IL CARNEVALONE DI MILANO

1843

Il carnevalone! Parola piuttosto lunga, gonfia, rimbombante, che nulla ha con sè del vezzeggiativo e del gentile, che unisce con sè un’idea di forza e di melensaggine indeterminata, di volgare e di scortese, e che poi è così liberale a noi, e alla nostra fantasia di piaceri, di godimenti e d’illusioni: il carnevalone! e chi non lo conosce? Chi non lo ama? Chi non lo sospira, non l’ applaude, non lo festeggia come si può desiderare il sorriso d’un’amica, e si può far festa ad una buona nuova?
Uomini severi, facce pallide e lunghe, teste a mezzo incappucciate, non me ne fate un aggravio; non chiamatemi frivolo, leggiero, miserabile, perchè anch’ io l’amo, lo accarezzo, lo godo questo carnevalone. Si, io l’amo, come un amico della mia infanzia, come una delle più care e vive ricordanze de’ miei primi anni; l’ amo come un conforto, come un sollievo, come un soave oblio nei giorni meno ridenti, perchè non più rallegrati dalle speranze che li facevano così belli. L’amo perchè è tutto nostro, del mio paese, tutto esclusivo a lui; perchè non posso gioirne che a Milano; non a Londra, non a Parigi e non a Madrid; e l’amo infine perchè mi ringiovanisce, mi dà lena, mi dà brio, e perchè mette ad un solo livello, sebbene per pochi istanti, tutte le capacità, tulle le classi, tutte le miserie e tutte le grandezze.
Sono questi i Saturnali, e i Baccanali di Roma, giorni unici, giorni d’allegria e di piaceri, in cui in Roma gli stessi schiavi erano, durante almeno questo breve periodo, ritenuti liberi: la gioja di questi giorni poteva sulla superba indifferenza degli orgogliosi Romani più che la ragione, più che gli schiamazzi de’ retori, e la parola de’ filosofi.
I dominatori del mondo rendevano al mondo e agli uomini alcuni giorni di libertà, e questi giorni erano quelli consacrati alle feste prima di Saturno, quindi di Bacco, che corrispondono ai nostri del carnevale. – Lo schiavo che jeri non osava di fissare i suoi occhi in quelli d’un cittadino di Roma, invitava il suo padrone a mangiar seco sedevano allo stesso desco, bevevano nella stessa tazza, si porgevano le mani, si confondevano insieme, quasi il ruvido dell’una non potesse parere di troppo sensibile alla morbidezza dell’altra.
Ma questo carnevalone che io amo tanto e che molti amano ancora più di me, d’onde viene esso? Chi lo ha portato fra noi? Chi lo ha messo al mondo? Perchè la sola Milano avrà questo privilegio? Perchè mai, mentre per ogni dove, da un’estremità all’altra d’Italia, nella maggior parte d’Europa, il tripudio, le gioje, le maschere, i balli, i corsi hanno ora cessato, e al suono dei violini e de’ timballi è succeduto il grave, melanconico delle campane, alla generale ilarità il raccoglimento, al fasto e alla gioja la mestizia, allo splendore delle vesti, al bagliore degli smeraldi le tonache a corruccio, ed i veli neri; perchè qui ancora si ride, si salta, si corre, si grida, s’imbandiscono le liete mense dove spuma lo Champagne, fumeggia il risotto, e piramidale s’innalza un pasticcio di Ruffec o di Strasburgo? Perché qui da ogni parte accorrono per godere ancora di quattro giorni di carnevale gli abitanti delle altre città a cinquanta, settanta, e fino a cento miglia distanti? Perchè mentre le vie delle altre città sono mute e deserte, da agitate e piene che erano due giorni sono, le nostre esultano stipate di gente, di pedoni, di cocchi e di cavalieri? Perchè mentre nelle altre città giace, come segnale d’una gioja che non è più, imbianchita la terra pei gettati coriandoli, qui ancora continua la battaglia, e ferve la mischia? Perchè mentre tutti gli altri teatri, e piccoli e grandi, sono muti e deserti, o annojati dalle smanie, e dal sentimentalismo di una prima donna comica, qui ancora canta la Frezzolini o la De Giuli, e danzano la inimitabil Taglioni, e la voluttuosa Cerrito, e quindi si protrae fra le danze, fra le maschere, fra le gioje, fra i conviti, e fra i lieti viva la notte? Qual è mai questo privilegio; d’onde egli deriva e perché?
E qui si, che io vorrei far l’erudito spolverizzando vecchie pergamene, affogandomi negli archivi, per trovare a chi si debba dar ragione fra i tanti, che cosi diversamente narrano la cosa. Ma che servirebbe a voi, che cosa farebbe a me, quando ben la sapessimo; perchè andrò io a spaventare la povera famiglia de’ sorci che anch’essa farà il suo carnevalone nelle biblioteche, perchè? E che! Forse il carnevalone ha bisogno d’ una fede di nascita per far valere la sua legittimità? Oh no, che egli sia nato fra noi, nel secolo in cui si trovò la stampa, o in quello in cui ancora si giudicava da una corte d’amore sulla fedeltà e il buon gusto degli amanti, non m’importa, e credo che poco importerà a voi.
Non dimandiano al sole perchè ci riscaldi e ci ravvivi; ma godiamo di lui e de’ suoi raggi.
Aspettiamo a scrivere la sua vita quando sarà morto, e in questo caso non togliamo ad altri l’ufficio di fabbricare articoli necrologici. Il carnevalone non è morto, e non vuol morire per ora; il carnevalone esiste, il carnevalone parla e mangia con cento bocche, corre con cento piedi, e vede con cent’occhi; e ancora è fresco, ancora giovane, ancora gajo; il carnevalone adunque non può entrare nel dominj dei cronologisti, nè esser preda degli antiquari e degli archeologi.
E il carnevalone non è solo il compagno dei Milanesi, ma anche la gioja, l’amico, il confidente del Provinciale; e il Provinciale corre a Milano, viene a vedere il carnevalone per ridere con lui, per bearsi con lui, per bere e mangiare insieme con lui, per saltare, gridare in sua compagnia. E il Provinciale è anche più ostinato del Milanese. Il Provinciale è più costante, più intrepido, più insistente: egli è con lui al mattino a veder Brera e l’Arco della Pace; con lui al corso a gettare e ricevere i coriandoli sul naso, negli occhi e sulle labbra; con lui a pranzo e con lui la sera. Egli, il Provinciale, entra in Milano o per posta, o in vettura, o anche a piedi; e appena entrato, domanda del suo buon amico, della sua conoscenza dell’anno scorso, del carnevalone; e come generalmente entra di sera, cosi non ha a confondersi per trovarlo. Il Provinciale che è venuto in posta corre alla Scala, e là lo trova al festino del mercoledì, gli si fa compagno e non lo lascia più. Colui che ha viaggiato tutta la notte e tutto il giorno in vettura per fare cinquanta miglia, va o alla Canobbiana, o al Carcano; colui che è entrato a piedi, va ai festini di Santa Radegonda, va alle osterie, va alle bettole.
Il carnevalone cambia abiti, cambia mode, cambia etichetta, cambia equipaggi, cambia livree, e cambia di stanza e di dimora, ma è sempre lo stesso dappertutto, ha sempre lo stesso nome, l’istesso istinto e l’istesso buon umore. Vestitelo di seta, copritelo d’oro, di gemme e di diplomi, e indossategli un abito modesto, un abito che ha perduto il colore sotto l’acqua e sotto i raggi del sole; esso si mostrerà sempre colla stessa faccia ridente, sempre colla stessa festività, colla stessa famigliarità e colle stesse stravaganze.
Il carnevalone non ha mattino, e non ha sera; esso non dorme mai, e il Provinciale per quattro giorni e quatto notti vive sempre con lui, si regge per lui, e veglia al par di lui. Il Milanese generalmente invece si riposa un istante, se però si può domandare riposo quello di ritirarsi in una stanza; nè il Milanese anch’esso dorme perciò; il carnevalone si fa sentire a lui quand’anche sta rinchiuso nelle sue stanze, egli si affaccia gridando, cantando alla finestra, bussa alla sua porta, lo domanda, lo chiede dalla strada. Appena è egli ritirato che gli è mestiere uscire e presentarsi; egli incomincia dal lamentarsi e dal lagnarsi, quindi ride, balla, salta, gozzoviglia con lui, vive col suo amico, lo festeggia e lo ringrazia.
Viva il carnevalone e le sue cento feste, i suoi corsi, i suoi pranzi, e le sue maschere, le sue gioje e i suoi canti: viva il carnevalone! E voi, filosofi del giorno, che speculate sulle gioje e sulle miserie dell’umanità, specchiatevi in un popolo che unito intimamente, allegro, stipato insieme, gode, ride, balla, canta e si diverte; non invidiategli questo momento di contento, d’obblio e di storditezza, se così volete; non invidiate a lui quello che non potete goder voi; anche l’allegria ha la sua morale, e non v’ha che l’uomo dai rimorsi che non sia e non abbia ad esser lieto, festevole, gaudente; che non abbia a ridere, a scherzare, a ballare, a correre, a saltare, a far l’ amore, ad impazzare almeno una volta all’anno.
E beati quelli che sanno di fare i pazzi: questi sono i soli che non diventeranno mai tali.

Tratto da: Molte frasche e poche frutta scritti editi ed inediti: 2, Volumi 1-2
Di Antonio Cazzaniga

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