo del principe Kong.
Quando arrivarono. La signora Liou condusse sua figlia al letto del povero I-té, che era, anche in questo luogo di sofferenza, una scena che toccava il cuore.
In una piccola stanza a parte, sorvegliata notte e giorno da due agenti di polizia, il giovane sacerdote, pallido e sofferente, era disteso su una bassa branda. Le sue ferite non erano del tutto guarite, ma la sua ragione era tornata; infatti, quando Ming in persona, direttamente interessato a ottenere tutte le informazioni possibili sull’omicidio, volle interrogare I-té, questi rispose.
“Mi avete condannato a morte: non avete più il diritto di torturarmi. Lasciatemi morire in pace”.

Tuttavia, quando vedeva qualcuno entrare nella sua stanza, solitamente visitata solo dai medici, inizialmente non capiva cosa significasse. Quando vide Ricamata Willow e sua madre pensò di aver avuto una visione, e ringraziò Buddha per averla inviata per rallegrare la sua solitudine; poi una luce irruppe nella sua mente. Mormorando un nome amato, tese le braccia. Willow ricamata era già inginocchiata accanto a lui, e premendo le labbra su una delle sue mani macilente mormorò:
“Sono io che ti ho rovinato, I-té. Potrai mai perdonarmi?”.
L’invalido rispose solo con un sorriso e lacrime di gioia sgorgarono dai suoi occhi. Comprendeva di essere amato: le sue sofferenze non esistevano più; anzi, benediceva il suo dolore. Per un momento entrambi rimasero in silenzio. La signora Liou non si sognò mai di disturbarli. I-té parlò per primo.
“Ma, vedi”, disse, “tutto ciò doveva essere, e non ho nulla da perdonare. Era scritto, che non potendo vivere insieme, saremmo stati uniti nella morte. Non ribelliamoci al destino. Tu sei qui vicino a me, sento la tua mano premere la mia. Non soffro più, chiedo solo un po’ di forza per andare all’esecuzione come dovrebbe fare un uomo la cui coscienza è irreprensibile. Oh! Dovrei darti coraggio con il mio esempio. Perché non ho due esistenze? Le offrirei in cambio della tua”.
“Ma noi non moriremo, I-té. Non sai cosa è successo?”. Ella si affrettò a raccontargli tutto ciò che aveva appreso da sua madre.

“Stai sognando!”, disse il giovane quando lei ebbe concluso. “Quanto a me. Non desidero la pace, perché la certezza di dover morire presto mi dà il diritto di dire che ti amo!”. La figlia della signora Liou sentì un brivido di gioia attraversare il suo essere e abbassò la testa.
“Si Ti amo!” ripeté il giovane sacerdote; e facendo uno sforzo sovrumano, I-té si sporse verso la cugina e le posò un bacio sulla fronte. Poi, sopraffatto da tutte queste emozioni, pallido come se fosse sul punto di morire, chiuse gli occhi e ricadde sul cuscino, mormorando:
“Io faccio più che perdonarti: ti ringrazio e ti adoro!”
Willow ricamata pensava che stesse per morire.
“I-té!” – esclamò lei, gettandosi su di lui.
“Non si allarmi, signora,” disse il medico dell’ospedale, sollevandola dolcemente. “Il tuo amico è soggetto a questi attacchi di svenimento. Questa è stanchezza sufficiente per oggi: faresti meglio a ritirarti.”
Detto dal dottore, questo era un ordine. La vedova di Ling capì. Si chinò sul parente, gli diede un ultimo bacio, dicendo. “Verrò di nuovo presto” come se potesse sentire, e facendo un cenno alla madre, lasciò la stanzetta che conteneva tutto il suo cuore.

CAPITOLO III.
L’ASSASSINO RICONOSCIUTO.

Le due donne entrarono nei loro palanchini e, scortate dall’ufficiale di polizia che le sorvegliava, raggiunsero presto la porta di Taenan, un tunnel ad arco, lungo più di quaranta metri, sotto il bastione che separa la città cinese da quella tartara di Canton, e che era sorvegliato ad ogni estremità da ufficiali armati. Proprio mentre i portatori della signora Liou e di sua figlia stavano per entrare in questo tunnel, alcune parti del quale erano sempre in penombra, nonostante le lanterne poste qua e là, la folla era così numerosa che dovettero aspettare fino a quando il passaggio era più libero.

Erano lì da qualche momento, con i loro palanchini vicino al muro, quando Ricamata Willow sentì una mano sulla sua spalla. Lei si voltò all’improvviso. Un uomo, di cui non riusciva a distinguere i lineamenti, aveva infilato la parte superiore del corpo attraverso la porta del suo palanchino e l’aveva afferrata. Stava per gridare, ma prima che potesse farlo, lo sconosciuto l’aveva afferrata, abbracciata e respinta, dicendo:
“Ora sai come si vendica Tchou. Il Ragno Rosso non lo vedrai mai più, se non una volta: sarà ai piedi della tua forca.”

“Aiuto! Aiuto!”, gridò Liou-Siou, sconvolta dal disgusto e dal terrore. Riconobbe il macellaio, anche se non gli aveva mai prestato molta attenzione, e all’improvviso le venne in mente che non era la prima volta che sentiva la sua voce, anche se non ricordava di avergli mai parlato.
Dove, quando, in quali circostanze questa voce aveva già colpito il suo orecchio?
La signora Liou fu la prima a rispondere all’appello della figlia e la strinse tra le braccia. Né il poliziotto né i portatori capirono cosa fosse successo.

Aiuto! aiuto!

“Eccolo! L’ho appena visto!”, disse Liou-Siou, indicando la parte più buia del tunnel.
“Cosa è successo? Di chi stai parlando?” chiese la madre sconcertata.
“Lui! L’assassino!”.
“L’assassino? Chi è? Dimmi cosa intendi”.
“Oh! Ora lo riconosco. È un certo Tchou il macellaio, nostro vicino di casa a Foun-Si. Tu lo conosci”.
“Tchou? Il ‘Ragno Rosso’?”.
“Sì, il ‘Ragno rosso’! Ah! Sento ancora il suo morso!”.
“Su, calmati! Questo è solo un sogno, un’allucinazione!”.
“Oh, no! L’ho visto chiaramente, e ricordo! È la stessa voce che ho sentito nella mia stanza a Villa Ling la notte del mio matrimonio! Oh! La ricorderò sempre! Ho paura! Ho paura!”

Quando sua madre vide la ragazza terrorizzata al sicuro nella prigione, si affrettò a raggiungere la residenza del presidente Ming. Quell’infelice mandarino era immerso nella più profonda disperazione, e quando fu annunciata la signora Liou dovette fare uno sforzo considerevole per accoglierla con la consueta calma dignità. Ma la madre di Ricamata Willow era troppo concentrata sui suoi affari per notarlo. Tralasciando i soliti cerimoniali, andò dritta al punto e disse a Ming:

Avete quasi lo stesso interesse che ho io a scoprire l’assassino di Ling, non è così?”.
“Direi proprio di sì!” rispose il magistrato. “Tanto interesse quanto voi nello scoprire l’assassino di Ling? Io ne ho di più, molto di più!”.
“Questo riguarda la vita di mia figlia”, osservò la signora Liou.
“E il mio onore di giudice”, rispose quel funzionario, con più presenza di spirito di quanto lui stesso avesse creduto di essere capace.
“Ebbene, conosco questo assassino!”.
“Lo conoscete?”
“Mia figlia l’ha visto”.
“Dove?”
“Sotto l’arco della porta di Taenan, mentre tornavamo dall’ospedale dove il povero I-té sta morendo”.
“Sotto l’arco della porta di Taenan? E non l’avete fatto arrestare?”.
“Nell’oscurità ci è sfuggito facilmente”.

Poi la signora Liou raccontò ciò che la figlia le aveva detto sull’improvvisa comparsa dell’assassino.

“E chi è il disgraziato?”.
“È uno dei miei vecchi vicini di casa a Foun-Si, un macellaio di nome Tchou”.
“Tchou? Aspettate un po’. Quello che i ragazzi di strada chiamano il ‘Ragno Rosso’?”.
“Sì”.
“Bene! Quel Perkins è un mago, uno stregone! – e io sono un imbecille”. Sembra superfluo dire che quest’ultima frase era un inciso.
“Non capisco”.
“Oh! Ho capito! Quest’uomo ha lasciato Foun-Si al momento del fidanzamento di sua figlia?”.
“Più o meno in quel periodo: il suo negozio è stato chiuso da circa tre mesi”.
“Egli amava sua figlia e ha ucciso suo marito per gelosia!”.
“Ne sono certa!”
“Dove lo troveremo ora?”
“Visto che mezz’ora fa era a Canton, non può essere lontano”.
“È vero! Sto davvero perdendo la testa. – Hai sentito, Tin-tung?”.
Quest’ultimo si rivolse al suo segretario, che era presente in modo approssimativo al colloquio.
“Ho sentito, mio signore”, rispose umilmente lo scrivano. “Cosa bisogna fare?”.
“Andare da Fo-hop”.
Tin-tung si avviò verso la porta.”No, non importa: Ci andrò io stesso”, disse il presidente, suonando un gong.
Una mezza dozzina di servitori rispose immediatamente.
“Presto! Il mio palanchino e i miei portatori più forti!” ordinò Ming; e cominciò a camminare su e giù, mormorando:
“Tchou il macellaio, il Ragno Rosso! Se solo non fosse troppo tardi!”.
Nel giro di cinque minuti il suo equipaggiamento fu annunciato.
“Ha il suo palanchino, signora?”, chiese alla sua ospite.
“Sì”, rispose la signora Liou.

“Allora seguitemi: andiamo dal prefetto di polizia. Non c’è un momento da perdere.” E Ming l’enorme, al quale la speranza di sfuggire ai minacciosi colpi del bambù restituiva tutta l’agilità della sua giovinezza, quasi balzò sul suo palanchino.
I suoi portatori si piegarono sotto il suo peso, ma partirono lo stesso velocemente. Quelli della signora Liou dimostrarono il loro rispetto; sebbene fossero solo due e avessero già percorso una lunga distanza, arrivarono insieme al mandarino. Quest’ultimo offrì galantemente la mano alla povera donna e la condusse al cospetto di Fo-hop.

Con poche parole Ming lo mise al corrente di quanto era accaduto sotto il tunnel della porta di Taenan.

“Se quest’uomo non lascia la città entro un’ora, non ne uscirà, ve lo prometto!” disse il capo della polizia.
“Cosa farete?”
“Con il pretesto che è stata segnalata la presenza di esploratori dell’esercito ribelle nelle vicinanze, farò chiudere tutte le porte di Canton.”
“Molto bene!”
“E manderò l’ordine al comandante del porto… di tendere delle catene attraverso il fiume in modo che nessuna nave possa uscire dal porto.”
“Siete un uomo meraviglioso!”
“Allora i miei cinque agenti principali, ben assistiti, percorreranno tutti i covi della città e dei sobborghi. Tra mezz’ora il ti-pao riceverà l’ordine di non lasciar circolare nessun individuo sospetto.”

In Cina i guardiani notturni si chiamano ti-pao. Ogni strada ha la sua, sempre la stessa, tanto che questi uomini conoscono per nome e di vista tutti gli abitanti del quartiere che sono chiamati a sorvegliare. C’è un solo difetto in questa ingegnosa organizzazione, che dovrebbe costituire un ostacolo insormontabile per i malfattori; cioè questi guardiani del pubblico benessere, mentre vanno in giro, colpiscono continuamente un cilindro di legno, producendo un suono simile a quello di un sonaglio, e portano alla cintura una lanterna accesa. Il risultato è dunque che i ladri, sentendoli e vedendoli da lontano, possono esercitare la loro professione senza pericolo.

“Solo che”, continuò Fo-hop, “ho bisogno della descrizione dell’assassino”.
“Sì, certo! E non l’ho nemmeno chiesta!” rispose Ming, ingenuamente. “La signora ve la darà”.

La madre di Salice Ricamato si affrettò a fornire un ritratto così dettagliato di Tchou che il coraggioso magistrato non poté fare a meno di piangere.

“Potrei riconoscere il mostro tra mille!”.

Fu interrotto dall’arrivo degli agenti che il prefetto aveva mandato a chiamare. Quest’ultimo spiegò loro cosa dovevano fare e, dopo aver dato loro le istruzioni più minuziose, stava per mandarli via, quando il presidente Ming, che aveva recuperato tutta la sua arroganza, disse loro bruscamente.

“Sapete che questo criminale deve essere trovato questa notte stessa o, in caso contrario, domattina potrete aspettarvi venti colpi di bambù, ciascuno di voi!”.

I poveretti si inchinarono quasi fino a terra, non osando protestare, e uscirono.

“Siete severo, mio caro presidente”, disse Fo-hop, dopo la partenza dei suoi uomini. “Venti colpi con il bambù se non ci riescono. Come la mettete!”.
“Mi minacciano con cinque volte tanto”.
“Dato che gli uomini sono cinque, questo fa proprio il vostro numero.”
“Fortunato se è solo un convenevole, e voi sfuggete all’umiliazione!”.
“Ma credo che se volessimo fare di meglio che mandare i nostri uomini, cercheremmo quest’uomo da soli”.
“Noi stessi?”
“Supponiamo che stasera accompagniamo i miei agenti.”
“Lo intendete seriamente?”.
“Molto seriamente. Il ritratto di Tchou mi sembra che sia impresso nella vostra mente”.
“Credo che lo sia!”.
“Allora andate a casa, indossate un semplice costume da cittadino, come quello che indossate quando lasciate l’isola di Honan di notte – per andare a visitare le barche da fiori?”.
“Le barche da fiori? I? Potete —–“
“Il mio dovere mi obbliga a sapere tutto”.
“Bene, d’accordo! Andrò dove volete voi”.
“Verso le dieci verrò a prendervi”.
“Molto bene, vi aspetto”.

CAPITOLO IV.
CANTON DI NOTTE.

Inutile affermare che, nonostante la dimostrazione di coraggio da lui data, Ming, – l’intrepido Ming! – ingiurò il progetto al quale Fo-hop lo aveva impegnato almeno venti volte nei venti minuti impiegati dai suoi portatori per riportarlo a casa. Nessuno meglio di lui sapeva, – naturalmente solo per sentito dire – che certi quartieri di Canton erano molto pericolosi durante la notte, e il suo ricordo tornava con fastidiosa insistenza al fatto che la polizia non osava immischiarsi se non a rari intervalli.

Trascorse così il resto della giornata in riflessioni molto spiacevoli. Tuttavia la sera, dopo un’abbondante cena, ritrovò un po’ di serenità, e quando Fo-hop lo venne a chiamare, verso le dieci, era già prontissimo, travestito da facchino, e si sentiva più disposto a fare buon viso a cattivo gioco.

“I miei ordini sono stati così eseguiti,” gli disse il prefetto, “che se tu non fossi con me non potresti tornare a Honan stasera. La città è chiusa e barricata, con il pretesto che quei ribelli, i Taï-pings, siamo in armi. Andiamo.”
“Andiamo”, gli fece eco il magistrato. Fece strada verso la porta, ma non vedendo nessuno in strada, si rivolse rapidamente a Fo-hop, dicendo: “Sei solo?”
Piuttosto solo. Dato che non abbiamo niente da fare in città, ho lasciato i miei agenti al cancello di Tsing-hae, con l’ordine di aspettarmi. Ci uniremo a loro lì.”
Ming dissimulò la gioia che gli dava questa informazione.
“Ce ne sono solo due, comunque.”
“Senza senso!”
“Sì; ma uno di questi due è un valido ausiliario. È il figlio di un povero disgraziato, Soun-po, che voi avete condannato la settimana scorsa a tre mesi di cangue. Ho promesso di ottenere la grazia per suo padre, se ci serve bene.”
“E lui ha accettato?”
“Con grande gratitudine. E poiché ho anche promesso di non ricordare i suoi legami con questa bassa classe sociale che desideriamo visitare, ci condurrà alla corte del Re dei Mendicanti, e poi in certi luoghi dove il vostro assassino potrebbe essersi rifugiato.”
“‘Il re dei mendicanti’?”
“Certamente. Non sapete che queste persone hanno formato un’associazione regolare, il cui reggente è stato nominato dal sottoprefetto?”
“Ne ho sentito parlare, ma ci credevo solo a metà.”
“Li vedrete a casa vostra”.

Conversando così, e dopo aver fatto aprire dieci barricate per loro, i due mandarini raggiunsero la porta Tsing-hae. Fo-hop si fece riconoscere dall’ufficiale che comandava la postazione e attraversarono il bastione. I due uomini che aspettavano all’appuntamento il prefetto si erano addormentati per terra vicino al ponte, al riparo di alcune grandi giare che un mercante di terraglie aveva deposto sulla riva. Il collega di Soun-po era un agente di polizia nel quale si poteva riporre tutta la fiducia. Si chiamava Amoy. Basso e robusto di fisico, era il tipo del cinese meridionale. Svegliato dall’apertura del cancello, lui e il suo compagno balzarono in piedi e attesero gli ordini del suo capo.

“Andiamo,” disse quest’ultimo, “prima da Sang.”

L’agente annuì e, facendo segno a Soun-po, fece strada. La piccola compagnia si diresse verso il ponte dell’isola di Honan, e dopo averlo attraversato si immerse nel dedalo di vicoli fangosi che occupavano tutto lo spazio compreso tra la riva e il tempio di Buddha. Nonostante l’ora tarda, questo quartiere della città era tutt’altro che deserto e tranquillo. Al contrario, ad ogni passo Fo-hop e Ming incontravano passeggiatori, e da ogni abitazione proveniva una moltitudine di rumori che dimostravano abbastanza chiaramente quanto i cinesi amino trasformare la notte in giorno.

“E se ci fermassimo qui un attimo?” propose all’improvviso il prefetto. Si trovavano davanti a una casa nella quale entravano o uscivano numerosi individui indaffarati, alcuni allegri ed estroversi, altri cupi e silenziosi.
“Molto bene”, rispose il magistrato. “Cos’è questo buco?”

Il luogo aveva un aspetto molto sinistro: la facciata era rozzamente intonacata, e l’ingresso era un lungo corridoio, illuminato da due lanterne fumose, che sembrava conducesse a qualche luogo maligno.

“Questo ‘buco’, come lo chiamate voi, mio caro presidente, è una delle tue fonti di reddito più preziose.”
“Una delle mie ‘fonti di reddito’?”
“È una delle case da gioco più frequentate delle tre province.”
“E noi ci entriamo?”
“A meno che voi non pensiate che abbiamo più possibilità di trovare i gioielli tra di loro che contro i banchieri, che hanno sostenuto l’assassino di Prince Kong.”
Avete ragione”, approvò il mandarino, ispirato al coraggio dal nome del viceré. “Entriamo.” Ed entrò per primo nel corridoio, seguito da Fo-hop.

Circa a metà del corridoio, sulla destra arrivarono ad una porta spalancata, che era l’ingresso di una vasta sala dove c’erano quasi centocinquanta persone, ma l’atmosfera era così densa che dapprima i due amici non riusciva a distinguere nulla. Tuttavia, presto si abituarono e Ming fu tutto occhi e orecchie.

Su grandi panche di legno, addossate al muro, giacevano alcuni degli occupanti, fumando oppio e apparentemente indifferenti a tutto ciò che stava accadendo; ma altre parti del luogo erano meno tranquille. I presenti formavano gruppi distinti attorno ai tavoli occupati dai giocatori, che dal loro abbigliamento sembravano appartenere alle classi inferiori. Tuttavia, poiché alcuni di questi tavoli erano letteralmente ricoperti di monete e lingotti d’oro, Fo-hop aveva buone ragioni per supporre che lui e Ming non fossero gli unici a essere lì in incognito.

I giocatori giocavano tra loro o contro i banchieri, che tenevano la posta e distribuivano le carte, carte vere, come quelle che usiamo in America, con la differenza che le figure dei re, delle regine e dei fanti furono sostituite da uccelli fantastici, rossi, verdi e azzurri, o da draghi che sembravano fare smorfie spaventose ai perdenti, – e dalla galleria, che correva intorno alla sala, altri giocatori facevano scendere le loro scommesse in piccoli cestini, che per la maggior parte parte sono state redatte nuovamente vuote.

Dopo aver ispezionato uno per uno i diversi gruppi di questa strana sala da gioco, senza incontrare nessuno che rispondesse alla descrizione che la signora Liou aveva fatto di Tchou, Fo-hop e Ming si intrufolarono tra gli sguardi dei curiosi, vicino a un tavolo da gioco.
C’erano solo due giocatori al tavolo, ma evidentemente facevano sul serio. La folla seguiva con entusiasmo tutti i loro movimenti eccitando gli avversari con voci e gesti. Uno di questi giocatori era un giovane la cui fisionomia non tradiva alcuna emozione.

Ad ogni nuova distribuzione delle carte il mucchio d’oro e d’argento che aveva davanti a sé aumentava, ed egli attirava flemmaticamente i suoi guadagni verso di sé, a malapena sorridendo, uno strano sorriso, che sembrava esprimere non tanto la soddisfazione per la sua buona fortuna, quanto l’odio verso colui che stava rovinando. L’altro era un ometto sulla cinquantina d’anni, il cui volto magro portava i segni di ogni sorta di eccessi. I suoi occhi infossati e sbiaditi, le sue labbra pallide e avvizzite, i suoi denti anneriti e rotti, le sue mani tremanti, tutti i movimenti febbrili del suo corpo, tradivano il suo vizio preferito, l’abuso dell’oppio.
Giocò nervosamente, maledicendo la sua fortuna, e perse la testa. Alla fine, avendo perso l’ultima piastra, si alzò imprecando. La folla si disperse, come se temesse che potesse compiere un atto di vendetta contro uno di loro. Ma non fece nulla del genere. Quasi istantaneamente si calmò e il giocatore in rovina si diresse con calma verso la parte della casa riservata ai fumatori d’oppio. Il prezioso narcotico gli avrebbe fatto dimenticare la perdita e gli avrebbe dato la speranza di una gloriosa vendetta.

“Andiamo”, disse Ming a Fo-hop. “Il nostro uomo non è qui, questo è certo”.
“Sì, andremo”, rispose il prefetto; ma non dimenticherò questa casa da gioco. È questo che porta tanta clientela ai banchi dei pegniI. l ti-pao del distretto di Honan sarà ripreso per non avermelo segnalato”. I due mandarini riguadagnarono la strada.
“Da Sang, adesso,” ordinò Fo-hop. “Per quanto malfamato possa essere il suo dominio, non può essere molto peggio di così.”

La notte era molto buia, e Ming rabbrividì quando il prefetto lo afferrò per un braccio e lo trascinò in un vicolo oscuro, dove Soun-po e Amoy avevano aperto la strada, scomparendo nelle sue ombre cupe come se l’oscurità li avesse inghiottiti. Ming e il suo collega avevano appena fatto un centinaio di passi, avanzando in punta di piedi verso alcune luci che videro in lontananza, quando una mezza dozzina di strani esseri apparvero all’improvviso come se fossero scaturiti dalla terra, e si fermarono dall’altra parte del vicolo per sbarrare loro il passaggio.

“Chi siete? Cosa volete?” chiese minacciosamente uno di questi uomini. Ming eseguì un movimento di ritirata. Soun-po avanzò velocemente, scambiò qualche parola con lo sconosciuto, il quale si allontanò, incaricando prima i suoi compagni di non lasciar passare gli estranei.
“Credo, che Buddha mi perdoni!” mormorò l’altero magistrato, “che il re dei mendicanti ci fa aspettare nella sua anticamera.
“Ah! È un vero sovrano, più potente di tanti altri”, rispose Fo-hop. “Dopo tutto, si comporta nei nostri confronti solo come noi abbiamo fatto con molti altri”.
“Ma come, tu che sei il prefetto di polizia di Canton, ti consideri con tale canaglia?”.
“Sang a volte è molto utile. In cambio di alcune immunità di cui gode la sua associazione, mi tiene informato su alcune questioni che mi interessa molto conoscere, e quando viene commesso un crimine di cui non riesco a scoprire gli autori, mi rivolgo a lui, e lui mi assiste.”
“Perché allora non vi siete rivolto a lui per trovare l’assassino di Ling?”.
“Per due motivi: primo, perché eravate così sicuro di aver condannato i veri e unici colpevoli; secondo, perché il crimine è stato commesso fuori Canton”.

Ming stava per dire che queste ragioni gli sembravano insufficienti, quando Soun-po annunciò il ritorno dell’inviato, che tornò di corsa, il che sembrava essere di buon auspicio per la loro accoglienza. Infatti, non appena si ricongiunse ai nostri amici, si inginocchiò e li pregò di seguirlo.

CAPITOLO V.
IL RE DEI MENDICANTI.

In pochi minuti i due mandarini raggiunsero l’estremità della strada ed entrarono nello strano luogo dove teneva la sua corte il Re dei Mendicanti. Era un immenso quadrilatero, circondato sui quattro lati dalle più miserabili catapecchie. Un grande capannone, presumibilmente il tribunale, occupava il centro. C’erano almeno due o trecento disgraziati, divisi in gruppi: alcuni fumavano senza dire una parola, altri mangiavano, giocavano a carte o fasciando le ferite che fornivano loro il mezzo di sussistenza. Diverse lanterne sospese al tetto del capannone e alcune torce conficcate nel terreno illuminavano la scena fantastica.

Questa folla bizzarra era composta da ogni mostro che la natura o la malattia potesse generare: giganti, nani, monchi con una gamba, con un braccio solo, gobbi, con un occhio solo, ciechi, lebbrosi e paralitici. Ming, che li esaminò attentamente, nella speranza di trovare tra loro Tchou il macellaio, notò che la maggior parte di queste ferite erano fittizie e che la maggior parte di queste deformità erano simulate. Il fatto è che tutte queste persone erano molto gaie, e non sembravano soffrire molto.
Il degno magistrato ne fu pienamente convinto quando vide uno storpio, seduto in un catino di legno, che si trascinava per i piedi, saltare fuori dall’imbracatura, infilarsi l’apparecchio sotto il braccio e ballare una giga per sciogliersi. le sue gambe. La sorpresa che questa improvvisa trasformazione causò all’onorevole presidente non gli impedì di seguire il suo compagno, e giunsero in fondo alla rimessa, cioè al cospetto di Sang, che si alzò per salutare i suoi visitatori.

Sang.

Il Re dei Mendicanti era un uomo di circa sessant’anni, di statura gigantesca e di fisionomia amabile, sebbene fosse di tipo tartaro. Era vestito con una lunga veste di seta blu a brandelli e portava un grande cappello di rattan intrecciato ornato di conchiglie. Al collo portava una pesante collana di giada e all’indice della mano destra portava un grande anello d’argento, un anello il cui castone recava un onice inciso con una figura inginocchiata. Questi due gioielli erano le insegne del suo potere e della sua dignità. Un vagabondo deve solo essere dotato del sigillo di Sang per viaggiare senza paura dal nord al sud della Cina. Sua Maestà era ridotta a brandelli. “Mi bastano cinque minuti per finire con il mio tesoriere. Oggi controllo i suoi conti: non posso far aspettare i miei sudditi.”

Il prefetto e Ming videro allora un personaggio, quello che Sang chiamava con tanto orgoglio il suo tesoriere, che annotava su un grande foglio di carta un interminabile elenco di cifre, mentre il suo padrone, incurante del proprio rango, contava e smistava con grande attenzione le monete di ogni tipo contenute in un grande piatto di rame che teneva sulle ginocchia. Erano le entrate pecuniarie della settimana appena trascorsa. Quanto ai guadagni in cibo e vestiario, venivano divisi ogni giorno, la sera, subito dopo il ritorno dei mendicanti, da distributori onorati della fiducia del loro sovrano. Gli indumenti e il riso che ricevevano erano tutti trasformati in una scorta comune. I primi venivano puliti e stirati per essere venduti, poiché una delle regole dell’associazione era quella di indossare solo stracci. Il riso veniva conservato con cura per i giorni di carestia. Si vedrà così che Sang era un re pieno di lungimiranza e che il suo illustre regno fu segnato dalla più saggia delle leggi economiche.

Ming stava probabilmente per giungere a questa conclusione, mentre esaminava attentamente ciascuno degli individui che passavano davanti a lui per ricevere la loro parte dalle mani del tesoriere, e notava che nessuno di loro era deforme, né infermo, né paralitico, che gli storpi camminavano, i ciechi vedevano e i gobbi portavano le loro gobbe sotto le braccia, quando Fo-hop irruppe nella sua crescente stupefazione.

Sang lasciò lo sgabello che gli serviva al posto del trono e disse al capo della polizia: “Signore, sono al suo servizio”.
“Desidero parlarvi da solo”, osservò il funzionario.
L’autocrate di questa corte dei miracoli cinese diede un ordine e il posto intorno a lui divenne immediatamente vacante. I suoi satelliti scomparvero come per incanto.
“Adesso potete parlare,” disse con un sorriso orgoglioso, “siamo soli.”
“Sai perché sono qui?”.
“No, mio signore”.
“Ebbene, sai dell’assassinio del giovane Ling-Ta-Lang e che il criminale non è ancora stato scoperto; e avresti dovuto sapere che mi sarei rivolto a te per avere informazioni, che non puoi rifiutare”.
“Tutto il contrario: avevo capito che gli assassini di Ling erano stati scoperti e condannati.”
“Gli imputati portati davanti al tribunale penale non sono i colpevoli”.
Allora è vero che il presidente Ming è stato così stupido da condannare due persone innocenti”.

A questa fredda critica della sua condotta da parte di un uomo che riteneva di avere il diritto di mandare in prigione, il grande magistrato fu sul punto di tradirsi; ma Fo-hop, che non era del tutto certo che Sang non avesse riconosciuto il suo collega, lo fermò in tempo e rispose:

“Sì, il presidente del tribunale si è sbagliato; ma ora sappiamo chi è il vero assassino. È Tchou, ex macellaio di Foun-si”.
“Davvero? Tanto meglio per la signora Ling e suo cugino. E tanto meglio per il nobile Ming, che riceverà cento colpi di bambù se non consegnerà l’assassino al principe Kong”.

Il re disse queste parole con tanta ironia che il nobile giudice si sentì avvampare d’ira. Tuttavia, si controllò, promettendo di vendicarsi per l’umiliazione a cui era stato sottoposto, se questo re insolente fosse mai stato portato davanti a lui.

“Tu devi conoscere questo Tchou”, continuò Fo-hop.
“No: ne ho solo sentito parlare”.
“Ascolta! Siamo assolutamente sinceri. Ha pagato il prezzo che ti danno i ladri per la tua protezione?”
“No: lo affermo solennemente, no!”
“Molto bene. Tchou era a Canton oggi, e poiché ho fatto chiudere tutte le porte della città e tendere catene attraverso il porto, non può scappare. Se i miei agenti non lo arrestano stasera in città, dovrà forse perché si è rifugiato in qualche posto che conosci, forse qui.”
“Giuro che non è qui!”
“Su cosa giurerai?”
“Sulla tomba di mio padre.”

Fo-hop non persistette: era un giuramento che il più spregevole dei cinesi non avrebbe osato fare se non avesse detto la verità. Era certo che il re dei mendicanti non lo stesse ingannando.

“Vediamo,” riprese; “desideri aiutarmi? Da tempo mi chiedi l’autorizzazione per permettere al tuo popolo di mendicare al cancello dei giardini di Fa-ti. Ti concederò questo favore se mi aiuterai a trovare il mio assassino.”

Sang non poté trattenere un gesto di gioia: questa autorizzazione sarebbe stata per lui e per i suoi sudditi una fonte di enormi entrate, essendo questi giardini di Fa-ti, durante la bella stagione, il preomenade preferito dell’alta borghesia della società cantonese.

“Va bene!” lui rispose: “è un affare; ma devo dirtelo in anticipo, so molto poco”.
“Non importa.”
“Questo è tutto quello che so di colui che stai cercando: all’inizio Tchou non viveva né in città né in periferia. È stato visto per la prima volta più di un mese dopo il suo crimine. È venuto qui per vendere una parte dei gioielli che aveva rubato a villa Ling. Da allora è stato visto tre o quattro volte a intervalli irregolari.”
“Dove?”
“Tra le barche-fiori. In ognuna di queste ha speso ingenti somme di denaro, che devono provenire da qualche fonte sconosciuta, perché deve aver consumato da tempo il prodotto della sua rapina.”
“Quando viene a Canton, dove alloggia?”
“Non lo so. Arriva su una nave che lo aspetta sempre dietro le barche dei fiori. Tuttavia, due dei miei uomini lo hanno incontrato una volta vicino alla Casa delle Piume di Gallina. I suoi marinai probabilmente sono andati lì a dormire mentre lo aspettavano.”
“Non sai niente di più?”
“Non so niente di più.”
“Molto bene. Avrai il permesso promesso se non mi hai ingannato. Lascia che qualcuno ci accompagni fuori di qui.”

Sang suonò il gong. Due uomini corsero immediatamente da lui, diede un ordine a uno di loro e, inchinandosi davanti ai suoi visitatori, disse loro che dovevano solo seguire la loro guida. Ming non aspettò di essere incitato, ma fece strada.

“Ecco, tu!”, disse il re dei mendicanti a quello dei suoi sudditi che era rimasto con lui, “corri alla fabbrica danese; prendi il posto di Tsi-fo nella barca del console, per non farti prendere dal ti-pao, e non appena sarà l’alba, cioè non appena la catena che attraversa il porto sarà ritirata, noleggia una barca e vai a Whampoa. Poi vai da To-mi, il mercante di ventagli vicino alla pagoda, e chiedi di vedere suo fratello, dicendogli che ti ho mandato io. Poi dai al fratello questo biglietto. Hai capito?”.
“I vostri ordini saranno eseguiti”, rispose l’interlocutore, inchinandosi rispettosamente.

Sang scrisse alcune righe su un foglio delle tavolette che aveva preso dalla cintura e consegnò il biglietto al suo messaggero, che si mise a correre.

“Ora”, disse questo singolare personaggio reale, “Fo-hop e Ming possono andare a cercare l’assassino di Ling: se lo scoprono, o se si lascia prendere, non sarà colpa mia. Ho mantenuto la fiducia con tutti. Avrò il mio permesso senza aver tradito nessuno”.
Queste poche parole dicono lunga del potere della Ninfea Bianca. È facile capire che la sua organizzazione comprendeva non solo i ribelli che risiedevano in campagna e i mendicanti, ma anche i pirati che, sotto il nome di setta della Ninfea, regnavano sulla parte inferiore del Fiume delle Perle.

“Ora”, mormorò Sang, “devo solo tenere d’occhio questo demone del capitano Perkins. Ma questo è più facile di tutto il resto. Domani comunicherò tramite due corrieri dei miei uomini più abili alla fabbrica americana. ” E con un ultimo sguardo orgoglioso al suo dominio, si avviò, felice della serata, verso la sua cabina, una dimora povera come quella del più abietto dei suoi sudditi.

Durante questo tempo, dopo aver attraversato il vicolo senza difficoltà, grazie alla loro guida, Fo-hop e Ming si fecero strada attraverso la città. Ma questa volta non furono necessari né Soun-po né Amoy per indicare loro la strada. Il prefetto conosceva benissimo il luogo dove erano diretti, perché la Casa delle Piume di Gallina era solo una specie di trappola per topi ben nota alla polizia di Canton, e si chiedeva solo perché non l’avesse perquisita prima. Perciò non appena il gruppetto uscì dal labirinto attorno al tempio di Buddha, invitò l’amico ad affrettare il passo. Incantato per essere sfuggito sano e salvo ai sudditi di Sang e felice di possedere nuove informazioni su Tchou, il presidente del tribunale penale non aveva bisogno di essere supplicato.
Ritenendo che fosse meglio non farne una spedizione in incognito, ma una vera e propria discesa della polizia, Fo-hop raccolse lungo il percorso tutti gli agenti di polizia che incontrò e fu così scortato da una ventina di ti-pao, con grande soddisfazione del presidente.
Si trovavano davanti a due immense baracche di legno, ricoperte di listelli cementati di fango, e separate da uno spesso muro, attorno al quale correva una specie di galleria dalla quale si potevano dominare le due parti dello stabilimento. Il prefetto pose dieci dei suoi uomini a ciascuna delle due porte, unica via di uscita o di entrata, ordinando loro di non far uscire nessuno se non coloro che autorizzava a passare; e così sistemate le cose, bussò ad una di queste porte, invitando quelli che erano dentro ad aprire in nome della legge. Ciò è stato fatto immediatamente; e Ming, che era salito sulla galleria per vedere meglio senza essere visto, fu allora testimone del più curioso e inaspettato degli spettacoli, quando, obbedendo agli ordini di Fo-hop, la copertura di feltro, che era un mobile piattaforma, fu sollevata sul tetto.

Su un pavimento di terra battuta, ricoperto da uno spesso strato di piume di volatili acquistate dal gestore del locale in tutti i mercati e ristoranti di Canton, due o trecento disgraziati, di ogni età, uomini, donne e bambini, dormivano di un sonno profondissimo, fino al momento in cui furono svegliati nel cuore della notte. Si può immaginare con quali bestemmie e maledizioni ricevessero coloro che interrompevano il loro riposo. La luce delle lanterne, che i poliziotti portavano in ogni parte del capannone, mostrava solo teste scarmigliate che apparivano sopra quello strano letto, ma nessuno pensò di opporre resistenza. Cacciati con le fruste, i poveri disgraziati si alzarono e uscirono, uno per uno. Sembra inutile dire che Ming, dal suo posto nella galleria, li osservava uno dopo l’altro mentre uscivano.

All’improvviso Fo-hop udì un grido terribile. Pensando, naturalmente, che il giudice avesse riconosciuto colui che stava cercando, Fo-hop alzò lo sguardo, pronto ad arrestare il criminale; ma il grande mandarino era scomparso. Intenzionato a esaminare, si era sporto così tanto in avanti da perdere l’equilibrio e cadere nello spiazzo sottostante. Era caduto da un’altezza di quindici piedi. Dapprima scioccato, perché non sapeva se il suo amico fosse caduto all’interno o all’esterno del capannone, il prefetto si tranquillizzò ben presto e non poté fare a meno di ridere di cuore.

Ming e i suoi stivali gialli.

Dall’alto della galleria dove si era recato con Ming, Soun-po indicò, ai piedi del tramezzo, un ammasso di piume da cui emergevano, come gli alberi di una nave naufragata, gli stivali gialli del povero presidente. Scendendo a testa in giù, si era quasi sepolto nella massa lanuginosa. I movimenti frenetici delle sue gambe raccontavano quali sforzi sovrumani stesse compiendo per uscire da quella posizione più ridicola che pericolosa. Gli agenti accorsero in suo aiuto, e, dopo averlo rimesso in piedi, lo condussero in strada, non un attimo prima; perché il sangue che gli era salito, o piuttosto gli era corso giù, nella testa, lo stava soffocando. Tuttavia, poiché era più spaventato che ferito, si riprese presto quando sentì l’aria fresca. Appena fu scosso, strofinato e spolverato, si rivolse a Fo-hop e disse con aria disperata:

“Ne ho abbastanza! Succeda quello che vuole il Buddha! Puoi andare al diavolo! Vado a casa a letto! L’ultimo servizio che ti chiederò è di riportarmi a casa, perché sono esausto!”

E prendendo il braccio del suo compagno, lo sfortunato Ming tornò zoppicando in città, invocando maledizioni sulle case da gioco, sul Re dei Mendicanti, sulla Casa delle Piume di Gallina, sul capo della polizia e su se stesso per giunta.

CAPITOLO VI.
UN VILLAGGIO DI BANDITI.

Il PRESIDENTE MING, mentre visitava i diversi quartieri di Canton nella speranza di scoprire l’assassino di Ling, ma incontrando solo le disavventure e le vessazioni appena raccontate, non sospettava mai che a venti leghe da lì, alla foce del Fiume delle Perle, lui e il suo amico Perkins furono oggetto di una consultazione tra persone il cui odio era formidabile e la cui vendetta poteva essere terribile.

Non si potrebbe immaginare un luogo più desolato di quello in cui ebbe luogo questo incontro. Era Wang-mu, una delle isolette dell’arcipelago dei Ladrones, tanto temuta dai naviganti, non solo perché, situata all’entrata del fiume, moltiplicava i pericoli della navigazione, ma anche e soprattutto perché era luogo di stazionamento di quegli audaci pirati che le giunche di guerra non osavano attaccare, e che il governo imperiale preferiva non molestare troppo, per paura che, ad un dato momento, facessero causa comune con gli stranieri.

Alcuni di questi isolotti erano di assoluta proprietà di questi esploratori del mare. Vi vivevano in perfetta sicurezza, difesi dalle difficoltà naturali della costa e dal terrore che ispiravano. Là venivano per riposarsi dopo i viaggi, per nascondere il bottino e per prepararsi a nuove spedizioni. Grazie ad un sistema di spionaggio mirabilmente organizzato, sapevano quali navi stavano per salpare e quali erano attese, in modo tale da essere accuratamente informati, quando si apprestavano a fermare un vascello, sul suo carico, sulle sue attrezzature e sui suoi mezzi di difesa.

Quest’isolotto di Wang-mu era allora il luogo d’incontro generale della Ninfea Bianca; e da lì, da tempo, partivano escursioni, dirette con un vigore, una prontezza, un’audacia, finora ineguagliate. Questo perché i pirati obbedivano a un uomo dall’energia selvaggia, che dal grado di semplice volontario era rapidamente salito al grado di temibile capo.

Dobbiamo tornare indietro di quasi tre mesi e raccontare come fu compiuto questo miracolo. Era la mattina dopo l’assassinio di Ling-Ta-Lang, all’alba, e la Ninfea era allora comandata da quello stesso Peï-ho il cui corpo Ming aveva acquistato dopo averlo condannato all’impiccagione.
Era tempo tempestoso, e i pirati stavano per tirare a riva le loro barche, che il mare in piena minacciava di sfracellare contro le rocce, quando scorsero, scendendo il fiume, una barca, in balia della corrente e delle onde. Sulla barca c’era un uomo di statura gigantesca, che a volte sembrava inghiottito dalle acque. Stando a poppa, tenendo in una mano la barra del timone e nell’altra la scotta della vela, nella quale si gonfiava il vento, la governava con consumata arte marinaresca per evitare gli scogli e le onde più grandi, ma, lungi dal fuggire dall’uragano, sembrava, al contrario, andare incontro alla morte.

Nel momento in cui doppiato il promontorio dell’isola Wang-mu, scorse quelli sulla riva e, come se questa vista avesse improvvisamente modificato la sua decisione, lasciò andare la sua vela, che il vento portava via; poi, cambiando direzione con un giro di timone, si lanciò in mezzo ai frangenti, dove la sua barca si frantumò sulla riva. Ma era sano e salvo: con un balzo da cervo era balzato a riva. I pirati si lanciarono verso di lui. Li affrontò senza tremare.

“Dove sono?” chiese non appena furono a portata di voce.
“Chi sei?” rispose uno dei banditi.
“Un uomo portato qui dalla tempesta e che desidera morire!”
“Sei in un luogo da cui nessun estraneo è mai uscito vivo. Sei nel dominio della Ninfea Bianca. Io sono Peï-ho e governo qui.”
Invece di rabbrividire a questa rivelazione, come senza dubbio il suo interlocutore si aspettava, il naufrago sorrise in modo strano e, alzandosi in tutta la sua altezza, rispose:
“Allora va tutto bene. È il destino che mi ha portato. Mi lascerai essere uno di voi?”
“Tu? Come ti chiami?”
“Mi chiamano ‘il Ragno Rosso.’ “
” ‘Il Ragno Rosso?’ “
“SÌ.”
“Come puoi dimostrare che non sei venuto a tradirci? Come puoi dimostrare di avere il coraggio e il disprezzo per la vita di cui tutti siamo animati?”
“Un uomo mi ha portato via la donna che amavo; ho ucciso quest’uomo la prima notte di nozze: sono entrato nella sua camera e ho rubato i gioielli che aveva donato alla sua sposa. Questo è quello che ho fatto. La tempesta mi stava portando via solo un istante fa, verso l’immensità. e io non ho lottato contro di essa, mi sono lasciato portare verso la morte. Questo è ciò che sono. Credi che io dia valore alla vita?”.

Lo sconosciuto pronunciò queste parole con un’energia così feroce che i membri della Ninfea Bianca non poterono reprimere un mormorio di ammirazione.

“Inoltre”, proseguì, “non vengo a mani vuote. Guardate! Ecco il prezzo del mio riscatto!”. E, svuotando un grosso borsello appeso alla cintura, gettò ai piedi del capo dei pirati manciate di oro e gioielli. Gli spettatori accolsero questa scena selvaggia con applausi frenetici.
“Va bene!” rispose Peï-ho, tendendo la mano a Tchou e facendo segno ai suoi uomini di dividere tra loro l’inatteso bottino inviato loro dalla tempesta. “Va bene! Da oggi sei uno di noi!”.

Otto giorni dopo l’ex macellaio di Foun-si prese parte alla sua prima spedizione; e in meno di un mese dal suo arrivo a Wang-mu era diventato importante tra i suoi compagni per la sua abilità. Senza chiedere nulla all’associazione, aveva costruito, sul modello delle barche inglesi che aveva visto a Hong-Kong, un lungo yawl per venti rematori, la cui velocità sfidava tutte le barche dei mandarini, e aveva radunato intorno a sé trenta marinai ciecamente devoti. Su questa barca Rose era stata portata via dopo il suo rapimento.

Ma Peï-ho non aveva visto l’influenza del nuovo arrivato senza rabbia; e stava progettando un piano per sbarazzarsi del suo rivale, quando fu arrestato per il saccheggio delle due navi inglesi, della cui distruzione le forche di Hong Kong stavano per vendicare. Alcuni dei sinistri residenti di Wang-mu sussurrarono tra loro che il loro capo sarebbe fuggito dal combattimento, invece di aiutare.

Che ciò fosse vero o falso, l’ex macellaio, dopo l’arresto di Peï-ho , non alterò il modo di vivere, che era lo stesso che aveva condotto fin dal suo ingresso nella terribile società.
Portando con sé solo uno di questi membri, chiamato Woum-pi, suo strumento, piuttosto che amico, e i marinai che equipaggiavano la sua barca, a volte scompariva per settimane intere. Lo vedevano, all’improvviso, senza che avesse avvisato a nessuno della sua partenza, scomparire lungo il fiume proprio al calare della notte. Nessuno sapeva dove fosse durante la sua assenza. Nessuno dei banditi si sognò di interrogarlo, perché ogni suo ritorno era seguito da una spedizione coronata dal successo. La Ninfea Bianca era mai stata così prospera.

Tuttavia, Tchou non era completamente occupato dagli interessi di coloro di cui era diventato così rapidamente il padrone, perché in lui era stata operata una trasformazione completa. Il negoziante dalle caratteristiche comuni, sbadato e allegro com’era stato prima, non esisteva più. Dopo aver lasciato Foun-si si nascose in uno dei quartieri di Canton, e lì, alimentando il suo odio e la speranza di vendetta, si abbandonò agli istinti brutali che erano alla base della sua natura. Divenne un frequentatore di case da gioco e da tè, provando una sorta di gioia selvaggia nel rischiare giocando e dissipando nel piacere il denaro che aveva accumulato con il lavoro, e che non poteva spendere nell’acquisto di regali per Ricamato Willow. Trascorse così il suo tempo fino al giorno del matrimonio di Liou-Siou, e il lettore non ha dimenticato come riuscì a mettere in atto il suo orribile progetto.

Ma consumato il delitto, la prima preoccupazione dell’assassino era stata quella di fuggire. Quella stessa notte, senza badare al vento, che soffiava con violenza, partì con la prima barca ormeggiata sulla riva, ai piedi del giardino dove aveva lasciato la sua vittima. Scatenato di rabbia, e non sapendo dove andare, si abbandonò alla corrente del fiume, e presto la tempesta, contro la quale non poteva combattere, lo gettò sulle rocce di Wang-mu. Di là facevano le sue frequenti assenze ed i suoi viaggi a Canton per conoscere tutto ciò che era accaduto dopo la sua fuga, ed egli approfittava anche di questi viaggi per ottenere notizie utili alla Ninfea Bianca; e così aveva conosciuto il Re dei Mendicanti. Non potendo frequentare nessuna locanda, trascorreva i giorni e le notti nelle barche dei fiori, dove non temeva la polizia, che anzi non sospettava di lui. Seppe così della condanna dei due innocenti il giorno stesso in cui fu pronunciata, e la sua gioia non ebbe limiti.

Quelli dei suoi emissari che osservavano la signora Liou, lo aveva informato del suo colloquio con Perkins, e capì immediatamente lo scopo del contrabbandiere, e formò anche il doppio piano di impedirgli di salvare Ricamato Willow, e di fargli pagare caro il suo intervento. In base al primo di questi risultati, fece rapire Rose, perché le sue spiegazioni avrebbero potuto salvare la sua giovane padrona dalla forca; e pianificò anche un attacco alla goletta di Perkins

Ma in mezzo a tutte le sue macchinazioni infernali, Tchou commise un errore: per una volta abbandonò la sua abituale prudenza. Era stato quando, incontrando Ricamata Willow e sua madre sotto la porta di Taenan, il suo odio e la sua passione lo avevano portato al punto di farsi conoscere dalla povera ragazza, per torturarla ancora. Si rese conto che tutta la polizia di Canton gli sarebbe stata subito alle calcagna, e dopo aver mandato uno dei suoi uomini a Sang, per dargli istruzioni, si affrettò al porto per raggiungere Whampoa.

La consultazione di cui si parla all’inizio di questo capitolo riguardava l’escursione pianificata contro i “Fulmine” e l’esecuzione del loro vecchio capo, e i pirati impegnati in questa consultazione erano a Wangmu, in un vecchio forte portoghese smantellato che la Ninfea Bianca aveva reso il suo quartiere generale.

Woum-pi stava incitando i suoi compagni contro i contrabbandieri, quando l’uomo appostato di vedetta sulla spiaggia corse ad annunciare che il capo stava sbarcando. Avvertito dall’emissario del Re dei Mendicanti, Tchou non aveva ritenuto prudente restare un giorno di più a Whampoa; si affrettò alla sua barca e, grazie alla bassa marea, in meno di cinque ore percorse le venti leghe fino alla sua selvaggia e impenetrabile località.


“Buone notizie!” disse, comparendo all’improvviso tra i suoi “In questo preciso momento gli americani stanno mettendo a morte dieci dei nostri fratelli; ma potremo vendicarli molto presto, perché forse prima della fine della luna, ricominceranno le ostilità tra l’Impero di Mezzo e gli stranieri” .

Tutto il suo pubblico emise un grido di gioia simultaneo.

“Nel frattempo,” continuò Tchou, ne colpiremo uno di questi cani che è il nostro più grande nemico, il Capitano Perkins. La goletta andrà domani da Lintin a Lantao. Che le nostre barche siano pronte. Vi farò sapere il momento favorevole, e una di queste notti, molto presto, partiremo. Guardate! Ecco una piccola somma per la vostra parte di premio”.

Con uno scoppio di risate malvagie, l’assassino di Ling gettò un sacchetto di piastre su un tavolo; poi, facendo cenno a Woum-pi di seguirlo, uscì, lasciando che i disgraziati si spartissero il bottino che aveva gettato loro come si lancia un osso a un cane.

“E i vostri affari, capitano?” chiese il suo fedele seguace, quando furono abbastanza lontani da non essere sentiti da nessuno.
“Vanno ancora meglio di quelli della Ninfea,” rispose il “Ragno Rosso”. “Tra due settimane Salice Ricamato sarà impiccata e I-té sarà giustiziato con lenta morte.”
“Allora mi darete Rose?”
“Te l’ho promessa: l’avrai; ma, come ti ho detto, voglio portarla ancora una volta con me a Canton.”
“Quando?”
“Il giorno in cui la sua padrona salirà sul patibolo. Voglio che quella falsa ci veda entrambi, al momento della morte, affinché il suo ultimo sospiro esali in un ultimo supplizio.”
“Sia così, maestro. Aspetterò.”
“Ami questa ragazza, allora?”
Woum-pi non parlava, ma i suoi occhi brillavano.
“E Rose ti ama?” disse Tchou con un sorriso ironico e pieno di odio.
“NO!” disse il bandito, imbronciato. “Tuttavia, ho pregato mia madre di metterla il più a suo agio possibile e di parlarle del mio amore.”

Nella bocca di quel mostro dalle sembianze umane, quelle parole suonavano incongrue come una bestemmia sulle labbra di un bambino.
Erano arrivati alla capanna di Woum-pi. Quella del nuovo capo era più in là, appollaiata sulla cima della montagna, come un nido di avvoltoio. All’improvviso una donna dai lineamenti distorti e dai capelli arruffati sbarrò loro la strada.

“Pietà! Tchou, pietà!” – esclamò gettandosi in ginocchio davanti all’ex macellaio. Era Rose, forse tanto cambiata quanto quella che la sua imprudenza aveva rovinato.

Rose implora Tchou.

“Cosa vuoi?” le chiese rudemente l’assassino.
“Non darmi a quest’uomo”, implorò; “rimandami a Foun-si. Giuro che non ti tradirò mai, che non pronuncerò mai il tuo nome.”
“Ebbene, cosa mi importa se dici o non dici che ho ucciso Ling, in un altro momento? Ciò che desidero è che tu tenga a freno la lingua ora e che il boia non riesca arrivare a te con la tortura. Ciò che desidero è non solo che la tua padrona muoia, ma che muoia disgraziatamente.

E, scalciando brutalmente da parte la povera ragazza, salì rapidamente sulla rupe, da cui la vista si estendeva su un orizzonte sconfinato.
Ai suoi piedi il mare schiumava sugli scogli dei Ladrones; davanti a lui, a monte del fiume, l’isola del Tigri nascondeva le sue vette tra le nuvole; alla sua sinistra, Macao dormiva al di là del suo golfo deserto; alla sua destra gli sembrava di sentire le grida di gioia della colonia americana che esultava per la condanna dei pirati.
Per alcuni istanti rimase immobile e pensieroso, sembrando uno spirito maligno che scrutasse l’immensità; poi ad un tratto, come in preda a un furioso delirio, allargò le braccia gridando:

“In questo momento, Peï-ho a Hong-Kong; tra pochi giorni, Salice Ricamato! Domani sarò onnipotente, e molto presto la mia vendetta sarà completa.”

CAPITOLO VII.
IN CUI IL PRESIDENTE MING È SUCCESSIVAMENTE SCIOCCATO, STUPEFATTO E DELIZIATO.

Possedendo ufficialmente il pezzetto di terra che occupava in Cina, la colonia inglese era già fiorente e la più ricca delle imprese straniere che si stavano stabilendo nell’estremo Oriente.
Victoria, che i viaggiatori e persino i geografi si ostinano a chiamare Hong-Kong, perché è situata sull’isola che porta questo nome, era, all’epoca di cui parliamo, una città importante, che testimoniava, in più di un modo, il genio coloniale britannico. Sarebbe stato difficile riconoscere e scegliere una situazione più propizia di quella di cui gli inglesi si erano impossessati, tanto con la forza quanto con la diplomazia.
Su un terreno in apparenza arido operarono meraviglie. Nelle valli di questa piccola isola, che misura solo poche miglia di circonferenza, verdeggianti risaie producono il miglior riso del paese, e lungo tutta la riva si trovano splendide ville, con un’incantevole vista sulla baia, e rinfrescate dalle rinfrescanti brezze provenienti dalle sue acque. A cinquemila leghe dall’Inghilterra, sembra una porzione aristocratica del Devonshire. Se non fosse per i miserabili pescatori e per alcuni funzionari indigeni i cui palanchini sorpassano gli equipaggi più corretti sulla strada, Hong Kong assomiglierebbe molto all’Isola di Wight.
Vi si conduce la stessa vita comoda ed elegante; gli stessi splendidi cavalli, portati lì a caro prezzo; la stessa vita di club, cioè le stesse corse e scommesse. I ricchi mercanti europei di Canton hanno quasi tutti case di campagna a Hong-Kong, che spesso diventano per loro luoghi di rifugio quando alle autorità cinesi piace litigare con loro.
Naturalmente Perkins, come la maggior parte dei suoi amici, aveva un incantevole rifugio lì, dove amava riposare alcuni giorni tra ogni suo pericoloso viaggio. Era lì che aveva invitato il presidente della Corte penale a cenare con lui.

L’onorevole magistrato, nonostante le emozioni e le disavventure della notte precedente, non mancò all’appuntamento. Voleva innanzitutto dire al contrabbandiere il nome dell’assassino di Ling, ed era anche ansioso di sapere perché aveva comprato un impiccato. Arrivò a Hong Kong di giorno, molto dopo l’ora fissata per l’esecuzione dei pirati. Tuttavia non trovò il capitano alla villa: quest’ultimo era uscito presto e non sarebbe tornato che tardi, ma non aveva omesso di dare le istruzioni necessarie ai suoi. Ming era stato quindi ricevuto con tutti gli onori che gli erano dovuti; e poiché Perkins aveva un cuoco che il mandarino stimava molto, si consolò con un delizioso pranzo, dopo di che si sdraiò su una poltrona ad aspettare pazientemente il ritorno del suo ospite, senza preoccuparsi di ciò che stava accadendo.
Tuttavia Victoria, fin dal mattino, era stata teatro di uno spettacolo interessante; poiché non avendo dimenticato che quello era il giorno in cui dovevano essere impiccati i pirati condannati, la popolazione si era accalcata all’alba sul luogo dove solitamente avvenivano le esecuzioni, su uno stretto pendio, vicino al cimitero, a nord della città.
La sorpresa fu generale quando la polizia informò la folla curiosa che l’esecuzione sarebbe stata ritardata fino alle sette di sera, quando avrebbe avuto luogo immancabilmente. Soddisfatti di questa informazione, i turisti si ritirarono tranquillamente. Né loro né Ming sapevano della seconda visita che Perkins aveva fatto a Roumi. In quell’occasione Roumi aveva promesso – il corrispettivo, ovviamente, era un altro sacco di piastre – che, invece di essere a Hong Kong all’alba, secondo i suoi ordini, – l’esecuzione sarebbe avvenuta a mezzogiorno, l’ora della sospensione dei lavori, in modo che tutti i marinai e gli operai potessero essere presenti, – avrebbe fatto in modo di non essere puntuale, obbligando a rimandare l’esecuzione a sera; e aveva mantenuto la parola.
Nel frattempo, Perkins, con Sir Arthur Murray e il dottor Clifton, perseguivano il misterioso piano di cui il presidente era stato nominato ausiliario senza comprendere. La sera prima, il contrabbandiere e i suoi due amici, muniti di debita autorizzazione, si erano presentati al direttore della prigione di Victoria ed erano stati subito presentati a Peïho, il quale, come i suoi compagni, attendeva con gioia la sua ultima ora, quel disprezzo per la vita che tutti i cinesi professano, qualunque sia la classe sociale di appartenenza.

Sir Arthur

Al capo pirata era stato concesso l’onore di una cella appartata, dove, nella speranza di ottenere qualche rivelazione utile, era stato affidato alle cure di un guardiano intelligente, con l’ordine di trattarlo bene. Vedendo entrare i tre visitatori, alzò la testa, senza alzarsi dalla stuoia su cui era accovacciato, e rivolse su di loro uno sguardo insieme inquieto e interrogativo. Clifton fece un cenno al guardiano, e questi, dopo aver posato una lanterna su uno scaffale, uscì, chiudendo la porta dopo lui. Il dottore, Sir Arthur Murray, e il capitano erano soli con l’ex capo di Wang-mu.
Il pirata era un uomo dalla corporatura erculea: i suoi lineamenti erano grossolani, ma singolarmente intelligente ed energico.

Peïho

“Peïho”, disse Clifton, “sai che domani sarai impiccato?”
“Lo so”, rispose cupamente il prigioniero.
“Vuoi vivere?”
“Vivere? Per cosa?”
“Come faccio a saperlo? Per amore o per vendetta. Alla tua età, un uomo ama o odia sempre qualcuno.” Dall’espressione del prigioniero il medico capì che aveva indovinato.
“Ascolta!” lo inseguì. “Hai sopportato la tortura senza emettere un grido e, nonostante la promessa di vita che ti hanno fatto, non hai parlato.”
“È così.”
“Perché?”
“Perché non svelerei agli estranei i segreti dell’associazione.”
“Non è quella la causa del tuo silenzio.”
“Non c’e n’è nessun altra.”
“È falso!” Sappiamo quanto te della Ninfea Bianca. Tutto quello che ti è stato chiesto è stata una prova della tacita intesa tra i pirati e le autorità della provincia, il nome di colui che ha preso il tuo posto come capo dei tuoi uomini, e di designare quale delle Isole Ladrone sia il loro rifugio, e fornire informazioni esatte riguardo ai mezzi per accedervi.”
“Hanno anche desiderato che io prestassi servizio come pilota nella spedizione da voi progettata.”
“Sì; e in cambio dei tuoi servizi ti hanno offerto, non solo la grazia, ma anche la libertà, l’impunità e mille piastre. Però tu rifiuti.”
“Ho rifiutato.”
“Te lo dirò perché: perché temevi che il governatore di Hong-Kong non mantenesse nessuna delle sue promesse e che, al ritorno della spedizione, potesse impiccarti.”
“Forse.”
Clifton aveva letto una seconda volta nella mente del condannato, perché, pur rispondendo in tono apparentemente indifferente, non riuscì a trattenere un sussulto di sorpresa.
“Ebbene,” continuò il dottore, “ti offro un accordo grazie al quale non dovrai essere ingannato.”
“Che cos’è?”
“Non parlare fino a dopo la tua esecuzione.”
“Dopo la mia esecuzione? Non capisco.”
Peï-ho pensò di non aver sentito bene, o che il suo interlocutore, che usava il linguaggio macaista, avesse utilizzato un’espressione che rendeva il suo pensiero in modo inesatto.
“Sarò più chiaro. Domani sarai impiccato. Giurerai sulla memoria di tuo padre di rivelarci ciò che desideriamo sapere, – ma solo dopo che sarai calato dal patibolo?”
“Quando sarò morto?”
“Dopo che ti hanno impiccato.”

Non potendo credere che questi tre uomini dalle facce gravi potessero ridere di lui in quelle circostanze terribili, il pirata guardò prima l’uno poi l’altro, senza dubbio sconcertato, nella speranza di poter leggere sui loro volti qualche spiegazione supplementare; ma, come il dottore, Sir Arthur Murray e Perkins erano impassibili.

“Cosa rischi?” osservò Clifton.
“Niente, è vero. Ebbene, che cosa volete?”
“Basta che tu inali da questa fiala.”
“E se mi uccidesse?”
“Beh sei coraggioso! Devi morire, che importa se è stasera o domani a mezzogiorno?”
“Allora se inalo questo” —-
“Sarai impiccato, ma non morirai; almeno non lo sarai se farai quello che ti chiedo e avrai piena e totale fiducia in noi.”

Peïho lasciò cadere la testa tra le mani e per qualche secondo sembrò esitare; poi, tutto d’un tratto, prese una decisione e, quando alzò di nuovo gli occhi verso i suoi visitatori, i suoi lineamenti avevano ripreso la loro espressione energica.

“Sia come sia”, disse, “accetto. Vi giuro, in memoria di mio padre, che dopo essere stato impiccato vi dirò tutto ciò che desiderate sapere. Potete fare di me ciò che volete”.

In meno di cinque minuti fu disteso immobile sulla stuoia che fungeva da letto e, dopo circa mezz’ora, Sir Arthur Murray e Perkins lasciarono la cella, mentre Clifton, che intendeva passare lì una parte della notte, rimase.

L’indomani, poco prima di mezzogiorno, quando il direttore del carcere venne a far visita al suo protetto, lo trovò accovacciato come al solito sulla sua stuoia, e pronto a morire con la solita indifferenza dei suoi compatrioti. Il contrabbandiere e il gentiluomo inglese che accompagnava l’ufficiale si scambiarono un sorriso di soddisfazione e, montati sui cavalli che aspettavano nel cortile, si avviarono verso il luogo dell’esecuzione.
Quando arrivarono i due amici la folla si era dispersa, e il campo tetro era quasi deserto, meno di un gruppo. Perkins riconobbe a colpo d’occhio il boia e i suoi uomini. Roumi, tuttavia, non sembrava ricordare il volto del capitano e continuava a dirigere il lavoro dei suoi operai. Alcuni di questi stavano mettendo assieme la struttura dei cinque pali a forma di T, a ciascuno dei quali dovevano essere appesi due dei delinquenti. Altri stavano scavando buche per farvi stare i pali.
Assicuratosi che tutto procedesse regolarmente, secondo gli accordi presi con il boia, Perkins tornò alla sua villa, accompagnato da Sir Arthur, e si affrettarono a risvegliare Ming dal suo sonno agitato ossessionato dai terrori degli ultimi giorni. Dapprima lanciò un grido di terrore; ma non appena riconobbe il suo ospite, gli si dipinse sul viso un’assurda espressione di sollievo.

“Ah! finalmente sei tu, amico mio”, disse; “Ti aspettavo con impazienza.”
“E dormivi,” disse l’americano sorridendo.
“Ho dormito”, con impazienza, te lo assicuro. Ah! Ho alcune notizie per te! Sei certamente uno stregone!”
“Come mai?”
“Hai indovinato correttamente riguardo all’assassino di Ling-Ta-Lang.”
“Chi è?”
“Un vicino della signora Liou, Tchou, il macellaio della Via dei Battilori d’oro, un uomo chiamato il ‘Ragno Rosso’. “
“Vedi che avevo ragione. Chi ti ha dato queste esatte informazioni?”
“La signora Liou in persona.” E raccontò ciò che gli aveva detto la madre di Salice Ricamato.

Poi descrisse la sua campagna notturna per le strade di Canton, in compagnia del prefetto di polizia, ed esagerava a tal punto i pericoli che aveva corso, che Perkins, che conosceva il suo coraggio di un tempo, non poté trattenersi dallo scherzare un po’ su certi passaggi della sua narrazione. Sarebbe potuta essere un’altra cosa se Ming avesse raccontato l’improvviso epilogo della sua escursione sul soffice letto della Casa delle Piume di Gallina; ma su questo tacque.

“Solo,” concluse con un immenso sospiro, “ho fatto pochissimi progressi. So, è vero, il nome del colpevole; ma che diavolo mi porti se so dove trovarlo!”
“Pazienza, presidente, pazienza”, disse Sir Arthur; “metà del lavoro è fatto, il resto verrà da sé.”
“Sì, forse è così; ma nel frattempo metà del mio tempo è andato via, e anche di più! E tu, capitano, come te la cavi con il tuo pirata impiccato? Ci sarà stata una folla all’esecuzione. Sono davvero felice di essere arrivato troppo tardi”.
“Non sei arrivato troppo tardi: l’esecuzione non ha avuto luogo”.
“Cosa stai dicendo?”
“La verità: i condannati erano pronti, ma non il boia, i suoi assistenti e i pali”.
“Allora Roumi ci stava prendendo in giro. Beh, è facile accordarsi con lui: sarà impiccato e —–“.
“Oh! non così in fretta”, interruppe Perkins, Roumi non prende in giro nessuno. È stato un po’ ritardato, tutto qui; ma questa sera, alle sette, farà il suo dovere in modo molto pulito, puoi starne certo. Per il successo del nostro progetto, è preferibile che sia così. Non devi pretendere troppo da lui”.
“Va bene! Fai in modo che tutto sia a tuo piacimento. Ma sa che conto su di te per trovare il mio assassino, ora che conosco il suo vero nome”.
“Questo è chiaro. E ora andiamo a cena”.

Il mandarino, dissipata l’ansia da quelle affascinanti parole “a cena”, rispose semplicemente prendendo il braccio dell’americano, e andarono tutti in sala da pranzo, dove, discutendo di una saporita portata di selvaggina, il buongustaio dimenticò presto Salice ricamato, Tchou, i pirati, e anche i suoi cento colpi con il bambù”, e fece un tale onore alla cena del capitano che alle sei, quando quest’ultimo gentiluomo gli comunicò che era ora di mettersi in cammino se voleva andare all’esecuzione, egli rispose incrociando le mani sul suo ampio petto:

“Vi imploro, mio buon e caro amico, non esigete questo da me. Sono un uomo tranquillo: questi spettacoli mi rattristano. Inoltre, ho cenato così bene che desidero evitare ogni emozione dolorosa”. E trascinandosi verso una grande poltrona rivestita in pelle che aveva guardato con occhi invidiosi, il presidente del Tribunale penale di Canton vi si lasciò cadere all’indietro, chiudendo gli occhi.
“Si consoli, mio caro Ming, si consoli”, rispose il comandante della “Lightning”, non c’è bisogno che lei se ne vada se non lo desidera. faccia il suo riposino in attesa di noi”.
“Ah! Sì! È molto meglio! Ho un cuore troppo sensibile per assistere alla sofferenza. Povere creature! Ah, Perkins, tu hai un cuoco davvero notevole! L’America è un grande Paese! Certo, non così grande come la Cina, ma comunque un grande Paese, molto grande!”. L’onorevole Ming cominciò a perdere il filo delle sue parole. Il suo stomaco riconoscente si scontrava con il suo patriottismo.
“Andiamo”, disse Sir Arthur al contrabbandiere, “non abbiamo un secondo da perdere”.

Strinsero la mano del magistrato epicureo e partirono. Dovettero però cavalcare velocemente per raggiungere la prigione alla periferia della città contemporaneamente ai Lancieri del Bengala, che erano stati incaricati di scortare i pirati.
I condannati, con le mani legate dietro, erano in attesa nel cortile. Sembravano tutti impassibili, tranne Peïho, che si comportava in modo piuttosto irrequieto. Non sembrava soffrire di paura, ma di dolore; e quando sentì il segnale della partenza, rabbrividì. Ma si riprese subito e con i suoi compagni uscì dalla prigione con passo deciso.
La folla era immensa: un doppio cordone di truppe riusciva a fatica a mantenere libero lo spazio per il corteo guidato dal boia e dai suoi attendenti. I condannati furono posti a due a due tra i cavalleggeri. Ogni coppia di pirati veniva condotta ai piedi di una forca. Poiché il boia disponeva di soli quattro aiutanti, l’operazione dovette essere ripetuta più volte e così alla colonia inglese fu presentata una tragedia in cinque atti. Ma in quindici minuti tutto finì: i dieci pirati si librarono in aria, e il popolo, molto impressionato, si ritirò, seguito in pochi minuti dalla scorta dei Lancieri.
Ben presto tutta la folla scomparve nella penombra e il boia e i suoi uomini rimasero soli. Roumi corse per primo alla forca di Peïho e lo calò delicatamente a terra. Mentre deponeva il pirata morto sull’erba, sentì le ruote di un carro fermarsi dietro un gruppo di alberi poco distante. I suoi aiutanti avevano seguito il suo esempio e i dieci corpi giacevano a terra.

“Sbrigatevi a prendere le lettighe”, comandò loro. “Finiamola il più velocemente possibile.”
Tutti corsero ad eseguire l’ordine, e all’improvviso una voce che lo fece tremare soffiò nell’orecchio del boia:
“È un bene che tu abbia mantenuto la tua promessa.”
Si voltò e riconobbe Perkins, che non aveva visto avvicinarsi, e il dottor Clifton.
“Ecco il resto dei tuoi soldi”, continuò il contrabbandiere. “Adesso prenderemo Peï-ho. Dov’è?”

Roumi si infilò nella cintura la pesante borsa che gli aveva dato il suo interlocutore e si fece strada fino ai piedi della forca dove giaceva il capo dei pirati. La notte era buia e senza stelle, in linea con l’opera misteriosa da compiere sotto il suo schermo. Perkins sollevò Peï-ho per i piedi, mentre il suo amico sollevò il corpo per le spalle, e così lo trasportarono su un grande carrozzone guidato da Sir Arthur; lo posarono delicatamente sui cuscini posti sul fondo del veicolo, salirono a bordo e Sir Arthur, che senza dubbio agiva secondo istruzioni precedenti, si allontanò.
Il boia, molto turbato da questa strana avventura, nonostante avesse ricevuto il prezzo del suo favore, li seguì con lo sguardo finché non scomparvero nella notte, e poi ritornò al suo posto, dove i suoi uomini erano già tornati. Mentre sollevavano i corpi uno per uno, non si accorsero della scomparsa di quello di Peï-ho.
Il capitano e i suoi amici corsero alla villa con l’uomo appena impiccato e lo adagiarono su un ampio e morbido divano nella sala del biliardo. Clifton si chinò su di lui per diversi minuti, ma alla fine alzò lo sguardo sorridendo.

“Ebbene?” chiesero insieme i suoi amici.
“Perfetto! Roumi non ci ha dato molto da fare. Che splendido soggetto! Guardatelo!”

L’ex capo dei pirati era, in verità, un superbo esemplare della razza mongola. Grande e ben proporzionato, era certamente, come disse il dottore, con lo scetticismo del sapiente, un soggetto prezioso per il tavolo anatomico. Non dava segni di vita, ma i suoi lineamenti non erano così contratti come lo sono solitamente quelli delle persone morte per strangolamento. Era evidente che non aveva sofferto molto.

“E se andassimo a prendere Ming adesso?” osservò Sir Arthur al comandante della “Lightning”.
“È vero”, rispose quest’ultimo, “lo avevo dimenticato”; e si precipitò precipitosamente nella sala da pranzo, dove il grasso mandarino russava come una trottola sulla poltrona in cui si era sistemato dopo pranzo. “Vieni! vieni! mio caro presidente”, disse Perkins, dandogli un colpetto sulla spalla.
“Eh? Cosa?” – mormorò il sibarita, sollevando lentamente le palpebre pesanti. “Ah! sei tu! L’hai trovato?”
“Trovato chi?”
“Tchou, il macellaio, il ‘Ragno Rosso.’ “
“È per questo che ti voglio.”
“Ah! è vero, sei appena tornato —“.
“È tutto fatto. Vieni con me.”
“Con te? Cosa fare?”
“Ti ricordi che ho comprato da Roumi uno degli uomini che doveva impiccare?”
“Sì: mi sono chiesto venti volte: ‘a che scopo?’ “
“Lo saprai subito: è lì dentro.”
“Cosa! Lì dentro?”

L’indolente funzionario balzò in piedi, come se lo stupore gli avesse improvvisamente restituito tutta l’elasticità della giovinezza.

“Certamente”, continuò il suo ospite. “Vieni a vederlo: è davvero molto bello.”

Perkins prese il mandarino per un braccio e lo trascinò con un po’ di forza nella sala da biliardo. Sir Arthur aveva acceso le lampade e la luce cadeva in pieno sul volto dell’uomo giustiziato. I suoi occhi erano chiusi e la bocca semiaperta mostrava denti bianchi e aguzzi come quelli di un lupo. Il suo volto era calmo e la sua carne era di un colore naturale; solo il segno bluastro della corda del boia attorno al collo raccontava la storia della sua perdita di coscienza.
Ming si avvicinò al divano ed esaminò con curiosità l’uomo che aveva mandato al patibolo. In quel momento, Clifton, che aveva preparato una pozione in un bicchiere, si chinò sull’uomo e gli tolse abilmente un tubicino d’argento ricurvo dal suo collo, dove era stato interamente incastonato sotto quella protuberanza comunemente chiamata pomo d’Adamo. un dito sulla ferita, che era una fessura stretta come un’occhiello, e, assistito da Sir Arthur, sollevò Peï-ho a sedere sul divano. Il pirata aprì gli occhi e un profondo sospiro uscì dalle sue labbra. Gli occhi dei presenti si girarono dall’uno all’altro e quando si posarono su Ming, che non riconobbe, quest’ultimo non fu più padrone del suo terrore, e si voltò per fuggire.

“Sei uno stupido?” gli disse Perkins, fermandolo lungo la strada.
“Sta tornando in vita!” – mormorò il mandarino tremante. “Sta prendendo vita!”
“Lo spero. Se credi che io gli abbia pagato cento sterline per metterlo sottoterra, ti sbagli.”

Ming, pur non capendo, si lasciò ricondurre al divano dove Peï-ho si stava lentamente riprendendo. Clifton aveva fasciato la ferita alla gola con una benda che escludeva l’aria e la proteggeva. L’operazione di tracheotomia, che aveva praticato al condannato, era riuscita perfettamente. La guarigione era questione di due o tre giorni al massimo; ma il mandarino, che non aveva idea di questa operazione, considerò la guarigione di Peïho come un atto di magia nera e di stregoneria.

“Allora non è morto?” alla fine osò vacillare.
“Come ti senti?” chiese il medico del pirata, invece di rispondere al suo interlocutore.
«Bene», mormorò il paziente con voce debole ma perfettamente distinta

Il povero presidente alzò gli occhi al cielo, incapace di dire una sola parola, tanto era completamente sopraffatto dallo stupore, e afferrandosi la testa con entrambe le mani la tenne come per impedire alla ragione di fuggire.

“Vedi come abbiamo mantenuto la nostra promessa”, disse Perkins a Peïho. “Ora puoi mantenere la tua: puoi parlare, perché sei stato davvero impiccato”.
“Sì”, disse il pirata, con le labbra che fremevano in uno strano sorriso.
“Tra quarantotto ore starai bene come ieri; e allora sarai il nostro pilota per le Ladrones”.
“L’ho giurato”.
“E ci dirai chi ha preso il tuo posto come capo della Ninfea?”.
“È il ‘Ragno Rosso’! “E mentre pronunciava questo nome, il bandito si agitò a tal punto che Clifton gli mise una mano sulla spalla per impedirgli un movimento troppo violento.
“Il ‘Ragno Rosso’? Cosa dice?”, interrogò rapidamente Ming.
“Sì, il ‘Ragno Rosso’, Tchou, il macellaio di Foun-si”, ripeté Peï-ho, chiudendo gli occhi.
“Hai sentito, Perkins?”, gridò il mandarino, passando improvvisamente dallo stupore alla gioia. “Hai sentito, amico mio, mio caro amico?”.
“Perfettamente”, rispose il capitano.
“Sappiamo chi è il mio assassino, l’assassino di Ling. È il capo di quei disgraziati, che sono nemici tuoi e miei!
“Esattamente. Vedi che il nostro accordo con Roumi non è stato un cattivo affare per te. Ora devi solo catturare il tuo uomo”.
“Per Buddha! È vero. Ora devo prenderlo!”

Questa osservazione cadde come una doccia gelata sulla sua gioiosa esaltazione.
“Tu sei interessato a ottenere questo risultato quanto me…”.
“Direi di sì! Molto, anche di più!”
“Quindi userai tutta la tua influenza. Lasciamo il dottore con il suo paziente e andiamo in sala da pranzo. Ti dirò cosa devi fare.” E prendendo il braccio dell’amico, Perkins lo condusse nella stanza attigua.
“Vedi adesso a che punto siamo?” disse il contrabbandiere. “Conosci l’assassino e la sua rifugio. Ora ci serve solo l’autorizzazione di Prince Kong per impadronirsi delle Isole Ladrone. Non abbiamo bisogno di giunche né di soldati: possiamo portare a termine questa campagna da soli e, te lo prometto, con successo. Ne colpiremo due con una pietra. Prenderemo il tuo criminale e ripuliremo questo covo di pirati. Oh! farai parte della spedizione?”
“Sì, certo,” balbettò Ming, non osando rifiutare.
“Allora partirai domani, all’alba, con la marea crescente. Farai rimorchiare la tua barca dal piroscafo fino a Whampoa. Poi arriverai a Canton presto e vedrai il viceré lo stesso giorno.”
“Molto bene. Non c’è tempo da perdere.”

“Ebbene, faresti meglio a riposarti un po’, e io farò un’ultima visita al nostro paziente. Non ti vedrò prima della tua partenza domattina, quindi arrivederci. Sarò in fabbrica tra due o tre giorni, non appena il nostro futuro pilota starà abbastanza bene da poter partire.”
“Oh! prendetevi cura di quel buon Peïho! Tutto questo è davvero straordinario! Un uomo impiccato ed ancora vivo! Questo macellaio satanico! questo miserabile assassino! – quando conosco il suo nome, nessuno sa dove si nasconde; e quando apprendo dove si nasconde, dev’essere in qualche posto inaccessibile! Ah! Passerò una notte molto brutta!”

Stringendo la mano al capitano, l’infelice Presidente del Tribunale Penale si recò sospirando nell’appartamento assegnatogli per la notte che avrebbe trascorso nella villa.

CAPITOLO VIII.
LE SPERANZA DI MING SI FANNO PIÙ LUMINOSE.

LUNGA davvero la notte parve al povero Ming, il quale, come aveva previsto, dormì pochissimo a causa delle violente emozioni della serata; ma tuttavia non voleva lasciare la villa senza avere notizie di Peï-ho: temeva che tutta l’esperienza delle ultime ore si rivelasse un sogno.
Andò, quindi, la mattina dopo nella sala da biliardo, dove trovò l’uomo che era stato impiccato che riposava nel sonno più profondo, e Clifton, anch’egli addormentato. Poi se ne andò, felice di sentirsi rassicurato di non essere stato vittima di un’allucinazione.
Quando raggiunse il porto, il piccolo piroscafo che faceva la spola tra Hong Kong e Whampoa stava per partire, e chiese al capitano di trasportarlo a quest’ultimo porto, richiesta che fu accolta con entusiasmo, poiché il mandarino, nonostante la minaccia di cento colpi di bambù, era nondimeno un grande personaggio; e, grazie a questo rapido mezzo di trasporto, raggiunse l’isola di Honan verso le tre del pomeriggio. Ci fu solo il tempo sufficiente per indossare la sua veste migliore e, non appena terminata la toeletta, si recò in equipaggio ufficiale al palazzo del viceré.
Prince Kong lo fece aspettare solo qualche istante. Allora fu con il sorriso sulle labbra e la testa alta che il degno magistrato fece il suo ingresso nell’aula delle udienze dove, appena due settimane fa, aveva trascorso un così miserabile quarto d’ora.

“Ebbene, mio caro presidente,” gli chiese il cugino dell’Imperatore, “quali notizie? Avete finalmente scoperto il misterioso assassino di LingTa-Lang?”
“Sì, sire”, rispose Ming, inchinandosi a terra.
“Sono davvero felice, sia per la causa della giustizia che per voi. Chi è quell’uomo?”
“Un vecchio vicino della signora Liou a Foun-si, un macellaio di nome Tchou.”
“Vedete che avevo ragione quando vi ho rimproverato di non aver fatto le indagini e le ricerche necessarie in questa città. Il delinquente è stato arrestato?”
“Non ancora, e il suo arresto non sarà possibile a meno che Vostra Altezza non ci presti il suo onnipotente aiuto.”
“Come mai?”
“Perché questo Tchou, scomparso più di due mesi prima del matrimonio della signorina Liou, si è rifugiato dopo il suo delitto nelle Isole Ladrone. Quindi non ho mezzi per catturarlo.”
“Nelle Isole Ladrone?””Sì, sire. È succeduto a Peï-ho, – il pirata impiccato ieri, – come comandante dell’ordine della Ninfea.”
“Questa è un’informazione preziosa. Chi vi ha fornito dettagli così esatti?”

Questa domanda, che difficilmente si aspettava, suscitò a Ming una certa emozione, perché non sapeva fino a che punto avrebbe dovuto confessare la sua relazione con Perkins, un contrabbandiere di oppio. Tuttavia, presto si riprese e rispose:
“Ho pensato che fosse mio dovere insistere fino all’ultimo momento sui condannati per conoscere la verità. A tal fine, sono andato a Victoria, ho visto Peï-ho e, sotto la minaccia di farlo decapitare se avesse continuato nel suo silenzio, l’ho indotto a rivelare quanto ho appena comunicato a Vostra Altezza.”
“È stato molto intelligente da parte vostra, e ripara in qualche modo il vostro errore giudiziario; ma non vedo esattamente come potrei aiutarvi ad arrestare questo assassino.”
“Autorizzandomi ad attaccare i Ladrones con diverse giunche da guerra.”
“Oh! È una spedizione militare quella che volete fare. Sapete che queste isole sono inavvicinabili, che sono abitate da pirati e che abbiamo già tentato un’escursione del genere, senza successo? I nostri piloti dicono di non conoscere le coste. Inoltre, posso anche confessare di aver ricevuto notizie che mi rendono impossibile inviare un solo soldato o marinaio lontano da Canton. I Taipings, a quanto pare, stanno preparando una marcia verso sud e sono certamente in accordo con i banditi dei Ladrones; e poiché questi ultimi sono meno da temere dei miei ribelli, preferisco non dividere le mie forze”.

“Che cosa si deve fare, allora?”.
“Questo è affar vostro”.
“Se osassi azzardare un’opinione.”
“Sto ascoltando.”

“Il governatore di Hong-Kong, sapete, si è sentito molto amareggiato nei confronti dei pirati, nonostante la soddisfazione che gli avete dato con l’esecuzione di dieci di questi disgraziati; forse, se permettete, si impegnerebbe a liberarci di questa maledetta associazione.”
“Probabilmente; ma è una cosa seria lasciare che gli stranieri si intromettano nei nostri affari. E poi, non è l’attacco ai Ladrones che vi interessa, ma la cattura di questo Tchou; e loro non lo conoscono.”
“Sì: ma, Altezza,” lo interruppe Ming, “se questa spedizione avrà luogo, vi prenderò sicuramente parte.”
“Voi!”, esclamò il viceré, senza riuscire a reprimere un sorriso, perché sapeva che il luminare del diritto non brillava esattamente per il suo coraggio.
“Io, io stesso!” ripeté il magistrato, tirandosi su con aria militaresca.
“Ah! Questo cambia il caso. Prenderò in considerazione la vostra domanda. Siete sicuro che questa spedizione sia gradita al governatore di Hong-Kong?”.
“Oh! Ne sono sicuro, molto sicuro! Inoltre, un capitano di vascello americano, che risiede a Hong-Kong, ha detto ieri che è un peccato che Vostra Altezza non autorizzi la colonia a porre fine ai pirati, perché si potrebbe fare molto presto”.

“Chi è questo capitano?”.
“Berins, Berting, Perkin: Non conosco bene il suo nome”.
“Intendete il capitano Perkins, senza dubbio”.
“Sì: è lui, principe, è lui! Perkins, il capitano Perkins”.
“Il comandante della goletta Lightning, il famoso contrabbandiere”.
“Ah! È un contrabbandiere?”
“Lo sapete bene, perché gli avete dato il suo choa, il suo permesso, almeno venti volte, mentre eravate mandarino a Boca-Tigris.”
“È possibile. Non me lo ricordo.”
“Mio caro presidente, non hai quasi dimenticato che questo Perkins è vostro amico. Non mi interessa sapere quali interessi comuni vi uniscano, ma probabilmente dovete a lui tutte le informazioni che mi avete dato sul vostro assassino”.

Il viceré pronunciò queste parole con un tono così severo che Ming, così orgoglioso come era stato all’inizio dell’udienza, tremò in tutte le membra. Tuttavia, si rassicurò un po’ quando il principe continuò, con più dolcezza:
“D’altra parte, tutti gli sforzi che avete fatto sono troppo normali perché io possa condannarvi. Forse accetterò l’aiuto di questo Perkins, per quanto contrabbandiere di oppio. Le circostanze sono tali che non voglio avere a che fare con gli stranieri”.
“Allora posso dire…”
“Non ancora. Avete quasi due settimane davanti a voi e non desidero impegnarmi in un’impresa del genere senza pensarci attentamente.”
“Aspetterò gli ordini di Vostra Altezza.”
“Molto bene, vi farò sapere quando avrò preso una decisione.”

E facendo cenno al suo segretario di riprendere il lavoro interrotto, il principe fece un cenno con la mano al grande mandarino, il quale, comprendendo che non gli restava altro da fare che ritirarsi, quasi piegò in due la sua spessa spina dorsale, nonostante lo sforzo che gli costò.
Ming si affrettò ad andarsene; ma una volta fuori del palazzo, si eresse altezzosamente, e appena entrato nel suo palanchino, si distese lussuosamente, dicendo:
“Comincio a credere che riuscirò a sfuggire ai ‘cento colpi di bambù’. “
Diede ordine ai suoi portatori di recarsi sull’isola di Honan, dove sperava, con un desiderio del tutto legittimo, di riposare un po’. Lasciamo il sibarita al suo far niente e torniamo da Perkins a Hong-Kong.

Peï-ho, contrariamente a Ming, aveva passato una notte molto buona. Come aveva supposto il dottor Clifton, al suo primo esame, la sua guarigione era solo questione di pochi giorni. Quella mattina il dotto operatore affermò ai suoi amici di non essersi sbagliato, perché l’unica cosa che aveva da temere – il condannato non aveva ceduto allo strangolamento – era che la compressione delle arterie e dei muscoli del collo potesse determinare una lesione interna e provocare disturbi cerebrali. Tuttavia, non si verificò nulla di simile.
Il più sorpreso di tutti fu l’uomo che era stato impiccato. Appena si svegliò si guardò intorno, poi guardandosi in uno specchio non riuscì a immaginare di essere ancora vivo dopo essere rimasto per mezz’ora all’estremità di una corda tra cielo e terra, e si riafferrò all’esistenza con un ardore mai conosciuto prima. Da quel momento la sua vita divenne una motivazione per lui.

Lo stesso giorno fornì a Perkins tutti i dettagli che richiedeva riguardo alle Isole Ladrone e all’organizzazione della Ninfea Bianca. Disse al capitano che il quartier generale dei pirati era a Wang-mu e confermò la promessa che gli aveva fatto di condurli lì.
Sicuro dell’aiuto di Peï-ho, il capitano non perse un attimo. Lasciando Peï-ho alle cure di Sir Arthur, andò a trovare il governatore della colonia per raccontargli le preziose informazioni che aveva acquisito, senza però rivelarne la strana fonte. Informò inoltre il governatore che il viceré non si sarebbe opposto alla spedizione, e offrì se stesso e il “Lightning” di partire immediatamente.

L’ufficiale, come possiamo facilmente capire, si affrettò ad accettare l’offerta, poiché il contrabbandiere era considerato uno dei migliori marinai del paese. Inoltre, la sua nave era armata in modo da renderla una nave da guerra di tutto rispetto. Decise che quella sera avrebbe riunito i suoi ufficiali in mare e a terra, e non appena fosse stato ufficialmente informato della buona volontà del principe Kong, poiché non voleva entrare in conflitto con le autorità cinesi, le cose sarebbero progredite rapidamente.

Incantato dal risultato dei suoi sforzi, Perkins si affrettò a tornare alla sua villa e decise di recarsi a Canton il prima possibile, per stimolare lo zelo di Ming e concordare alcune questioni interessanti con il signor Lauters. Si accordò con Sir Arthur affinché quest’ultimo tornasse subito a bordo del “Lightning” per mettere la goletta in condizione di partecipare all’attacco ai Ladrones. L’avrebbe trovata all’ancoraggio di Lintin, al ritorno a Canton. Da lì sarebbero scesi fino a Lintao, a diverse miglia da Hong-Kong, in modo da trovarsi sulla rotta delle navi inglesi che il governatore avrebbe designato per sterminare i ladroni del SiKiang.

Sistemato tutto ciò, il protettore di Salice Ricamato decise di non separarsi da Peï-ho; e poiché quest’ultimo, settantadue ore dopo il suo ritorno in vita, stava meravigliosamente bene, lo fece salire sullo stesso piroscafo su cui Ming era salito due giorni prima. La sera stessa arrivò alla fabbrica, dove, dopo aver sistemato l’ex pirata nel suo appartamento, raccontò al signor Lauters ciò che era accaduto dopo la sua partenza.

CAPITOLO IX.
LA VITTIMA DEI PIRATI.

Con grande stupore del capitano, il suo amico non manifestò l’entusiasmo che si aspettava.”Vede, mio caro amico”, disse il mercante svizzero, “tutto ciò andrebbe molto bene, forse, in un altro momento; ma temo di aver commesso un errore a non mettervi al corrente delle apprensioni che ho avuto per più di due settimane.””Cosa intende dire?”.”Non avete visto nulla mentre venivate qui?”.”Sono sbarcato al nostro molo, dove non ho incontrato nessuno”.”Ah! Beh, se foste passato dal porto, avreste notato un’agitazione molto sospetta”.”Senza dubbio la gente sa che l’esercito ribelle sta marciando verso sud”.”Sì, forse; ma probabilmente non sapete che questo terrore, vero o finto, che i Tai-ping incutono è spesso un pretesto delle autorità di Canton per cercare una disputa con noi”.

“Ma il principe Kong è nostro alleato”.
“Se volesse placare la popolazione, permetterebbe che venissimo piantati in asso e saccheggiati, per poi darci tutta la soddisfazione in suo potere”.
Quali sono allora le vostre intenzioni?”
Andare via da qui domani mattina. Dovrei partire anche stasera”.
“Avete informato la signora Lauters?”.
“Sì, ma senza allarmarla. Le ho detto che gli affari mi chiamano a Hong-Kong e che, poiché potrebbe accadere che saremo trattenuti lì per alcune settimane, deve essere pronta ad agire di conseguenza”.
“Molto bene! Allora possiamo partire domani all’alba”.
“Verrete con noi?”.
“Certamente. Dovevo solo vedere voi e il presidente Ming. Senza dubbio è nella sua villa. Mi affretterò ad andarci. Sarò quindi al vostro servizio, anche se sono convinto del vostro errore”.
“Mio caro Perkins, non c’è bisogno di dirvi che se fossi solo sarei più tranquillo; ma ho un’affascinante compagna che mi è così devota da vivere qui con me. Ho fatto male ad accettare un tale sacrificio, perché la legge che vieta la residenza a Canton alle donne europee non è stata abrogata. È solo per tolleranza che alla signora Lauters è stato permesso di rimanere in fabbrica. Basta il pretesto più banale per infastidirci molto”.
“Avete ragione. Andrò a trovare Ming mentre voi vi preparate a sparire domani mattina prima dell’alba”.

Detto questo il capitano andò a prendere Peï-ho nel suo alloggio e partirono per Honan con il suo yawl. Mentre attraversavano il porto notò una grande animazione e temette che il signor Lauters avesse intuito fin troppo bene lo stato generale delle cose; pensò infatti che la sua barca, il cui equipaggio era composto da indù, fosse accolta qua e là da mormorii ed epiteti malvagi. Ma Perkins non si preoccupò più di tanto, continuò tranquillamente il suo cammino e ben presto arrivò al piccolo molo che Ming aveva costruito ai piedi della sua proprietà.
Il mandarino, che si trovava alla villa, lo accolse a braccia aperte; ma poiché il viceré non gli aveva ancora comunicato le sue intenzioni, non poté dare al capitano alcuna informazione. Affermò, tuttavia, che il principe Kong vedeva di buon occhio la spedizione in progetto e aggiunse che, secondo lui, il governatore di Hong-Kong non lo avrebbe fatto aspettare a lungo, perché in verità il governo imperiale sarebbe stato entusiasta di ricevere un servizio come la liberazione dei pirati, anche se con un po’ di forza.
È vero che l’onorevole Ming era così interessato a questa spedizione ai Ladrones che la sua opinione era leggermente venata di parzialità: contemplava con profondo terrore il fatto di avere solo otto giorni in più. Perkins era più calmo e non del tutto della sua opinione; ma l’indipendenza americana del capitano si ribellava all’idea di attendere il permesso delle autorità cinesi per occuparsi dei propri affari. Ming non aveva bisogno di parlargli.

“Tuttavia,” disse il presidente al suo amico, che aveva accompagnato alla barca di quest’ultimo, “ti manderò un espresso non appena avrò notizie dal palazzo, poiché la tua spedizione non può aver luogo prima di quarantotto ore al più presto. Come mi dispiace di non farne parte! Sfortunatamente, nelle circostanze attuali non dovrei lasciare Canton: lo capite, I doveri del mio ufficio mi trattengono qui. Oh! se non fosse per questo, andrei io stesso… “

Ma qui l’intrepido magistrato si fermò di colpo nell’eroica espressione di fede che senza dubbio stava per pronunciare, poiché riconobbe nella poppa della barca del capitano il pirata impiccato a Hong Kong, che lo guardò con aria ironica; e questa vista inaspettata suscitò nella sua mente tutte le successive emozioni che aveva vissuto di recente.

“Sì, è proprio lui”, disse Perkins con una risata, osservando questo reciproco riconoscimento tra giudice e condannato. “Ecco un tizio che ha fatto un bel viaggio, eh?”
“Incredibile! Inaudito!” mormorò Ming alzando le braccia al cielo. “Ah! amico mio, se non riporti Tchou vivo o morto, non hai riguardo per me.”
“Tu sai il contrario. Tra quattro o cinque giorni saremo di ritorno dalle Ladrones; e se nel frattempo dovesse succedere qualcosa di interessante a Canton, non mancare di informarmi.” Detto questo il comandante della Lightning salutò amichevolmente lo sfortunato mandarino e si imbarcò.

Mentre tornava alla fabbrica, mezz’ora dopo, due mendicanti cenciosi e dall’aspetto ripugnante erano appoggiati alla ringhiera. Li oltrepassò senza prestare loro alcuna attenzione; ma questi uomini lo riconobbero, perché uno di loro disse all’altro a voce piuttosto bassa.

“Sei sicuro che questo sia il capitano Perkins?”
“Ne sono certo, ” rispose l’altro. “Conosco tutto l’equipaggio del Lightning, e il secondo capitano, Morton, è pericoloso quanto il suo capo.
“Questo senza dubbio seguirà i suoi amici domani.”
“Se ne vanno allora?”
“Il signor Lauters ha pagato e congedato i suoi portuali.”
“Allora non ti muovere da qui.”

Nel frattempo, il difensore dell’innocenza lesa si ricongiunse al signor Lauters. Questi aveva previamente avvisato la moglie, la quale aveva capito tutto in una parola, e aveva terminato i suoi preparativi. Il contrabbandiere la confortò un po’ assicurandole che li avrebbe accompagnati, e tutti si ritirarono per prendersi qualche ora di riposo.
L’indomani mattina fu il capitano del clipper d’oppio a dare il segnale della partenza. La signora Lauters si era vestita da uomo. Perkins le diede il braccio e Pei-ho le camminò accanto. Il signor Lauters veniva dopo con il suo servitore, un robusto malese nel quale aveva perfetta fiducia. Secondo il suo ordine lasciarono la fabbrica.
I dintorni erano assolutamente deserti, e il capitano non fu molto sorpreso di essere avvicinato da due disgraziati che gli chiedevano l’elemosina. Per sbarazzarsene diede loro diversi pezzi di rame; ma con il pretesto di offrire quei ringraziamenti iperbolici a cui sono abituati i cinesi, i mendicanti li seguirono fino al molo della dogana, dove la loro barca aspettava.
Quando raggiunsero il molo il signor Lauters era davvero spaventato. Lì era legata la barca di un mandarino, e i fuggitivi dovevano passare davanti all’equipaggio, che la stava caricando di polvere. Se uno degli ufficiali cinesi avesse riconosciuto la signora Lauters, la situazione sarebbe potuto diventare seria; ma la luce grigia dell’alba li favorì, ed essi riuscirono a fuggire sani e salvi e si diressero verso Whampoa lungo i corsi d’acqua meno frequentati. Dopo aver assistito alla loro partenza, uno dei mendicanti si mise a correre verso la città.
Tra i mille bracci del Fiume delle Perle la navigazione è difficile e pericolosa. Tutta questa parte della Cina è come un grande lago disseminato di isole. In ogni momento il barcaiolo incontra barriere, erette dalle autorità marittime per arrestare navi sconosciute o dagli abitanti del fiume per proteggersi dai pirati. Sebbene il capitano Perkins avesse già percorso questa strada, era passato un po’ di tempo; e fu costretto a fare appello a tutta la sua abilità di navigazione e a consultare spesso Peï-ho, per non perdersi in questo inestricabile labirinto di canali. Procedevano quindi un po’ a rilento, mentre il signor Lauters si dedicava a rassicurare e incoraggiare la moglie, cosa che gli riuscì molto presto, tanto che uscì e si sedette a poppa. La signora Lauters, di nuovo in sé, mise la sua bella testa bionda fuori dalla tenda sul ponte, per ammirare l’incantevole effetto dell’alba sulle paludi.
Mentre stavano passando la parte meridionale dell’isola di Honan, Perkins improvvisamente vide, aggirando l’estremità dell’isola Seapoys, un grosso skiff, il cui equipaggio aveva evidentemente fretta. Montò su una panca per vedere se questo vascello veniva verso di lui, e gli parve di scoprire nella parte prodiera un uomo che faceva segni e agitava qualcosa di bianco.

Senza fermarsi, ma semplicemente alzando i remi, in modo da essere pronto a partire subito se si fosse sbagliato, il comandante del “Fulmine” procedette con le vele appena sollevate dalla brezza. In circa dieci minuti riuscì a distinguere lo skiff in tutti i suoi particolari: era una lunga imbarcazione remata da sei uomini, che sembravano gestirla in modo tanto goffo quanto cinese. Lo yawl l’avrebbe facilmente lasciato indietro se avesse avuto un aspetto minaccioso.
A prua si trovava un individuo vestito come un operaio, con una lettera in mano. Pensando che Ming gli avesse inviato una comunicazione interessante, il contrabbandiere fece cenno ai suoi rematori di permettere al messaggero del mandarino di salire con loro. Seguendo la corrente, doppiarono Point Tuffnell ed entrarono in un canale assolutamente deserto, quando la barca indigena, spinta da un vigoroso sforzo dei suoi rematori, li raggiunse.

La collisione.


Per evitare una pericolosa collisione, Perkins aveva ordinato di tirare i remi in barca e Lauters si era alzato per prendere la missiva nel momento in cui lo skiff, obbedendo al suo timone, avrebbe superato lo yawl, guidato solo dalle acque. Improvvisamente il marinaio cinese che governava la piroga la lasciò andare e le due imbarcazioni si scontrarono con estrema violenza. In quel momento il signor Lauters emise un grido e cadde all’indietro. Mentre si accingeva a prendere la lettera che l’operaio fingeva di consegnargli, un colpo di lancia lo colpì in pieno al petto e dieci uomini spuntarono all’improvviso dal fondo della barca, dove erano rimasti nascosti fino a quel momento.
I nostri amici erano alle prese con venti membri della Ninfea, banditi armati di frecce e lance. Con la consueta energia, Perkins cominciò a scaricare il suo revolver sulla massa compatta dei pirati. L’urto dell’imbarcazione nemica aveva fatto prendere allo yawl la direzione della corrente e l’assassino del signor Lauters, nel tentativo di saltare a bordo, era caduto in acqua; ma era un abile nuotatore e si era avvicinato per afferrare il trincarino, quando Peï-ho lo colpì così forte sulla testa con il manico ramato della barra, che lasciò la presa e si rivoltò, lasciando solo una grande macchia rossa sull’acqua.
La parte anteriore della piroga toccava la parte posteriore dello yawl e la signora Lauters, che era accorsa al fianco del marito, cercava di tamponare il sangue della ferita.

“Avanti! Ragazzi miei, avanti!” comandò il capitano, eccitando i suoi marinai con la voce e con i gesti. Ma sebbene gli uomini fossero coraggiosi Malabar, conoscevano troppo bene i pirati: furono colpiti dal terrore, e Perkins pensò per un momento che tutto fosse perduto, quando all’improvviso udì i disgraziati emettere alte grida di stupore e maledizione, e quasi immediatamente la loro nave rimase immobile.
“Il capo!” – gridò uno degli assalitori che sembrava comandare gli altri.

Peï-ho si era alzato in tutta la sua altezza e coloro che aveva condotto così spesso al saccheggio lo avevano riconosciuto. In preda all’orrore che provavano per l’apparizione di colui che alcuni di loro avevano visto appeso alla forca a Hong Kong, credettero che si trattasse di un sortilegio, di un’opera di magia, e questo sentimento, per quanto fugace, salvò i nostri amici.

Abbandonata per un attimo dall’uomo che la guidava, la piroga era andata alla deriva nella corrente del fiume, e un secondo ululato dei pirati testimoniò la loro rabbia e disperazione. La loro barca, abbandonata a se stessa, si era incagliata su un banco di sabbia che lo yawl, grazie al suo minore pescaggio, oltrepassò facilmente. Ci sarebbero voluti quindici minuti di duro lavoro per tornare a galla.

“Remate! ragazzi, remate!” – gridò il contrabbandiere. I suoi uomini si misero ai remi e la leggera imbarcazione riprese il suo cammino.
“Quanto a te, mio buon amico,” aggiunse tendendo la mano a Pei-ho, senza di te saremmo stati perduti. Vedrai che avremo una buona memoria. Prendi il timone.”
“Mi hai salvato la vita”, rispose semplicemente l’ex capo della Ninfea, prendendo il timone; “ma non abbiamo ancora chiuso. Manterrò tutte le mie promesse.” E si diresse verso il passaggio Elliot, un braccio del fiume che portava direttamente a Whampoa. Libero di occuparsi del suo sfortunato amico, Perkins esaminò la ferita. La cosa era gravissima: la lancia aveva trapassato profondamente il petto tra la quarta e la quinta costola, e c’era da temere che fosse stato ferito qualche organo vitale. La signora Lauters era sconvolta dal dolore. Senza parole e senza lacrime teneva in grembo la testa del marito, che non aveva ripreso conoscenza.

Come tutti gli ufficiali di marina, il comandante del “Lightning” aveva qualche idea sulla chirurgia: fasciò la ferita del povero mercante meglio che poté e cercò di dissimulare i suoi timori per il peggio. Il signor Lauters non dava segni di vita. La moglie, invece, teneva gli occhi fissi sul volto del marito e sembrava l’immagine della disperazione. Quando, mezz’ora dopo, la barca doppiò la punta di Capo Bernardo, per entrare nel porto di Whampoa, il contrabbandiere chiamò un grande mercantile a tre alberi, il “Britannia”, e il suo capitano mandò loro il medico di bordo; ma era troppo tardi: la vittima del pirata aveva cessato di vivere.
A questa certezza la signora Lauters tornò in sé, solo, però, per far risuonare l’aria con le sue grida, accusandosi di aver causato l’assassinio di suo marito e rifiutando di separarsi dal suo corpo. Dovette quasi essere rimossa con la forza e cedette solo alla solenne promessa che egli sarebbe stato inviato a Hong Kong per essere sepolto. Il comandante del “Lightning” le giurò che ciò sarebbe avvenuto, e così convinse la povera creatura a scendere a terra e ad aspettare che i suoi uomini, che avevano bisogno di qualche ora di riposo, potessero prepararsi a riprendere i remi e scendere a valle a Lintin.
Non aveva intenzione di restare a lungo a Whampoa, poiché vedeva nell’attacco di cui era stato oggetto la prova che i membri della Ninfea erano a conoscenza, almeno in parte, dei suoi progetti. Era quindi importante non dare loro il tempo di mettersi completamente sulla difensiva.

CAPITOLO X.
LA VENDETTA DI TCHOU.

Situato sopra i famosi forti di Boca-Tigris, più di venti leghe sopra la foce del Li-Kiang, il porto di Whampoa era certamente, all’epoca di cui parliamo, una delle stazioni più curiose del globo. Formato da diversi canali che separavano le isole di cui il fiume è inframmezzato in questo luogo, canali che si delineavano da una parte all’altra e dove ogni nazione aveva i suoi ormeggi particolari, era, in senso stretto, a dieci miglia da Canton, una grande quarantena, che le navi straniere non potevano oltrepassare con ogni pretesto.

Le navi più strane lì ormeggiate erano quelle sulle quali erano state costruite delle vere e proprie case d’affari. Su grandi pontili c’erano magazzini con i loro scaffali, banconi e tutti i loro arredi. Le barche degli acquirenti si fermavano ai piedi di una stretta scala che conduceva all’ingresso, sopra il quale, a grandi lettere, c’era il nome del sarto, del calzolaio o del commerciante di vettovaglie, e il bordo di ciascuna di queste singolari costruzioni era fortificato con piccole pietre appuntite destinate a imprimere nei malfattori il rispetto per la proprietà. Grazie a questo sistema, il capitano calzolaio, droghiere o sarto poteva, a piacimento e al primo allarme, trasportare il suo locale in un luogo sicuro: bastava levare l’ancora e lasciarsi andare alla deriva.

Per quanto riguarda il villaggio di Whampoa, era composto da un’unica strada larga circa 14 piedi e lunga un quarto di miglio. Tutte le case, o meglio, tutte le capanne, che davano le spalle al fiume, erano costruite su palafitte. Si raggiungevano dall’acqua con scale a pioli scivolose, che la rapidità della corrente e la loro instabilità rendevano a volte pericolosa l’ascesa. Inoltre, c’erano solo piccoli negozianti e commercianti ordinari, lavandai, macellai e pescatori, nessuno straniero avrebbe trascorso una sola notte a terra in questo villaggio lacustre.

Quando Perkins arrivò, l’intero porto era in uno stato di insolita agitazione. La notizia dell’avvicinamento dei Tai-Ping era già arrivata e si temeva, tra i nuovi problemi, che il viceré non fosse in grado di proteggere gli stranieri come aveva fatto finora. I vascelli mercantili carichi si stavano preparando in fretta a partire, mentre altri si stavano mettendo in stato di difesa. La maggior parte delle botteghe galleggianti era scesa a Punta Alcestis, all’estremità del porto, in modo da essere pronta al primo segnale di scendere il fiume. Numerose imbarcazioni di mandarini avevano attraversato la baia durante la notte e si stavano dirigendo verso i forti. Per quanto ossequiosa fosse stata la sera prima, la popolazione era diventata subito brutale e insolente. C’era ribellione nell’aria.

Perkins si affrettò a raggiungere Sir Arthur a bordo del “Lightning”, in modo da approfittare della luce del giorno per condurre la sua goletta da Lintin a Lantao e trasportare il corpo del signor Lauters a Hong-Kong. Perciò esortò i suoi uomini e il suo yawl prese ben presto la rotta verso la parte bassa del fiume. Avvolto in una bandiera, il morto era stato deposto sotto il tendalino, dove la signora Lauters pregava e piangeva su di lui. Peï-ho era al timone e il capitano osservava le rive con il suo cannocchiale. Il piccolo skiff attraversò così senza difficoltà il canale di Boca-Tigris ed erano appena le cinque di sera quando salutò il “Lightning” all’ormeggio di Lintin. Aiutati dalla corrente, avevano impiegato meno di otto ore per percorrere le quaranta miglia che separano quell’isola da Whampoa.

La goletta era lunga centodieci piedi e larga ventidue, ed era il vascello più elegante che si potesse vedere. Quando era a vela, con l’immensa nuvola di tela che copriva i due alberi inclinati all’indietro, sembrava un albatros dal piumaggio candido che sfiorava le onde. La sua prua, finemente modellata come quella di un piroscafo, sosteneva un bompresso la cui estremità, leggermente arcuata, era ornata, come gli stralli, da bastoni tagliati a forma di sole. Le sue fiancate erano dipinte di nero e gli ottoni brillavano come oro. I suoi alberi erano così accuratamente resinati da sembrare di mogano. Il suo armamento era composto da due carronate, che si affacciavano dai fori di poppa come due coquettes dal loro balcone, un lungo cannone di rame imperniato sul ponte di prua e, qua e là, una mezza dozzina di piccoli cannoni girevoli dall’aspetto più attraente. Il “Lightning” non aveva né poppa né prua. Il suo ponte, liscio come il vetro, si estendeva a prua e a poppa ed era fatto di tavole strette, che lo facevano sembrare ancora più lungo. A poppa, le casse che contenevano le bandiere e gli strumenti di governo erano abbastanza grandi da fungere da divani ed erano ombreggiate da tendalini che erano stati montati tutt’intorno alla nave.

Si vedrà che Perkins spesso sacrificò l’utile al dilettevole, ma la sua fortuna fu accumulata per molto tempo facendo semplicemente viaggi quasi come un dilettante. Solo la parte centrale della goletta, tra i due alberi, era riservata al carico di oppio: tutto il resto era per lui, per i suoi ufficiali e per il suo equipaggio, composto da trenta robusti malabaresi, che erano all’estero da diversi anni. Il suo staff era composto da soli tre uomini bianchi: Morton, il capitano in seconda, James, il compagno di bordo, e uno steward.

Dopo aver costretto la signora Lauters a salire a bordo, il capitano salpò immediatamente, trascinando con sé lo yawl che conteneva il corpo della sua sfortunata amica; e il sole era appena scomparso dietro Macao quando il “Lightning” gettò l’ancora nella piccola baia di Lamma, a quattro o cinque miglia da Victoria.

Intento nelle sue manovre, il capitano non aveva notato, mentre ormeggiava, una dozzina di barche che si avvicinavano al largo e si dirigevano verso la punta orientale dell’isola. Per diversi motivi aveva deciso di spingersi verso Lamma invece di fermarsi a Lintoa: in primo luogo voleva trasferire a terra i resti di Lauters, la sera stessa; inoltre, voleva fare la sua dichiarazione alle autorità senza rimandare al giorno successivo. Aveva anche alcune informazioni sull’atteggiamento dei cinesi nei confronti degli stranieri, che il dovere gli imponeva di diffondere senza indugio. Si affrettò quindi a rimessare il suo yawl, perché gli uomini che avevano remato da Canton a Lintin erano esausti. Fece smontare l’inutile tendalino e poi si imbarcò con la signora Lauters, il corpo del marito, Sir Arthur e Peï-ho. Prese quest’ultimo per servirsene, se necessario, come ultimo argomento con il governatore di Hong-Kong, presentandolo come pilota. Lasciò il Lightning’ sotto le cure di Morton, che aveva tutta la sua fiducia e aveva dimostrato cento volte di esserne degno.

Mentre lo yawl si allontanava velocemente dalla goletta, le ombre della notte calavano veloci; ma Perkins conosceva troppo bene la strada perché ciò lo scoraggiasse per un momento. Desiderando approfittare della brezza serale, salpò per Vittoria. La graziosa barca scivolava leggera sulle onde torturate dalle correnti, e la rapidità del suo volo l’avrebbe portata a Hong Kong in meno di un’ora, quando, all’improvviso, nel momento in cui stava per entrare nel canale tra la colonia inglese e l’Isola Verde furono colpiti da una raffica così violenta che, prima che la vela potesse ammainarsi, l’albero si spezzò. Il capitano ordinò ai suoi uomini di mettersi ai remi. Sfortunatamente, a causa dello scuotimento dello yawl, quattro remi erano caduti in mare. Tuttavia gli uomini presero ciò che restava e cominciarono a remare vigorosamente; ma nei pochi istanti in cui lo yawl era rimasto privato della vela era andato alla deriva, e il contrabbandiere capì, dal rumore del mare e dall’ombra della riva, che erano trasportati dalla corrente sugli scogli di Lamma. Infatti, nel giro di due minuti sentì il timone, che non aveva lasciato, deviato da una roccia sopra il livello dell’acqua, e la barca girò su se stessa e fu catturata dai frangenti della scogliera.

“Siamo perduti!” disse subito, con perfetta freddezza. “Lasciatemi questa donna, Sir Arthur, la salverò. Tu, amico mio, nuota a riva. Tu, Peï-ho, devi prenderti cura del corpo del signor Lauters. Forza, ragazzi, abbiate coraggio e, Dio sia lodato! ne usciremo.” Queste ultime parole l’intrepido marinaio rivolse ai suoi uomini; ma nessuno di loro ebbe il tempo di rispondere, perché all’improvviso lo yawl fece due o tre sbalzi e si rovesciò nei frangenti.
Perkins afferrò la signora Lauters, il cui volto era calmo e quasi sorridente all’avvicinarsi della morte. Può darsi che la povera donna vedesse la fine del suo dolore solo in quel modo. Sebbene carico del suo triste e pesante fardello, Peï-ho raggiunse la riva contemporaneamente a Sir Arthur, ed entrambi aiutarono il capitano a rimettersi in piedi. La signora Lauters era svenuta e la deposero sulla sabbia accanto a suo marito. Soltanto due Malabar erano sbarcati; ma il capitano sperava che anche gli altri, che erano ottimi nuotatori, si salvassero. Si riteneva fortunato di essersela cavata con solo la perdita della sua barca.
Ma era necessario allontanarsi da lì. Il luogo dove si erano rifugiati i naufraghi era un piccolo banco di sabbia largo circa dodici piedi, che il mare aveva fatto emergere in una delle spaccature del promontorio che li sovrastava e li circondava come un muro inaccessibile.

La notte era a tratti limpida e nuvolosa. A un certo punto grandi nuvole nere si estesero all’orizzonte, per essere spazzate via dal vento in pochi istanti, quando il cielo brillò di stelle. Allora Perkins riuscì a distinguere il “Fulmine” in equilibrio sulla marea. All’improvviso gli sembrò che tra i ruggiti delle onde che si infrangevano ai suoi piedi si mescolasse un rumore proveniente da lontano. Piegò l’orecchio per ascoltare e tremò per un sinistro presentimento. Ben presto distinse un rapido rumore di moschetti, e allora lanciò un grido di rabbia: la sua goletta era stata attaccata dai pirati, e non riusciva a raggiungerla!

Si guardò attorno per vedere se non ci fosse modo di scalare il promontorio; ma uno di questi uomini, avendo avuto lo stesso pensiero, aveva tentato di scalarlo ed era caduto dalle rocce quando era arrivato a circa venti piedi di altezza. Accovacciato sulla sabbia, l’altro marinaio assistette alla tragedia con l’insensibilità del fatalismo indù, e Peï-ho stava cercando di impedire al mare, che si era alzato rapidamente, di portare via il corpo del signor Lauters. Quanto a Sir Arthur, aveva preso tra le braccia la povera vedova, che si era ripresa dallo svenimento, e, folle di terrore, desiderava gettarsi in mare.

Il valoroso capitano, di solito così forte, era abbattuto: il sentimento della sua impotenza lo sopraffece. Non poteva allontanarsi da lì a meno che qualcuno non fosse venuto in suo aiuto; ma, in primo luogo, da dove sarebbero venuti gli aiuti? E allora, non potrebbe essere troppo tardi? L’alta marea non avrebbe coperto lo stretto banco di sabbia dove si trovavano? Gli sembrava che lo spazio intorno a loro diminuisse a poco a poco. Disperato, contò le detonazioni dell’artiglieria che si susseguivano senza sosta, quando all’improvviso cominciò a gridare forte. Aveva udito a poca distanza il regolare rintocco dei remi sull’acqua. “Aiuto aiuto!” gridò con tutte le sue forze. Anche Sir Arthur gridò, e ben presto videro la barca, che avevano intuito doppiò la punta. Era equipaggiata da una mezza dozzina di uomini. Raddoppiarono le loro chiamate, e presto ebbero la prova di essere stati uditi, perché i nuovi arrivati riuscirono a passare tra gli scogli e il banco di sabbia. Perkins, nell’acqua fino alle ginocchia, mostrò loro i pericoli e i luoghi dove potevano passare. Grazie alla sua leggera corrente d’acqua la barca riuscì a superare i frangenti. Ancora dieci colpi di remo e li avrebbe accolti.

Il contrabbandiere incoraggiò i rematori e raccomandò a Sir Arthur di portare con sé la signora Lauters, se non avesse potuto camminare.
La barca venne di traverso per non infilare la prua nella sabbia; solo due braccia lo separavano da coloro che lo aspettavano con tanta impazienza.
“Tenete duro, miei coraggiosi compagni”, ripeté il comandante del “Lightning” mentre si avvicinava per afferrare la barca dalla poppa per tenerla a bada e permettere ai suoi amici di prenderla.

Ah! Sei tu, cane!” gridò l’uomo che teneva il timone. “Ah! Sei tu che vuoi salvare la Ricamata Willow! Aspetta! È così che il Ragno Rosso si vendica!” e scaricò la pistola che aveva estratto dalla cintura. Ma nella precipitazione l’assassino non ebbe il tempo di vedere il suo nemico e la palla sfiorò la testa di Perkins.
Tchou riarmò di nuovo la pistola e si stava sporgendo in avanti per sparare, quando all’improvviso la barca si capovolse e tutti scomparvero tra i frangenti. Peï-ho si era precipitato in acqua e aveva fatto girare la barca.

Fu un momento di angoscia indicibile. Il capitano era armato di un remo che il mare aveva gettato sulla sabbia. Con il braccio alzato e lo sguardo fisso sull’abisso, si preparò a spezzare la testa al primo che usciva dall’acqua. Emettendo grida di spavento, la signora Lauters si aggrappò a Sir Arthur e ne paralizzò i movimenti. La luna attraversava le nuvole e i suoi raggi formavano arcobaleni sulle creste delle onde. Nella direzione del “Lightning” il combattimento continuava ancora.
Due o tre teste apparvero contemporaneamente in mezzo ai frangenti. Il remo del contrabbandiere cadde e contemporaneamente si udì un gemito soffocato sotto le acque. Quasi nello stesso momento due uomini misero piede all’estremità opposta della riva e, prima che Perkins potesse sbarrare loro il passo, erano balzati alla base del precipizio. Lì, appoggiati alla roccia, sembravano pronti a una resistenza disperata. Tchou era uno dei due banditi.

“Ah! Questa volta non puoi sfuggirmi, disgraziato!”, gridò l’americano, lanciandosi verso di lui e minacciandolo con la terribile arma che impugnava.
Una risata demoniaca rispose. Le onde crescenti avevano invaso una parte della sabbia. Un crepaccio largo e profondo, impossibile da attraversare nell’oscurità, separava gli stranieri dai loro nemici, e l’assassino di Ling, con un lungo creese malese in mano, si preparava a scagliarsi sul comandante se avesse tentato di raggiungerli.
“Maledizione a tutto questo!” gemette il difensore di Embroidered Willow. “Il mare stesso è contro di noi!”.

All’improvviso una luce brillante si accese all’orizzonte e l’americano impazzì di rabbia. Tra le fitte ombre degli ormeggi a Lamma, le fiamme avvamparono gli alberi del Lightning verso il cielo. La signora Lauters aveva lasciato andare il braccio di Sir Arthur e, con gli occhi affranti e le mani pallide e brucianti tese verso i fantastici serpenti di fiamma che si arrampicavano sugli alberi del clipper dell’oppio, gridava forte all’avanzare dell’elemento distruttore.
“Ah, ah! cane di uno straniero!” urlò l’ex macellaio, i cui lineamenti orribili brillavano di orribile gioia, “ora sai quanto costa immischiarsi negli affari di Tchou. Nonostante le tue promesse, Salice Ricamato sarà impiccata e tu non condurrai i tuoi uomini ai Ladrones. In un’ora il mare si alzerà di dieci piedi e tu sarai inghiottito. Ah, hai osato lottare con i membri della Ninfea! Guarda cosa hanno fatto alla tua goletta!
Il mare, infatti, avanzava verso di loro; il luogo del rifugio era largo solo pochi piedi, e il fuoco riprese dal “Lightning”. All’improvviso il contrabbandiere, che si rifiutava di rispondere all’assassino, emise un grido di gioia. Numerosi colpi di remo, la cui regolarità denotava una barca europea, furono uditi a destra della punta di Lamma, cioè dalla rada di Hong-Kong. Anche Tchou udì questo suono e un orribile giuramento gli sfuggì dalle labbra.

Sir Arthur e Perkins gridarono forte e le loro grida furono udite. Una delle barche venne verso di loro e le altre proseguirono verso il “Lightning”. La barca inglese si avvicinò e Sir Arthur stava per far salire a bordo la signora Lauters, quando Tchou apparve dietro di loro con il coltello alzato. Il comandante si sentì perduto; ma prima che il bandito potesse commettere un altro crimine, improvvisamente Peï-ho si era gettato sul bandito, lo aveva afferrato tra le braccia e cercava di gettare in mare il suo avversario. Ma il disgraziato era forte. Ripresosi dalla prima sorpresa, si era avvinghiato al suo antagonista e, prima che i testimoni di questa lotta potessero aiutare l’ex pirata, Tchou gli aveva fatto perdere l’equilibrio ed entrambi erano rotolati in acqua. Le onde si richiusero su di loro; poi furono visti riapparire a circa trenta metri di distanza, ancora in lotta, e di nuovo scomparire. Passarono cinque minuti. Gli abissi erano senza dubbio il teatro di un terribile duello, perché mentre la barca si spingeva al largo per dare rifugio a Peï-ho, Sir Arthur si accorse che questi aveva recuperato il terreno, ma solo per cadere esausto sulla sabbia. Perkins si lanciò allora verso di lui. Era terribilmente ferito al petto.

“Abbiamo chiuso, capitano”, mormorò lui, con voce morente. “Non vi porterò ai Ladrones, ma la Ninfea ora non ha più un capo”. E spirò l’ultimo respiro.
Il contrabbandiere lo portò nella barca, dove la signora Lauters si era già rifugiata, ma senza il corpo del marito. Il mare lo aveva coperto o portato via. In quindici minuti il capitano salì a bordo della sua goletta. L’attacco dei pirati era stato duro, ma Morton li aveva valorosamente respinti. La goletta aveva perso solo una dozzina di marinai in tutto, ma il ponte e gli alberi distrutti dal fuoco la rendevano inadatta al servizio, perciò Perkins decise di tornare il giorno dopo a Victoria.
La sua prima preoccupazione al sorgere del sole fu quella di recarsi al banco di sabbia di Lamma per recuperare il corpo del signor Lauters. Il corpo fu trovato tra due scogli, il capitano lo fece portare a bordo e partì per la terraferma. Quanto al corpo di Tchou, era scomparso. Le acque avevano inghiottito la loro preda?

CAPITOLO XI.
IN CUI UNA COPPIA INNOCENTE SI PREPARA A MORIRE.

Non perdendo tempo, quando il governatore di Hong-Kong venne a conoscenza del nuovo attentato dei pirati, il giorno stesso inviò Sir William Maury, uno dei suoi aiutanti di campo, a Canton, non per chiedere l’autorizzazione al viceré di effettuare una calata sui Ladrones, ma per informarlo che questa operazione militare stava per avere luogo, con o senza il consenso del governo imperiale, e per ordinare ai comandanti delle fregate “Imogene” e “Andromache” di risalire il fiume fino a Boca Tigris e di tenersi pronti a forzare il passaggio.

Il giorno dopo, tutta la colonia, indignata fino all’inverosimile, partecipò al funerale del signor Lauters, la cui vedova aveva quasi perso la ragione. Nell’ultimo omaggio reso all’amico, Perkins ricordò il Presidente Ming. Pensò che fosse onorevole far sapere a Ming della terribile tragedia che si era consumata sulle sabbie di Lamma, per quanto sarebbe stato scioccante per il presidente sapere della morte di Tchou. Scrisse quindi a Ming una lunga lettera, riportando fedelmente i tristi eventi che si erano verificati, e la inviò a Honan il giorno stesso, tramite un mercante cinese che si stava recando a Canton. Questa lettera giunse a Ming meno di ventiquattro ore dopo il suo arrivo a Hong-Kong e la sua lettura lo gettò nella più violenta disperazione.

“Cosa farò? Che ne sarà di me?” gemette, con un sospiro disperato. “Miserabile Tchou! perché non avrebbe potuto morire coraggiosamente, pubblicamente, invece di annegare come un cane? Ah! per Buddha! Sono perduto, rovinato” Cento colpi!”

E il grande presidente del tribunale penale scoppiò in singhiozzi.In questo stato d’animo trascorse il resto della giornata: e quando, esausto dall’emozione, decise di andare a letto, il suo sonno era incessantemente turbato da spaventosi incubi. Intorno a lui sembravano danzare tutte le persone che aveva avuto in mente durante l’ultimo mese: Tchou, Salice ricamato, I-té, Perkins, la signora Liou, Pei-ho, il re dei mendicanti, il principe Kong e il boia. In un altro momento gli sembrò che il boia inseguisse un enorme ragno rosso; ma invece di cadere su di esso, fu su di lui, Ming, che cadde quel terribile bambù. Poi si riconobbe in una pesante bara di mogano, a capo della quale stavano due dei suoi servi in atteggiamento triste e lugubre. Per fortuna l’alba dissipò queste allucinazioni, altrimenti lo sfortunato mandarino avrebbe perso la ragione.

Quando si svegliò, si riprese un po’ e si fece coraggio abbastanza da chiedersi cosa dovesse fare. Andare a cercare il viceré? Pensava di sì, ma temeva che sarebbe stata solo fatica persa. Allora si ricordò della signora Liou, che forse conosceva meglio di lui le reali intenzioni del principe, e la mandò a chiamare in prigione.
La madre di Salice Ricamato accorse subito a quest’ordine di guerra, aspettandosi di apprendere che la figlia era finalmente salva; e quando Ming le disse, con aria mesta, che, al contrario, tutte le speranze erano perdute, la povera donna, senza proferire parola, ma pallida e tremante, si avviò verso la porta dell’appartamento.

“Cosa! Se ne vai così?”, esclamò il mandarino, facendole da scudo. “Non avete un’idea, un suggerimento?”.
“Mi getterò ai piedi del principe Kong”, rispose lei, tristemente. “Se non avrà pietà di mia figlia, tornerò da lei per prepararla alla morte”.
“Ma io, signora, io?”.
“Il cielo vi perdoni, signor presidente!” e la signora Liou uscì di casa senza che si tentasse di trattenerla ulteriormente.
“Il cielo mi perdoni!”, mormorò Ming, guardandola andare via.
“Ah, sì; ma per il momento preferirei che la grazia mi arrivasse per bocca di Sua Altezza”.

“Ora, un ultimo sforzo!” Così dicendo, suonò un gong per chiamare i suoi attendenti. Essi accorsero da lui: non era il momento di far aspettare il loro padrone. Ordinò che il suo palanchino e si recò dal viceré, ma questi si rifiutò di riceverlo. Fece sapere a Ming, tramite un ufficiale, che sapeva tutto ciò che poteva essere comunicato, e che la sua decisione era tanto più irrevocabile in quanto considerava il mandarino la causa di questa nuova difficoltà con gli stranieri. Per il principe era chiaro che se Ming non avesse condannato due persone innocenti, il capitano Perkins non si sarebbe mai intromesso in loro favore, di conseguenza non sarebbe diventato oggetto dell’odio di Tchou, il signor Lauters non sarebbe stato assassinato, la goletta “Lightning” sarebbe rimasta tranquillamente a Lamma, il governatore di Hong Kong non avrebbe pensato di inviare un simile ultimatum e due fregate inglesi non avrebbero sorvegliato il passaggio di Boca Tigris.

“Sua Altezza mi ha anche incaricato di dirvi”, aggiunse l’aiutante di campo, “che esige la vostra parola di non lasciare Canton senza un suo ordine e di tenervi notte e giorno a sua disposizione”.
Inorridito nel vedersi accusato di così tanti misfatti, ognuno dei quali sarebbe bastato a farlo impiccare, il grand’uomo promise tutto ciò che l’ufficiale desiderava e tornò alla sua villa, molto abbattuto.

Nel frattempo, la signora Liou, alla quale anche il capo delle Tre Province aveva rifiutato udienza, si ricongiunse alla figlia. Seguì una scena straziante. Nonostante la reticenza della madre, Embroidered Willow capì alla prima parola che non aveva più nulla da sperare; solo che non fu più la condannata a farla tremare: al contrario, diede l’esempio del coraggio. Sollecitò un solo favore, quello di poter vedere I-té ancora una volta per l’ultima volta, e si avviò verso l’ospedale, dove, sebbene quasi guarito, egli rimaneva ancora. Quando la vide entrare nella sua stanza con la signora Liou, il giovane sacerdote lesse subito sul suo volto ciò che veniva ad annunciare. Poi, prima che lei potesse parlare, le prese la mano e, baciandola sulla fronte, le disse:
“Non piangere, mia diletta, la morte non è niente per chi ha vissuto bene: sarà solo una liberazione per noi.”
E per un’ora la tranquillizzò con parole dolci, e quando si separarono fu quasi con un sorriso mentre mormoravano:
“Presto saremo di nuovo insieme, e per sempre!”

Durante questo periodo, per un fenomeno psicologico spesso osservabile negli uomini più pusillanimi quando si trovano di fronte a un pericolo inevitabile, l’onorevole presidente del tribunale penale di Canton riacquistò a poco a poco il suo coraggio. Non fu, naturalmente, immediatamente che si portò a contemplare con rassegnazione il destino che lo attendeva; ma fece una tale richiesta al suo orgoglio che finì per persuadersi che nel momento fatale avrebbe dovuto mostrarsi un modello di fermezza e, compiuta questa trasformazione, iniziò a mettere in ordine i suoi affari.

Ciò lo occupò quattro o cinque giorni, vale a dire fino alla vigilia dell’esecuzione: poi, verso le dieci di sera, dopo aver scritto a Perkins, abbracciò sua moglie, o meglio le sue mogli, perché, se vogliamo siamo giustamente informati, abbiamo forti ragioni per credere che Ming si sia ampiamente avvalso della legge che autorizzava la poligamia – e che sia sceso alla sua barca, nella quale si distese, mormorando:
“Ebbene, sia così! Riceverò domani cento colpi di bambù; ma prima di questa terribile condanna avrò almeno vissuto ancora una volta come un vero cinese, che non teme nulla, né la morte né gli editti imperiali.”

I barcaioli si misero ai remi, e la piccola imbarcazione si fece strada tra le giunche da guerra, verso una fila di luci riflessa nelle acque a sinistra del porto, di fronte all’isolotto della Dutch Folly, e in pochi minuti entrarono nel più curioso dei villaggi galleggianti. Era in mezzo alle famose flower-boats, cioè in uno dei quartieri dove Canton si diverte, un quartiere severamente vietato agli stranieri.
Queste barche sono costruzioni grandi ed eleganti, con le facciate dorate ornate degli stemmi più graziosi, e sormontate da terrazze cariche di fiori. Erano disposte una accanta all’altra, separate l’una dall’altra solo da uno spazio ristretto. I loro ponti di prua erano grandi passerelle, dove si poteva prendere aria. e le migliaia di lanterne colorate che le illuminavano ne facevano strutture dall’aspetto originalissimo. Si sarebbe potuto pensare che fosse il luogo di una fantastica città delle “Mille e una notte”.
Ma il degno presidente aveva senza dubbio fatto frequenti escursioni lì prima, perché la sua canoa risaliva in modo del tutto naturale, e Ming salì pesantemente sulla scala e, sollevando la stuoia che nascondeva la porta, entrò nello strano edificio, dopo aver prima ordinato ai suoi servi di tornare all’alba per riportarlo a Honan.

Come tutte le imbarcazioni della sua classe, anche questa era lunga dai settanta agli ottanta piedi. Il primo salone era l’appartamento comune, il cui pavimento era ricoperto da una spessa moquette e intorno erano disposti grandi divani. Qui i numerosi habitué del luogo erano soliti prendere diverse tazze di tè prima di decidere il da farsi. Al di là di questo appartamento, vicino al centro della barca, c’era una piccola scala che portava a un ponte superiore, dove, a prua, c’erano due piccoli appartamenti deliziosamente decorati e, sul retro, una vasta sala riservata ai giocatori d’azzardo, dove si sentiva il tintinnio delle piastre e il risuonare dei lingotti d’oro e d’argento.
Ma a Ming non piaceva il gioco. Fece un segno: il padrone del luogo accorse. Disse poche parole ed entrambi scomparvero nella seconda parte del piano inferiore. C’erano una mezza dozzina di piccole cabine, il cui unico mobilio consisteva in un divano e un tavolo laccato con tutti gli utensili necessari ai fumatori di oppio. Le lanterne illuminavano queste piccole stanze con una luce morbida e voluttuosa. Là i facoltosi clienti della casa, invece di riposarsi in pubblico, si abbandonavano in solitudine e tranquillità all’uso del meraviglioso narcotico. Ben presto Ming preparò la sua prima pipa d’oppio.

L’oppio non viene fumato come il tabacco. Il dilettante gli dà l’ultima manipolazione presentando alla fiamma di una piccola lampada la densa goccia di succo di papavero, che diventa una pastella odorosa e procura dolci sogni. Ming girò il lungo ago d’acciaio all’estremità del quale crepitò il prezioso soporifero, poi, quando giudicò che fosse sufficientemente solidificato, lo depositò delicatamente sul fornello incandescente della sua grossa pipa, e si gettò indietro per inalarlo con sensuale abbandono.
A questa prima pipa ne seguì una seconda, poi una terza, una quarta; ma tra l’una e l’altra l’intervallo diventava maggiore, perché il coraggioso mandarino si sottoponeva progressivamente agli effetti del veleno, non solo fumandolo, ma anche respirando l’aria viziata di cui la sua cabina si riempiva così rapidamente.

Ming si prepara una pipa d’oppio.

Il suo temperamento linfatico lo metteva al riparo dall’esaltazione furiosa che l’oppio spesso produce negli individui nervosi, soprattutto nella razza malese; ma dopo aver attraversato tutte le sensazioni piacevoli che cercava, dopo aver sognato solo il buonumore e un giovane amore, dopo essersi sentito così leggero che gli sembrava di poter volare per raggiungere il suo caro amico Perkins a Hong-Kong, e che l’imperatore della Cina lo aveva nominato mandarino di prima classe, gli divenne presto impossibile riempire la pipa. Quindi si distese tranquillamente sul letto, con il sorriso sulle labbra e lo sguardo fisso sul vuoto, ipnotizzato dalle visioni celestiali che gli si paravano davanti: il combattimento dei due draghi, il dio degli archi e delle frecce, tutti gli eroi della mitologia buddista. Né i canti delle donne né le grida dei giocatori d’azzardo riuscirono a risvegliarlo dai suoi sogni snervanti.
Trascorsero così due lunghe ore, e il silenzio regnava sul Fiume delle Perle, quando Ming, il cui sonno sembrava quasi catalettico, si rese improvvisamente conto di un leggero rumore. Credendo che qualcuno avesse bussato alla sua porta, si costrinse a volgere lo sguardo da quella parte; ma lo stesso rumore si ripeté e sembrava provenire dall’angolo della stanza di fronte a lui. Sembrava che qualcosa graffiasse sotto lo stuoino che copriva il pavimento, sembrava addirittura che l’angolo di questo stuoia si sollevasse lentamente.

Molto turbato da questo incidente apparentemente banale, non riuscì a distogliere lo sguardo dal luogo. Il leggero tessuto di canne si agitava come per ripetuti sforzi e il fumatore si chiese se non fosse il vento a imprimere questo movimento, quando finalmente ne riconobbe la causa. Percepì gli artigli vellutati e unghiati di un animale che era ancora nascosto sotto la stuoia. Subito il sognatore rabbrividì di disgusto. Dietro quelle zampe un enorme ragno mostrava la sua orribile testa, poi improvvisamente uscì e apparve intero. I suoi occhi chiari erano fissi su di lui: agitava le sue antenne intorno a lui con fare incerto.

Il mandarino cercò di alzarsi per allontanare l’orribile creatura, ma, mezzo paralizzato dall’oppio, non riuscì a fare un movimento. Tuttavia, dopo un secondo di esitazione, il mostro si diresse direttamente verso il divano. Quando attraversò il raggio di luce che illuminava la cabina, Ming, che lo seguiva con lo sguardo atterrito, poté vederlo rivelato in tutta la sua ripugnanza. Era un ragno gigantesco con mandibole orizzontali, stretto corsaletto nero ed enorme addome striato da bande rosso sangue. Era il terribile ragno rosso il cui morso è sempre mortale. Il suo percorso era segnato da una linea vischiosa sul tappeto e sembrava aumentare di dimensioni man mano che si avvicinava.
Il suo corpo era lungo almeno 15 centimetri. Arrivava lentamente, come se sapesse che la sua preda non poteva sfuggirgli, e il povero presidente passò dal disgusto a un terribile terrore quando sentì che si arrampicava sulla sua gamba. Sentì il rumore degli artigli che si affilavano l’uno contro l’altro, gli sembrò già di inalare il suo fiato avvelenato, e non poté né difendersi né chiamare i soccorsi! Era come incollato al divano maledetto, dove era venuto a cercare l’oblio, ma dove stava per incontrare una morte orribile. Il suo cuore batteva come se volesse scoppiare e la follia si impadroniva del suo cervello.

Ben presto percepì il ragno sul suo petto, dove gravava con un peso enorme: poi il suo volto sembrò raggelarsi al suo orribile contatto. Alla fine emise un grido terribile, sentendo le pinze della creatura chiudersi sulle sue labbra, e recuperando improvvisamente la sua libertà d’azione balzò dal divano e si gettò fuori dalla cabina, selvaggio, senza fiato, grondante di un sudore freddo, che prese per sangue, e gridando: “Aiuto! Aiuto! Il ragno rosso! Il ragno rosso!”.
Non sapendo cosa stesse facendo, si precipitò nella sala da gioco, dove tutti balzarono in piedi, allarmati e stupiti del suo terrore e delle sue grida; ma uno di essi all’improvviso si scostò, agitando il coltello in modo minaccioso, come se fosse pronto a uccidere il primo che si fosse avvicinato. Percependolo, Ming sembrò improvvisamente riportato alla ragione: gli sembrava di conoscere quest’uomo. Ah! allora era stato solo il bersaglio di un orribile incubo! Questo mostro che lo aveva tanto terrorizzato era solo una creazione del suo cervello eccitato dall’oppio.

Ma perché questo ragno rosso? Che rapporto potrebbe esistere tra il sogno e la realtà? Perché quest’uomo dalla faccia brutale lo stava minacciando? Stava ancora sognando? o era davvero sveglio?
All’improvviso capì e gridò:
“Ah! Ti riconosco! Sei l’assassino di Ling-TaLang! Arrestate quest’uomo! Arrestalo! Io sono il Mandarino Ming.”
Si trattava proprio di Tchou, che non era stato annegato a Lamma, come aveva pensato Perkins. All’esclamazione del magistrato i giocatori si lanciarono contro l’ex macellaio; ma questi, staccandosi da loro, si precipitò alla finestra e saltò fuori, e sentirono il suo corpo cadere nell’acqua.

Tutto ciò successe così rapidamente che nessuno potè impedirlo.
Ripresi dalla sorpresa e dal terrore, perché nessuno aveva nemmeno pensato di tentare di catturare il disgraziato, molti di loro si affacciarono alla finestra per cercarlo nel fiume, gridando: “Aiuto! l’assassino!” Pensavano giustamente che Tchou non avesse intenzione di annegarsi, ma di fuggire.
Altri, invece, si lanciarono giù per la scala e poi sulle barche, all’inseguimento del bandito.
Quanto a Ming, sconvolto, esausto e disperato per essersi visto sfuggire il suo assassino nel momento in cui il caso più strano lo aveva messo nelle sue mani, si era accasciato su un sedile e non rispondeva a chi lo interrogava, se non con frasi eiaculatorie intervallate da sospiri e maledizioni.
“Ah! la canaglia! il mostro!”, ripeteva per la decima volta. Solo a pensare che era lì, che l’avevo finalmente in pugno e che ha potuto sparire! Adesso è tutto finito: Sono rovinato!”.

“Non ancora, mio caro presidente, non ancora!” disse all’improvviso una voce che lo fece trasalire.
Il suo sguardo ansioso si posò su un uomo che entrò nella sala da gioco tendendogli entrambe le mani.
“Tu, Perkins? Tu?” esclamò, sopraffatto dallo stupore.
“Io stesso!” osservò freddamente il capitano.
È stato proprio il contrabbandiere ad apparire così all’improvviso. “Ah, capitano, se sapessi, se sapessi!”
“So tutto!”
“Era lì… non mi restava che tendere la mano!” “Ed è saltato dalla finestra?”
“Sì, fuori dalla finestra, nel fiume! Buddha sa solo dove si trova!”
“È solo nella mia scialuppa.”
“Che ne dici? Nella tua scialuppa? Tchou? Non è possibile!”

Ming si alzò di scatto: sul suo volto convulso era facile leggere che non riusciva a capire cosa fosse successo.
Il comandante della “Lightning” ebbe pietà di lui.
“Vedi”, disse, “noi barbari di fuori, non possiamo permettere che la gente si getti nel fiume nel cuore della notte senza un motivo. Vengo da Honan, dove sono andato con Sir Arthur a trovarvi, e stavamo tornando alla fabbrica, perché la pace è stata conclusa tra il viceré e la colonia, quando, passando di qui, abbiamo percepito questa singolare meteora, apparentemente caduta dal cielo. Nello stesso momento abbiamo sentito delle grida. Anche se non sarebbe stato nostro interesse interferire in ciò che è di competenza della polizia di Canton, la curiosità e l’umanità ci hanno spinto, e ho girato il timone nella direzione in cui il tuffatore era scomparso.

Si avvicinò proprio in quel momento a circa due braccia di distanza da noi; ma sembrava che il furfante non volesse lasciarsi ripescare. Tuttavia, Sir Arthur, che è membro della Thames Life-Saving Society, è ostinato come un mulo; inoltre, nuota come un pesce. Fece un salto nell’acqua e in due minuti afferrò il fuggitivo e lo trascinò su per il suo lungo codino. Quando l’ha portato a bordo ho visto che era il tuo uomo, ma era svenuto”.
“Allora è lì, nella tua barca?”
“Sì, sorvegliato da due Malabar e legato saldamente.”
“Mio caro Perkins! Mio caro Perkins!” La gioia non gli permetteva di dire altro.
“Vieni, gli devi una visita,” disse il capitano, passando il braccio sotto quello del mandarino.

Quando il grande magistrato contemplò il suo nemico difficilmente riuscì a credere alla sua buona sorte; ma in realtà era Tchou. “Ebbene, presidente”, disse Sir Arthur, “eccolo qui, il tuo assassino! vedi?”
Ah! siete uomini nobili!” rispose lui, ingenuamente, gettandosi tra le braccia del gentleman.
Compiuta questa dimostrazione di gratitudine, chiamò i suoi attendenti, e le due barche procedettero insieme verso la fabbrica, dove Tchou fu portato, ancora privo di sensi, in una stanza, e fu attentamente sorvegliato, mentre i suoi rapitori si consultavano insieme.
“Ne farò un breve racconto, mio caro presidente”, rispose il capitano alle domande di Ming. “Abbiamo trovato le Ladrones, grazie alle istruzioni del povero Pei-ho, e siamo approdati a Wang-mu, in modo del tutto inaspettato per i pirati, dove posso assicurarvi che il mio amico è stato vendicato. Non abbiamo lasciato un uomo vivo sull’isola: tutti quello che non abbiamo ucciso lo abbiamo portato via. Ma loro hanno fatto una difesa disperata: uno di loro ha ucciso quella povera ragazza Rose, che Tchou portò via, e non abbiamo potuto impedirlo. Quando siamo tornati a Hong-Kong abbiamo appreso che il viceré aveva approvato la spedizione e tutti i precedenti rapporti tra la colonia e il governo furono ripresi.”

“Non lo sapevo.”
“Non avevo dimenticato che domani è il giorno fissato per l’esecuzione di Embroidered Willow e I-té, così senza perdere un’ora sono andato a Honan a cercarti. Vedi, invece ho trovato il tuo tuffatore: il resto lo sai.”
“Ah, amico mio, quanto ti sono grato!” E con le lacrime agli occhi il personaggio obeso abbracciò il contrabbandiere. Quando spuntò il giorno e Tchou riprese conoscenza e si trovò alla mercé dei suoi implacabili nemici, i suoi lineamenti dapprima si deformarono in un’orribile espressione di odio ma presto si rese conto che era sconfitto e che un’ulteriore resistenza era impossibile, così si rassegnò con il fatalismo della sua razza.
Al mattino presto il principe fu informato della cattura di Tchou, la signora Liou disse a sua figlia e a I-té che erano salvi, l’assassino di Ling fu rinchiuso in una cella e l’onorevole presidente del tribunale penale sospirò:
“Sia lodato Buddha! E quel caro Perkins! Dopo tutto, non riceverò i cento colpi di bambù! Continuerò a condurre la mia vita quieta e tranquilla! Ma fu comunque è stata una strana avventura. Temo che la mia digestione soffrirà per un po’.”

CAPITOLO XII.
GIUSTIZIA RETRIBUTIVA
.

I NOSTRI lettori potrebbero ricordare la sala delle udienze in cui fummo introdotti all’inizio di questo racconto per assistere al martirio di Ricamato Willow e di sua cugina. La mattina in cui Tchou è stato assicurato alla giustizia, la folla era molto numerosa: due file di agenti di polizia riuscivano a malapena a controllarla. Quando Tchou apparve tra i guardiani che lo conducevano con una catena di ferro, la folla scoppiò in mille grida di rabbia.
Quanto a Ming, aveva ripreso il suo posto presidenziale. Mai era stato più serio, più dignitoso, più orgoglioso della sua carica, più colpito dalla natura grave delle sue funzioni. Su sollecitazione di Perkins aveva esonerato Embroidered Willow dal comparire al processo; ma I-té, il principale accusato, era lì, su uno dei posti riservati sulla pedana, a pochi passi dal tribunale e vicino alla signora Liou. Il presidente del tribunale penale aveva ritenuto indispensabile la loro presenza.
Erano presenti il contrabbandiere e il suo amico Sir Arthur, che aveva avuto un ruolo così importante nell’arresto del vero colpevole. Anche il viceré era rappresentato da un suo ufficiale.
Quando fu ottenuto il necessario silenzio, e il mezzo per arrivare a questo risultato fu un certo numero di colpi di frusta elargiti al pubblico dagli argenti di Fo-hop, Ming cominciò solennemente.

“Tu sei il suddetto Tchou, ex macellaio di Foun-si?” chiese all’imputato.
“Questo è il mio nome,” rispose quest’ultimo con voce roca, “ed ero macellaio a Foun-si.”
“Hai assassinato Ling-Ta-Lang la notte del suo matrimonio?”
“SÌ!”
“Perché hai commesso questo crimine?”
“Perché volevo vendicarmi.”
Per vendicarti? Su chi?”
“Su Embroidered Willow, che mi ha ingannato, che, dopo avermi sorriso, mi ha mandato dei fiori, mi ha promesso la sua mano, ma l’ha data a un altro.”
“Tu menti! codardo!” interruppe la signora Liou, che non riusciva a trattenere la sua indignazione nel sentire sua figlia accusata di tale doppiezza.

Tchou alzò le spalle.

“Questa ragazza,” disse il presidente, “non ti ha mai prestato attenzione.”
“La sua serva era il nostro intermediario.”
“Quella donna ti ha indotto in errore. Non ha mai parlato di te alla sua padrona, e quest’ultima non l’ha mai incaricata di esprimere i sentimenti che non ha mai provato per te”.

A questa dichiarazione dell’intrigo di cui Rose lo aveva reso protagonista, anche se non aveva mai osato rivelarglielo, l’assassino tremò: lo videro impallidire. Ricordò subito la reticenza dell’astuta domestica, le sue varie spiegazioni per giustificare il silenzio della signorina Liou, e capì che era stata questa Rose a mandargli, una sera dalla finestra, i due boccioli di rosa che lo avevano fatto impazzire d’amore. Rimaneva ancora la goccia d’acqua che gli era caduta sul viso il giorno in cui Embroidered Willow aveva innaffiato i suoi fiori, e la risata della ragazza; ma questo non provava nulla contro di lei. Il caso poteva aver causato il primo di questi eventi, e il secondo, che era il risultato del primo, poteva essere solo pura femminilità. Questi pensieri, che si affollavano tumultuosamente nella mente dell’assassino, erano per lui un dolore più terribile di tutti quelli che gli strumenti di tortura potevano infliggere.

“È una sfortuna”, continuò Ming, “che questa serva sia venuta meno, perché avrebbe certamente confessato le sue colpe; ma uno dei tuoi complici, Woum-pi, da cui l’hai fatta rapire da Foun-si, l’ha uccisa piuttosto che consegnarla a coloro che, per giusta rappresaglia, hanno liberato il fiume dai pirati da te comandati”.
A questa notizia gli occhi del macellaio si iniettarono di sangue e le guardie furono costrette a trattenerlo per impedirgli di scagliarsi contro Perkins.
“Inoltre”, proseguì il magistrato, “anche se la signorina Liou avesse risposto alle tue avances, cosa impossibile, il tuo crimine non sarebbe stato meno infame, perché il giovane Ling era innocente e tu i lo hai assassinato. Come hai fatto a fare amicizia con il malcapitato?”.

Poi Tchou raccontò che, incontrando Ling-Ta-Lang in giardino, gli aveva offerto un bicchiere di acqua di riso avvelenata che, secondo l’usanza, non aveva osato rifiutare.
Il pubblico non perse una parola di questo orribile racconto. Tchou non dimenticò nulla: raccontò tutto con cinico gusto e concluse dicendo:
“Mi dispiace solo di non aver potuto vendicarmi ulteriormente. Ora fate di me ciò che volete!”.

A queste parole la folla scoppiò in grida di maledizione; ma Ming impose subito il silenzio e con voce grave pronunciò queste parole:
“Noi, Ming-Liou-ti, mandarino di terza classe, presidente del tribunale penale di Canton, emettiamo la seguente sentenza: Il detto Embroidered Willow e il detto I-té, falsamente accusati di aver assassinato il nobile Ling-Ta- Lang, e condannati per questo crimine di cui sono innocenti, devono essere immediatamente liberati. In nome della giustizia esprimo loro il più profondo rammarico per l’errore di cui sono stati vittime. Il qui nominato Tchou, ex macellaio di Foun-si, ritenuto colpevole di questo stesso assassinio che ha confessato, è condannato alla pena della morte lenta. Lo stesso Tchou sarà giustiziato pubblicamente domani a mezzogiorno. Guardie, prendete i condannati e sgomberate la sala delle udienze del tribunale penale!”.
Tchou ricevette impassibile questa sentenza e, senza opporre resistenza, ritornò in prigione con le sue guide.
La signora Liou e I-té scomparvero per liberare Embroidered Willow.
Quanto a Ming, dopo aver accettato con toccante modestia i complimenti di Perkins e Sir Arthur per il modo in cui aveva condotto il processo, si ritirò con dignità, come si conveniva a un uomo della sua importanza.

La notizia della condanna di Tchou fu presto conosciuta da tutto il popolo, e la mattina dopo, molto prima dell’ora fissata per l’esecuzione, lo spazio dove avrebbe avuto luogo era occupato da una folla immensa: anche le donne, crudelmente curiose, si mostrarono sui terrazzi delle case vicine. Nell’attesa dell’arrivo del condannato, il popolo si divertiva ad osservare la costruzione del patibolo. Era una grande piattaforma, alta circa tre metri, costruita contro l’esterno del muro della prigione.

Una catena al collo.

Gli aiutanti del boia finirono finalmente i loro lugubri preparativi, la porta della prigione si aprì e apparve l’assassino. Due agenti di polizia lo trascinarono fuori, con una catena al collo. Non aveva perso nulla della sua audacia: lo stesso sorriso feroce gli incurvava le labbra. Lanciando uno sguardo feroce a coloro che lo fischiavano, avanzò con passo deciso. Roumi lo seguì, portando sulle spalle un pesante cesto. Ne seguì l’orribile dramma della morte lenta, che consistette nello smembrare il condannato e infine nel tagliargli la testa.
Alla stessa ora la cittadina di Foun-si fu teatro di un altro spettacolo. La notizia dell’innocenza di Embroidered Willow e della condanna di Tchou causò una gioia immensa. Tutta la popolazione era venuta a incontrare la signora Liou e sua figlia, che Ming aveva riportato indietro con la sua più bella barca.

Quando le due donne sbarcarono, mille acclamazioni gioiose le accolsero, e furono condotte sotto gli archi di fogliame di cui era ornata in loro onore la Via dei battilori d’oro. Il grande mandarino diede il braccio alla signora Liou: I-té strinse al cuore quello di suo cugino. Il giovane scriba si era completamente ripreso dalle ferite e Salice Ricamato stava già cominciando a recuperare la sua precedente freschezza e bellezza. Perkins e Sir Arthur la seguirono.

Il corteo raggiunse presto la casetta dove la sfortuna era entrata così spietatamente tre mesi prima, e quando Ming si chinò rispettosamente davanti alla signora Liou per salutarla, lei lanciò un grido di sorpresa. La casa di Tchou era scomparsa! Il luogo che occupava, pochi giorni prima, si trasformò improvvisamente in un bellissimo giardino, in mezzo al quale si trovava un incantevole chiosco. Il ricco presidente del tribunale penale aveva compiuto questo miracolo mediante alcune piastre somministrate giudiziosamente ai giardinieri cinesi.

“Signora”, disse alla madre di Embroidered Willow, “non desidero che nulla ricordi il passato alla vostra adorabile figlia: vi prego di permetterle di accettare questo ricordo come espressione del mio rammarico, e come mio regalo di matrimonio.”

Molto commossa da questo procedimento, e dimenticando nel mezzo della sua gioia tutto ciò che quest’uomo le aveva fatto soffrire, la signora Liou difficilmente riuscì a trovare le parole per esprimere la sua gratitudine. Il grande magistrato, un po’ imbarazzato anche lui, approfittò dell’esitazione della signora per salutarla per l’ultima volta, e tornò dall’amico Perkins, che gli prese la mano dicendo:
“È splendido! Ming, sei davvero una persona di buon cuore.”

“Ah mio caro capitano,” rispose con modestia il mandarino, “faccio del mio meglio per imitarvi. Ma andiamo: queste emozioni mi turbano. Fortunatamente l’avevo previsto. Il mio maggiordomo ha preparato un’ottima cena, alla quale vi invito a condividere con me. Spero che anche il tuo amico mi faccia l’onore di accettare il mio invito.”

Sir Arthur si inchinò e sorrise, e Ming, con l’abbandono più commovente, fece scivolare il suo braccio in quello del contrabbandiere, e la sua barca li riportò tutti a Honan, dove, mentre il boia si sbarazzava del corpo di Tchou, e Salice Ricamato e I-té fissavano la data del loro imminente matrimonio, il magistrato sibaritico si sedette a tavola con i suoi ospiti, e disse, con una voce piena di emozione.

“Ebbene, miei cari amici, me la sono cavata bene. Senza di voi forse avrei ricevuto cento colpi di bambù.”

Tale è stato l’epilogo dell’errore giudiziario del presidente Ming. Qual è il mistero che una goccia d’acqua, destinata a far sbocciare dei fiori, faccia invece sgorgare rivi di sangue?

Era Fatality?
Fine.


Il codice Cinese – Estratto dal Libro di Antonio Caccia – 1858
Il Lingchi traducibile come processo lento o morte dai mille tagli (Wiki)

Racconto tratto da: Demorest’s Monthly
Digitalizzato in Google Libri
Tradotto con Google, Deepl, Reverso.

Finito il 15/04/2024.

Dedicato a Mino, il mio gatto che in questo periodo non è più tornato a casa.